Un luglio “super” a Palazzo Chigi L’odio di classe al governo



Un luglio “super” a Palazzo Chigi
L’odio di classe al governo
 

Mentre 
non passa anno senza che qualche nostalgico fantastichi (in estate) su 
improbabili “autunni caldi”, frutto di una fervida memoria ferma da 
almeno trent’anni, capita ormai con una certa frequenza che il caldo 
della lotta di classe si concentri nel mese di luglio.

È, però, una 
lotta di classe alla rovescia, con la quale  pezzo dopo pezzo le classi 
dominanti si riprendono tutto: dall’indicizzazione dei salari alla 
contrattazione collettiva, dai diritti dei lavoratori alle pensioni.

Luglio 2007 non ha fatto eccezione. Anzi, da questo punto di vista è 
stato davvero un superluglio, mica abbiamo ancora l’inefficiente 
governo Berlusconi!

Blindatura del peggioramento del sistema 
pensionistico e stabilizzazione della precarizzazione del lavoro sono 
stati i piatti forti serviti a Palazzo Chigi da frotte di camerieri 
prezzolati, ma esibenti con gioia la qualifica che dà oggi la licenza 
di uccidere: riformista.

Forti di questo patentino, giornalmente 
rilasciato dal sistema dei media, il mese di luglio è stato quello dell’
orgia “riformista”, dove ogni aderente al club cercava di incrementare 
i punti della propria patente in una corsa a tagliare (le pensioni) e a 
precarizzare (il lavoro).

Ma l’orgia non è stata solo mediatica. 

Anzi, quest’ultima serviva in realtà a coprire la portata di quel che 
stava avvenendo nel Palazzo del Governo, dove si andava materializzando 
un gigantesco atto della lotta di classe dei dominanti nei confronti 
dei lavoratori salariati di ogni fascia di età, checché ne dica la 
retorica giovanilista alla moda.

Infatti, come la guerra abbisogna 
della propaganda, anche l’attacco “riformista” di luglio necessitava di 
un’adeguata manipolazione della pubblica opinione, in modo da creare un’
opinione distorta o, alla peggio, di impedire il formarsi di una 
qualsiasi opinione.

Naturalmente, tra i lavoratori più coscienti è 
assai chiara la percezione di aver subito l’ennesimo inganno, meno 
chiara è la consapevolezza della portata di questo inganno. Il “sono 
tutti uguali” è ormai nel senso comune dei più. Ben pochi sui posti di 
lavoro difendono ancora quello che molti credevano fosse “il loro 
governo”. 

Alla consapevolezza dell’inganno si accompagna però la 
rassegnazione. Ecco perché gli annunci estivi di un “autunno caldo”, da 
parte del ceto politico radical-collaborazionista in partenza per le 
vacanze, davvero non convincono nessuno.

Se per i giornalisti da 
strapazzo questa è merce da utilizzare per riempire la pagina bianca, 
così si alimenta il cosiddetto “dibattito politico” tra i cosiddetti 
“riformisti” e la cosiddetta “sinistra radicale” (per noi, sinistra 
collaborazionista); per i lavoratori è un’altra presa in giro. Tutti 
sanno come stanno le cose: il protocollo di intesa è stato firmato da 
CGIL-CISL-UIL (sia pure con i mal di pancia della CGIL), la sinistra di 
governo si è limitata a convocare un’inutile manifestazione ad ottobre, 
in parlamento non esiste alcuna possibilità di cambiamento sostanziale 
in senso migliorativo degli indirizzi sottoscritti a luglio.

Blindatura è il termine che viene non a caso usato.

Blindato è l’
accordo, blindato è l’equilibrio dei conti, blindato è il futuro delle 
pensioni, blindata è la certezza di un lavoro sempre più precario, 
blindato è il governo a dispetto dell’esiguità della maggioranza di cui 
dispone, blindato è il pensiero se perfino Claudio Magris ha sentito il 
bisogno di scendere in campo a difesa di lorsignori, blindata è infine 
la subalternità dei Giordano e dei Diliberto (dei Mussi e dei Pecoraro 
non merita neppure parlare, dato che sulle pensioni hanno detto da 
subito sì).

In astratto questa blindatura non impedirebbe di per sé la 
lotta, ma le condizioni concrete di quello che fu il movimento operaio 
impediscono ogni ottimismo.

Certamente nuove stagioni di lotta vi 
saranno, ma non sembrano proprio all’orizzonte dei prossimi mesi. Se 
poi ci sbagliamo, viva l’errore!

Quello che è certo è che occorre 
ricostruire una cultura anti-capitalista, fondata non più sulle grandi 
narrazioni tipo “sol dell’avvenir” e dintorni, ma sull’analisi concreta 
del capitalismo reale, capace di vedere la società e non solo l’
economia.

