Fiera del libro. La libertà non ha confini né bandiere
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- Date: Wed, 5 Mar 2008 15:10:40 +0100
Fiera del libro. La libertà
non ha confini né bandiere Ogni anno la Fiera del
libro di Torino invita un paese diverso e suoi scrittori quali protagonisti di
incontri, dibattiti, approfondimenti. Nel 2008 avrebbe dovuto essere invitato
l’Egitto, ma per la concomitanza con un evento culturale di grande rilievo in
quel paese, non se ne è fatto nulla. Israele ha quindi avanzato la propria
candidatura, anche alla luce del fatto che nel 2008 cadono i sessant’anni dalla
proclamazione dello stato ebraico (14.5.1948). La stessa data segna per i
palestinesi l’inizio della perdita della loro terra e viene ricordata come la
“catastrofe”. È nata quindi l’idea di una serie di iniziative di protesta e di
sensibilizzazione sulla situazione del popolo palestinese da tenersi in
concomitanza con la Fiera del libro, compresa quella del boicottaggio della
Fiera stessa. Val la pena a questo punto riflettere sui meccanismi all’opera in
questa vicenda. Ci sono alcune parole
intorno alle quali si articolano i discorsi intorno alla costruzione dello stato
moderno e sono: terra, popolo, nazione, confini. Si determina quindi uno stretto
legame tra libertà, identità e stato, visto come l’unico strumento per affermare
completamente la propria autonomia e autodeterminazione rispetto agli altri
popoli. Ancora oggi, nel mondo da tutti ritenuto globalizzato, gli stati nascono
e proliferano per spinta dal basso di popolazioni viventi su di un certo
territorio e per impulso dall’alto di potenze che utilizzano l’arma nazionalista
nello scontro con altre potenze. I casi della disgregazione dell’Unione
sovietica e della Jugoslavia sono emblematici del complesso gioco tra interessi
eterogenei che portano alla nascita di uno stato ancora oggi, come nel caso del
Kosovo, regione serba a maggioranza albanese che ospita grandi basi americane
ormai dalla “guerra umanitaria” condotta dalla Nato per difenderne la
popolazione dall’asserito pericolo di “genocidio” da parte dei serbi. Così, i
“popoli senza stato”, come i kurdi ed i palestinesi, per citare i più famosi,
rivendicano non solo un certo grado di autonomia rispetto agli stati tra i quali
è spartita la loro terra, ma la creazione di un proprio stato come unica
condizione in grado di garantire sicurezza e libertà. La bandiera diventa
simbolo della nazione, da sventolare mentre, magari, si strappano o bruciano
quelle altrui. Stato, confini, bandiera: tutto lo strumentario dello stato
nazionale è applicato ancora oggi a livello non solo simbolico ed è bagaglio
della competizione politica sia nazionale che
internazionale. Come accennato, il fatto
che una minoranza “oppressa” possa assurgere al livello di stato viene letta
come unica via per la tutela della minoranza stessa, sia da parte dei membri
della minoranza che da parte di interessati “protettori”. Così, scendono in
campo altre parole a complicare il nostro quadro, a sfumarlo. Sono: diritti
umani, minoranza, vittima. L’essere o l’essere stati vittime di ingiustizia
offre una patente morale che vela gli attuali comportamenti ingiusti. Su questo
piano, il simbolico ha un peso talora decisivo. Fatti, tragedie, reali, vengono
amplificati ed utilizzati come veri e propri strumenti di propaganda, ancora
decenni dopo i fatti reali. Il caso dell’olocausto è paradigmatico. Non solo
esso ha agito potentemente al momento della nascita dello stato di Israele per
giustificarla, ma ancora oggi riverbera i suoi effetti sul presente. Così per la
storia di persecuzioni cui gli ebrei furono sottoposti nell’occidente cristiano,
in misura incomparabile rispetto ai paesi musulmani dove hanno quasi sempre
prosperato, fino al ‘900. L’essere stato vittima rende giusti, giustifica,
dicevamo, i comportamenti attuali. Non c’è nessun legame tra le camere a gas e
l’occupazione coloniale nei confronti dei palestinesi, eppure l’accusa di
antisemitismo pende sempre sul capo di chi critica lo stato di Israele per i
suoi comportamenti nei confronti dei palestinesi. In modo analogo, l’uso del
terrorismo (parliamo di bombe sugli autobus o nei bar che uccidono “nel
mucchio”) viene giustificato dai comportamenti colonialisti di Israele e dal suo
altrettanto terroristico uso della violenza (parliamo ad esempio di
bombardamenti aerei, navali e terrestri su villaggi di civili). L’asimmetria tra
le forze in campo fa sì che i morti palestinesi siano tre volte quelli
