Fiera del libro. La libertà non ha confini né bandiere



Fiera del libro. La libertà non ha confini né bandiere

 

Ogni anno la Fiera del libro di Torino invita un paese diverso e suoi scrittori quali protagonisti di incontri, dibattiti, approfondimenti. Nel 2008 avrebbe dovuto essere invitato l’Egitto, ma per la concomitanza con un evento culturale di grande rilievo in quel paese, non se ne è fatto nulla. Israele ha quindi avanzato la propria candidatura, anche alla luce del fatto che nel 2008 cadono i sessant’anni dalla proclamazione dello stato ebraico (14.5.1948). La stessa data segna per i palestinesi l’inizio della perdita della loro terra e viene ricordata come la “catastrofe”. È nata quindi l’idea di una serie di iniziative di protesta e di sensibilizzazione sulla situazione del popolo palestinese da tenersi in concomitanza con la Fiera del libro, compresa quella del boicottaggio della Fiera stessa. Val la pena a questo punto riflettere sui meccanismi all’opera in questa vicenda.

 

Ci sono alcune parole intorno alle quali si articolano i discorsi intorno alla costruzione dello stato moderno e sono: terra, popolo, nazione, confini. Si determina quindi uno stretto legame tra libertà, identità e stato, visto come l’unico strumento per affermare completamente la propria autonomia e autodeterminazione rispetto agli altri popoli. Ancora oggi, nel mondo da tutti ritenuto globalizzato, gli stati nascono e proliferano per spinta dal basso di popolazioni viventi su di un certo territorio e per impulso dall’alto di potenze che utilizzano l’arma nazionalista nello scontro con altre potenze. I casi della disgregazione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia sono emblematici del complesso gioco tra interessi eterogenei che portano alla nascita di uno stato ancora oggi, come nel caso del Kosovo, regione serba a maggioranza albanese che ospita grandi basi americane ormai dalla “guerra umanitaria” condotta dalla Nato per difenderne la popolazione dall’asserito pericolo di “genocidio” da parte dei serbi. Così, i “popoli senza stato”, come i kurdi ed i palestinesi, per citare i più famosi, rivendicano non solo un certo grado di autonomia rispetto agli stati tra i quali è spartita la loro terra, ma la creazione di un proprio stato come unica condizione in grado di garantire sicurezza e libertà. La bandiera diventa simbolo della nazione, da sventolare mentre, magari, si strappano o bruciano quelle altrui. Stato, confini, bandiera: tutto lo strumentario dello stato nazionale è applicato ancora oggi a livello non solo simbolico ed è bagaglio della competizione politica sia nazionale che internazionale.

Come accennato, il fatto che una minoranza “oppressa” possa assurgere al livello di stato viene letta come unica via per la tutela della minoranza stessa, sia da parte dei membri della minoranza che da parte di interessati “protettori”. Così, scendono in campo altre parole a complicare il nostro quadro, a sfumarlo. Sono: diritti umani, minoranza, vittima. L’essere o l’essere stati vittime di ingiustizia offre una patente morale che vela gli attuali comportamenti ingiusti. Su questo piano, il simbolico ha un peso talora decisivo. Fatti, tragedie, reali, vengono amplificati ed utilizzati come veri e propri strumenti di propaganda, ancora decenni dopo i fatti reali. Il caso dell’olocausto è paradigmatico. Non solo esso ha agito potentemente al momento della nascita dello stato di Israele per giustificarla, ma ancora oggi riverbera i suoi effetti sul presente. Così per la storia di persecuzioni cui gli ebrei furono sottoposti nell’occidente cristiano, in misura incomparabile rispetto ai paesi musulmani dove hanno quasi sempre prosperato, fino al ‘900. L’essere stato vittima rende giusti, giustifica, dicevamo, i comportamenti attuali. Non c’è nessun legame tra le camere a gas e l’occupazione coloniale nei confronti dei palestinesi, eppure l’accusa di antisemitismo pende sempre sul capo di chi critica lo stato di Israele per i suoi comportamenti nei confronti dei palestinesi. In modo analogo, l’uso del terrorismo (parliamo di bombe sugli autobus o nei bar che uccidono “nel mucchio”) viene giustificato dai comportamenti colonialisti di Israele e dal suo altrettanto terroristico uso della violenza (parliamo ad esempio di bombardamenti aerei, navali e terrestri su villaggi di civili). L’asimmetria tra le forze in campo fa sì che i morti palestinesi siano tre volte quelli israeliani. L’asimmetria tra l’olocausto e l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza fa sì che i morti israeliani “pesino” di più sulla stampa occidentale di quelli palestinesi. Mentre i palestinesi sono una minoranza oppressa, Israele si dipinge oggi quasi fosse in una situazione da 1948 o 1967, attaccato contemporaneamente da tutti i paesi confinanti musulmani, isola occidentale in un mare di bandiere verdi musulmane.