Detto per inciso, nel secolo scorso i critici del comunismo, 
pur non venendo meno al loro anti-comunismo di fondo, concentravano i 
loro sforzi non sui modelli teorici, bensì sulla critica di quello che 
chiamavano “socialismo reale” ed alla fine hanno vinto. Non sarebbe il 
caso di imparare dal nemico?

I protocolli del superluglio dei 
dominanti ci parlano appunto di questo capitalismo reale.

È utile 
perciò esaminarli con attenzione.

 

Una vita da precario

 

Da tempo 
sono finiti i tempi in cui qualcuno pensava ad un capitalismo capace di 
occuparsi del cittadino-lavoratore dalla culla alla bara.

Oggi, per 
non smentire questa visione onnicomprensiva, il capitalismo si dà da 
fare per precarizzare l’intera esistenza: non solo il lavoro, in virtù 
delle esigenze della competitività, ma anche la pensione. Nell’età 
della pensione non c’è più da “competere”, ma c’è pur sempre qualcosa 
da spremere. In questo caso la spremitura si chiama spinta alla 
pensione integrativa, in modo da mettere in mano agli indici finanziari 
la qualità della vita della propria vecchiaia.

Partiamo dunque dalle 
pensioni, un tema che interessa la totalità dei lavoratori.

 

Una 
pensione più lontana e più povera

 

Sfatiamo subito alcuni luoghi 
comuni.

I conti del sistema previdenziale italiano ci vengono 
presentati come catastrofici o quantomeno a rischio. È falso: il fondo 
dei lavoratori dipendenti è attualmente (dati Inps) in attivo di 3,5 
miliardi di euro, mentre le entrate contributive (anche a causa dell’
ultima finanziaria) sono in continuo aumento.

Si dice che il rapporto 
tra pensionati e lavoratori attivi sarebbe in costante crescita a causa 
dell’andamento demografico. È falso: questo rapporto che era di 74 a 
100 nel 2001 è oggi di 71 a 100, dato che l’andamento demografico 
naturale è corretto da un lato dall’afflusso dei lavoratori immigrati e 
dall’altro dalla tendenza “spontanea” (in realtà indotta dall’
accrescersi del divario tra salario e pensione, altro che spontaneità!) 
ad andare comunque in pensione più tardi.

Si dice che l’Italia avrebbe 
di gran lunga i pensionati più giovani d’Europa. È falso, visto che l’
età effettiva di pensionamento è superiore a quella della Francia ed 
assai vicina (pochi mesi di differenza) a quella della Germania.

Partendo da questo insieme di falsità si è costruito il “superamento”- 
termine tanto ricorrente nel programma prodiano, quanto magico ed 
ambiguo, dato che si può sempre superare in peggio - della legge 
Maroni.

Ed effettivamente, bisogna riconoscerlo, Prodi, Damiano e 
Padoa Schioppa si sono davvero superati, nel congegnare un autentico 
imbroglio, di cui ora passiamo a vedere i punti centrali.  

 

Imbroglio numero 1: le “quote” e gli “scalini”

 

Agli italiani, 
distratti dal quotidiano istupidimento del sistema informativo, è stata 
raccontata per settimane la seguente favola: questo governo, che non è 
rozzo come il precedente, ha allo studio dei meccanismi più flessibili 
per sostituire il rigido “scalone” lasciatoci in eredità dal rozzo 
padano Maroni. Uno scalino in più sì, per passare dai 57 anni attuali 
per la pensione di anzianità con 35 anni di contributi a 58 anni dal 
2008, ma poi flessibilità grazie all’innovativo sistema delle quote, 
intese come somma dell’età anagrafica e degli anni di contributi 
versati.

Anche sulle quote si davano ovviamente i numeri, non oltre 95 
per Rifondazione, 96, forse 97 per gli altri. Tuttavia, un punto 
sembrava essersi affermato: l’elasticità del meccanismo, senza la quale 
del resto non ha obiettivamente senso parlare di quote.

Molti 
lavoratori hanno perciò iniziato a fare calcoli, valutando ad esempio 
di poter andare in pensione con 58 anni di età e 37 di lavoro 
(58+37=quota 95), o magari, con le quote successive, con 59 di età e 38 
di lavoro (quota 97).

Errore, niente da fare, i fautori per mestiere 
della flessibilità, questa volta hanno deciso di essere rigidi. E la 
mattina dell’accordo si è così scoperto che le quote proprio non 
esistono, se non come finzione.