israeliani. L’asimmetria tra l’olocausto e l’occupazione della Cisgiordania e di
Gaza fa sì che i morti israeliani “pesino” di più sulla stampa
occidentale di quelli palestinesi. Mentre i palestinesi sono una minoranza
oppressa, Israele si dipinge oggi quasi fosse in una situazione da 1948 o 1967,
attaccato contemporaneamente da tutti i paesi confinanti musulmani, isola
occidentale in un mare di bandiere verdi musulmane. Vero è che il ritorno
prepotente della religione al centro del dibattito e dell’agire politico ha
complicato ulteriormente le cose. Se Israele è “lo stato degli ebrei”, i
musulmani vivono in molti stati. Di fronte all’incertezza indotta da un mondo
globalizzato, la religione, potente strumento di identità, è balzata in primo
piano nel mondo musulmano. Nel corso degli anni ’80, gli USA ed Israele hanno
favorito lo svilupparsi di gruppi religiosi, anche fondamentalisti in funzione
antisovietica, come in Afganistan, o per contrastare la laica OLP di Arafat. Il
risultato è sotto gli occhi di tutti e vede un rinnovato protagonismo e
centralità dell’islam nel discorso politico. La rivoluzione khomenista in Iran
ci ha messo il resto. Senza religione non ci sarebbero gli attacchi suicidi. Lo
scontro tra ebrei e musulmani era sullo sfondo rispetto a quello tra israeliani
e palestinesi e altri paesi arabi. Oggi non è più così. Da un lato la
composizione sociale di Israele è profondamente cambiata: le prime generazioni
di immigrati, provenienti dall’Europa e guidate da una classe dirigente sionista
imbevuta di illuminismo e socialismo (cosa che non ha impedito loro di iniziare
a cacciare i palestinesi dalla loro terra), hanno lasciato il posto a ondate
migratorie di ebrei provenienti dalla Russia e da paesi del Nord Africa e
dall’Asia, in genere di estrazione sociale bassa e più legati alla tradizione,
se non smaccatamente di destra. Così, un processo iniziato negli anni ’70, dopo
la vittoriosa guerra del 1967, ha portato in Israele alla costituzione di
partiti ortodossi, divenuti rapidamente l’ago della bilancia parlamentare.
Stanchi della corruzione di Fatah, il movimento politico da sempre dominante in
Palestina, attraverso libere elezioni i palestinesi hanno scelto un governo
guidato da un movimento religioso come Hamas, affermatosi negli anni anche
grazie ad un capillare lavoro sul territorio di assistenza e condivisone delle
dure condizioni della popolazione. In Libano il radicamento di un movimento
nazionale sciita come Hezbollah ha resistito alla guerra dello scorso anno da
parte di Israele. Del resto, la destra fondamentalista cristiana americana e la
destra israeliana si identificano nella difesa di Sion dai pericoli che la
minacciano: e Sion è l’Occidente. Che il presidente iraniano Ahmadinejad
sostenga pubblicamente che Israele debba essere cancellato dalla carta
geografica offre più di uno spunto alla sindrome vittimaria, vera o simbolica,
che alimenta la politica internazionale. Ancora, all’Occidente
giudaico-cristiano, liberale, basato sui diritti civili e sulla democrazia, si
può opporre un Oriente musulmano, liberticida, dispotico e oscurantista. Da qui
potenti simboli propagandistici a sostegno dell’esportazione della democrazia
per via armata. Da qui la contrapposizione tra combattenti islamici e “crociati
infedeli”. Ma da qui, anche l’indissolubile legame tra politica e religione
quando si parla di Medio Oriente, nel momento in cui la religione diventa
centrale in movimenti come Hamas o Hezbollah, costituendo il motore della loro
azione sociale e politica nei confronti di uno stato cui si appartiene (in
stragrande maggioranza) perchè si appartiene ad una certa religione, quella
ebraica: stato quindi dove la religione è costitutiva dell’identità
nazionale. Ma il conflitto tra
palestinesi ed israeliani non ha solo natura politica e religiosa: il possesso
della terra, di “una terra”, va anche declinato in termini economici. Israele è
una potenza regionale non solo militare, ma anche economica, con un territorio,
fino al 1967, assai scarso. L’occupazione delle terre palestinesi, la
costruzione di colonie, hanno avuto ed hanno le modalità rapaci e predatorie del
colonialismo di ogni tempo. La manodopera palestinese a basso costo è stato uno
dei motori dell’economia israeliana per molti anni, fino a che è stata in parte
sostituita dalle ondate immigratorie di ebrei “poveri” dal Magreb e dalla
Russia. La precarietà della condizione palestinese, imposta con la forza