Vero è che il ritorno prepotente della religione al centro del dibattito e dell’agire politico ha complicato ulteriormente le cose. Se Israele è “lo stato degli ebrei”, i musulmani vivono in molti stati. Di fronte all’incertezza indotta da un mondo globalizzato, la religione, potente strumento di identità, è balzata in primo piano nel mondo musulmano. Nel corso degli anni ’80, gli USA ed Israele hanno favorito lo svilupparsi di gruppi religiosi, anche fondamentalisti in funzione antisovietica, come in Afganistan, o per contrastare la laica OLP di Arafat. Il risultato è sotto gli occhi di tutti e vede un rinnovato protagonismo e centralità dell’islam nel discorso politico. La rivoluzione khomenista in Iran ci ha messo il resto. Senza religione non ci sarebbero gli attacchi suicidi. Lo scontro tra ebrei e musulmani era sullo sfondo rispetto a quello tra israeliani e palestinesi e altri paesi arabi. Oggi non è più così. Da un lato la composizione sociale di Israele è profondamente cambiata: le prime generazioni di immigrati, provenienti dall’Europa e guidate da una classe dirigente sionista imbevuta di illuminismo e socialismo (cosa che non ha impedito loro di iniziare a cacciare i palestinesi dalla loro terra), hanno lasciato il posto a ondate migratorie di ebrei provenienti dalla Russia e da paesi del Nord Africa e dall’Asia, in genere di estrazione sociale bassa e più legati alla tradizione, se non smaccatamente di destra. Così, un processo iniziato negli anni ’70, dopo la vittoriosa guerra del 1967, ha portato in Israele alla costituzione di partiti ortodossi, divenuti rapidamente l’ago della bilancia parlamentare. Stanchi della corruzione di Fatah, il movimento politico da sempre dominante in Palestina, attraverso libere elezioni i palestinesi hanno scelto un governo guidato da un movimento religioso come Hamas, affermatosi negli anni anche grazie ad un capillare lavoro sul territorio di assistenza e condivisone delle dure condizioni della popolazione. In Libano il radicamento di un movimento nazionale sciita come Hezbollah ha resistito alla guerra dello scorso anno da parte di Israele. Del resto, la destra fondamentalista cristiana americana e la destra israeliana si identificano nella difesa di Sion dai pericoli che la minacciano: e Sion è l’Occidente. Che il presidente iraniano Ahmadinejad sostenga pubblicamente che Israele debba essere cancellato dalla carta geografica offre più di uno spunto alla sindrome vittimaria, vera o simbolica, che alimenta la politica internazionale. Ancora, all’Occidente giudaico-cristiano, liberale, basato sui diritti civili e sulla democrazia, si può opporre un Oriente musulmano, liberticida, dispotico e oscurantista. Da qui potenti simboli propagandistici a sostegno dell’esportazione della democrazia per via armata. Da qui la contrapposizione tra combattenti islamici e “crociati infedeli”. Ma da qui, anche l’indissolubile legame tra politica e religione quando si parla di Medio Oriente, nel momento in cui la religione diventa centrale in movimenti come Hamas o Hezbollah, costituendo il motore della loro azione sociale e politica nei confronti di uno stato cui si appartiene (in stragrande maggioranza) perchè si appartiene ad una certa religione, quella ebraica: stato quindi dove la religione è costitutiva dell’identità nazionale.

Ma il conflitto tra palestinesi ed israeliani non ha solo natura politica e religiosa: il possesso della terra, di “una terra”, va anche declinato in termini economici. Israele è una potenza regionale non solo militare, ma anche economica, con un territorio, fino al 1967, assai scarso. L’occupazione delle terre palestinesi, la costruzione di colonie, hanno avuto ed hanno le modalità rapaci e predatorie del colonialismo di ogni tempo. La manodopera palestinese a basso costo è stato uno dei motori dell’economia israeliana per molti anni, fino a che è stata in parte sostituita dalle ondate immigratorie di ebrei “poveri” dal Magreb e dalla Russia. La precarietà della condizione palestinese, imposta con la forza militare da Israele, è quindi anche precarietà economica, povertà “strutturale”, mancanza di risorse e quindi di autonomia.

 

Ironicamente, cristianesimo islam ed ebraismo sono definite “religioni del libro”, basandosi su testi “rivelati” come Bibbia e Corano. E dalla “Fiera del libro” eravamo partiti. Il fatto che Israele sia il paese ospitato proprio nel sessantesimo della sua nascita coincisa con l’inizio della sistematica cacciata dei palestinesi dalle loro terre, ha costituito la molla di una dura polemica su media e giornali, quando si è iniziato a parlare di boicottaggio della Fiera stessa. I concetti cui abbiamo accennato sopra (stato, religione, vittima) si sono messi potentemente all’opera, branditi dai due fronti contrapposti. Anche qui si è verificata un’asimmetria evidente. Il fronte del boicottaggio è davvero poca cosa in termini numerici e mediatici rispetto alla stragrande maggioranza di giornali e tv, compattamente schierati pro Israele. Per non parlare delle istituzioni, dal presidente della repubblica in giù. O dei partiti politici: tutta la destra compatta è dalla parte di Israele, nonché il Pd. Eppure Israele è presentato ancora come “vittima”, come se il suo “diritto ad uno stato” fosse minacciato, come se questa minaccia nascesse dal fatto che Israele è Occidente e vessillo di democrazia, la quale democrazia è frutto naturale della “religione ebraica e cristiana”. Sul fronte opposto, si chiede che ai palestinesi, “vittime” dell’oppressione israeliana, sia riconosciuto il “diritto ad uno stato”, unico vero strumento di libertà ed autodeterminazione. I due fronti si battono a colpi di bandiere, sventolate ed indossate, ciascuno in difesa di una “vittima” e proiettando sulla stessa i conflitti interni, nazionali e pure locali, brandendo contro l’altra parte accuse di antisemitismo o di nazismo (questa ultima accusa è lanciata reciprocamente: Israele sarebbe nazista e pure chi l’accusa per il suo trattamento dei palestinesi).

Chi come gli anarchici ed i libertari si batte per un mondo “senza dio né stato” non vede nella religione e nelle istituzioni statali un mezzo di liberazione, anzi li identifica come le due maggiori maschere del potere che opprime i singoli. Liberarsi da un’oppressione statale costituendo un’altro stato è per gli anarchici una contraddizione in termini. Il problema è distruggere, disgregare la forma stato che continua, nonostante gli acciacchi ed il tempo, ad essere protagonista di un mondo che si dice globalizzato. Anzi, è proprio la forma stato che viene con duttilità utilizzata per modellare i rapporti di forza tra potenze: stati nascono, stati vengono invasi, stati muoiono o vengono fatti a pezzi tra stati diversi. Ovunque nascono nuove gerarchie, nuove burocrazie, nuove classi politiche, nuove polizie, nuovi eserciti. Tutto l’armamentario dello stato e della sua oppressione. E non di rado a questa oppressione si aggiunge quella religiosa: lo stato è garante dei privilegi della chiesa, di ogni chiesa, e ne impone con la forza le regole di comportamento, di disciplinamento delle coscienze, disciplinamento di cui lo stato naturalmente ringrazia. L’oppressione coloniale dello stato di Israele nei confronti dei palestinesi, oppressione contro cui si deve combattere, può finire certo come sono finite altre guerre di liberazione coloniale, con la creazione di un nuovo stato. Lo scrollarsi di dosso l’oppressione militare ed economica dello stato di Israele è solo un pezzo del percorso verso la libertà: fermarsi alla creazione di un’altro micro stato e vedere in esso la soluzione dei problemi, ancor più se questo stato si connotasse in senso religioso, per gli anarchici sarebbe il modo di frustrare l’anelito di libertà che viene dalla lotta del popolo palestinese. Ai palestinesi oppressi, sfruttati, massacrati va tutta la nostra solidarietà. Insieme a loro, e con gli israeliani che rifiutano e si battono contro l’apartheid, è necessario lottare per una solidarietà internazionalista vera, che non sia parteggiare per un nazionalismo piuttosto che un altro. Il nostro impegno rimane l’abolizione di ogni stato e di ogni frontiera, contro lo sfruttamento capitalista dell’uomo sull’uomo, contro ogni forma di totalitarismo religioso che asservisce le coscienze, per un mondo di uomini e donne liberi ed uguali.

Torino, 4 marzo 2008

 

Federazione Anarchica Torinese – FAI

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