militare da Israele, è quindi anche precarietà economica, povertà “strutturale”,
mancanza di risorse e quindi di autonomia. Ironicamente, cristianesimo
islam ed ebraismo sono definite “religioni del libro”, basandosi su testi
“rivelati” come Bibbia e Corano. E dalla “Fiera del libro” eravamo partiti. Il
fatto che Israele sia il paese ospitato proprio nel sessantesimo della sua
nascita coincisa con l’inizio della sistematica cacciata dei palestinesi dalle
loro terre, ha costituito la molla di una dura polemica su media e giornali,
quando si è iniziato a parlare di boicottaggio della Fiera stessa. I concetti
cui abbiamo accennato sopra (stato, religione, vittima) si sono messi
potentemente all’opera, branditi dai due fronti contrapposti. Anche qui si è
verificata un’asimmetria evidente. Il fronte del boicottaggio è davvero poca
cosa in termini numerici e mediatici rispetto alla stragrande maggioranza di
giornali e tv, compattamente schierati pro Israele. Per non parlare delle
istituzioni, dal presidente della repubblica in giù. O dei partiti politici:
tutta la destra compatta è dalla parte di Israele, nonché il Pd. Eppure Israele
è presentato ancora come “vittima”, come se il suo “diritto ad uno stato” fosse
minacciato, come se questa minaccia nascesse dal fatto che Israele è Occidente e
vessillo di democrazia, la quale democrazia è frutto naturale della “religione
ebraica e cristiana”. Sul fronte opposto, si chiede che ai palestinesi,
“vittime” dell’oppressione israeliana, sia riconosciuto il “diritto ad uno
stato”, unico vero strumento di libertà ed autodeterminazione. I due fronti si
battono a colpi di bandiere, sventolate ed indossate, ciascuno in difesa di una
“vittima” e proiettando sulla stessa i conflitti interni, nazionali e pure
locali, brandendo contro l’altra parte accuse di antisemitismo o di nazismo
(questa ultima accusa è lanciata reciprocamente: Israele sarebbe nazista e pure
chi l’accusa per il suo trattamento dei
palestinesi). Chi come gli anarchici ed i
libertari si batte per un mondo “senza dio né stato” non vede nella religione e
nelle istituzioni statali un mezzo di liberazione, anzi li identifica come le
due maggiori maschere del potere che opprime i singoli. Liberarsi da
un’oppressione statale costituendo un’altro stato è per gli anarchici una
contraddizione in termini. Il problema è distruggere, disgregare la forma stato
che continua, nonostante gli acciacchi ed il tempo, ad essere protagonista di un
mondo che si dice globalizzato. Anzi, è proprio la forma stato che viene con
duttilità utilizzata per modellare i rapporti di forza tra potenze: stati
nascono, stati vengono invasi, stati muoiono o vengono fatti a pezzi tra stati
diversi. Ovunque nascono nuove gerarchie, nuove burocrazie, nuove classi
politiche, nuove polizie, nuovi eserciti. Tutto l’armamentario dello stato e
della sua oppressione. E non di rado a questa oppressione si aggiunge quella
religiosa: lo stato è garante dei privilegi della chiesa, di ogni chiesa, e ne
impone con la forza le regole di comportamento, di disciplinamento delle
coscienze, disciplinamento di cui lo stato naturalmente ringrazia. L’oppressione
coloniale dello stato di Israele nei confronti dei palestinesi, oppressione
contro cui si deve combattere, può finire certo come sono finite altre guerre di
liberazione coloniale, con la creazione di un nuovo stato. Lo scrollarsi di
dosso l’oppressione militare ed economica dello stato di Israele è solo un pezzo
del percorso verso la libertà: fermarsi alla creazione di un’altro micro stato e
vedere in esso la soluzione dei problemi, ancor più se questo stato si
connotasse in senso religioso, per gli anarchici sarebbe il modo di frustrare
l’anelito di libertà che viene dalla lotta del popolo palestinese. Ai
palestinesi oppressi, sfruttati, massacrati va tutta la nostra solidarietà.
Insieme a loro, e con gli israeliani che rifiutano e si battono contro
l’apartheid, è necessario lottare per una solidarietà internazionalista vera,
che non sia parteggiare per un nazionalismo piuttosto che un altro. Il nostro
impegno rimane l’abolizione di ogni stato e di ogni frontiera, contro lo
sfruttamento capitalista dell’uomo sull’uomo, contro ogni forma di totalitarismo
religioso che asservisce le coscienze, per un mondo di uomini e donne liberi ed
uguali. Torino, 4
marzo 2008 Federazione Anarchica Torinese –
FAI Corso
Palermo 46 – Torino 011
857850 – 338 6594361 fat at inrete.it |
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