In realtà il protocollo stabilisce che 
si matura il diritto alla pensione (che ancora non vuol dire “andare in 
pensione”, dato l’altro imbroglio delle finestre di cui ci occuperemo 
in seguito) con 35 anni di anzianità contributiva, alle seguenti età:

 

- 58 anni dal 1° gennaio 2008

- 60 anni dal 1° luglio 2009

- 61 
anni dal 1° gennaio 2011

- 62 anni dal 1° gennaio 2013

 

Noterete 
che questa mia tabella è un po’ diversa da quella diffusa dal governo e 
pubblicata dai giornali. Lo è per svelare l’imbroglio. Ho infatti 
riportato soltanto le condizioni minime per maturare il diritto alla 
pensione con 35 anni, mettendo in evidenza come di fatto i 
“democratici” scalini del centrosinistra siano in realtà quattro 
autentici scaloni, fissati a 58, 60, 61 e 62 anni.

Che cosa hanno 
escogitato i centrosinistri imbroglioni al governo per mascherare il 
loro inganno?

Semplice, hanno definito “quota 95”, la generosa 
possibilità di andare in pensione con 59 anni e 36 di contributi dal 1° 
luglio 2009 al 31 dicembre 2010.

Ma, a differenza della pretesa 
elasticità, l’età anagrafica è vincolante. Ora dovrebbe essere ovvio 
(ma temo che non lo sia del tutto!) che chi avrà 36 anni di lavoro con 
59 anni di età nel 2009, ne aveva 35 all’età di 58 nel 2008. Dunque, il 
lavoratore del nostro caso aveva già avuto in precedenza la possibilità 
di andare in pensione. Gli unici “beneficiati” saranno i lavoratori che 
raggiungeranno i 59 anni con 36 di contributi tra il 1° luglio e il 31 
dicembre 2010, una condizione assai particolare che riguarderà al 
massimo qualche migliaio di lavoratori. Ridicola in ogni caso l’entità 
del beneficio: un massimo di 6 mesi per chi ha avuto la fortuna di 
nascere il 1° luglio!

Se la “quota 95” del 2009 (intesa come 59+36) 
non verrà dunque utilizzata quasi da nessuno, servirà invece ad elevare 
in un colpo solo l’età di pensionamento di due anni, arrivando così ai 
famosi 60 anni dello scalone del vituperato Maroni in un solo anno e 
mezzo: alla faccia degli scalini! 

Un’opera così ben avviata non 
poteva che concludersi in bellezza.

Dal primo gennaio del 2011 la 
soglia anagrafica è di 61 anni (perfettamente in linea con quanto 
previsto dalla legge Maroni). Per la “quota 96” contrabbandata a questa 
data, per cui un sessantenne potrebbe andare in pensione a condizione 
che abbia 36 anni di contributi, valgono le considerazioni già svolte 
per “quota 95”.

Questo brillante allineamento consente poi il vero 
oltrepassamento della legge del governo Berlusconi.

Quella legge 
prevedeva nel 2013 una verifica dei conti per decidere se innalzare o 
meno l’età pensionabile a 62 anni.

Il protocollo di luglio, volendo 
far giustizia di ogni incertezza, decide invece il passaggio automatico 
a 62 anni dal 1° gennaio 2013. E così anche Maroni è stato superato ed 
il “popolo di sinistra” servito.

 

Imbroglio numero 2: i lavori 
usuranti, ovvero la negazione pratica di un diritto affermato solo a 
parole

 

Questo stesso “popolo”, deluso sullo scalone, ha pensato di 
trovare qualcosa di buono nella parziale esenzione dall’aumento dell’
età pensionabile dei lavoratori che svolgono attività usuranti.

Esenzione parziale, perché comunque l’innalzamento a 58 anni varrà 
anche per gli usurati.

Ma non è questo il cuore dell’imbroglio, in 
questo caso un vero e proprio schiaffo al principio di uguaglianza. 
Diciamo di più: questo imbroglio, il modo in cui è stato confezionato, 
è un oltraggio all’intelligenza delle persone ed un insulto ad ogni 
valore di moralità nella vita pubblica. 

Ma andiamo per ordine.

Il 
protocollo precisa le categorie rientranti nei “lavori usuranti”: 
lavoratori compresi nel “decreto Salvi” del 1999 (minatori, cavatori, 
sommozzatori ecc.), lavoratori turnisti che effettuino almeno 80 notti 
all’anno, addetti alle linee a catena, conducenti di mezzi pubblici 
pesanti, il tutto per una platea prevista di circa un milione e 400mila 
persone.

Naturalmente questo elenco ha delle significative assenze, 
tra le quali è opportuno segnalarne una: i lavoratori dell’edilizia.

Ognuno di noi conosce il grado di usura di questa attività (esposizione 
al caldo e al freddo, all’umido, alle polveri, al rischio di incidente, 
eccetera). “Stranamente” questa categoria non solo è stata omessa dall’
elenco degli usurati, ma ancor più significativamente è stata 
cancellata anche dal dibattito che ha preceduto la proposta 
governativa.

Nessuno, né il PRC, né i sindacati, né altri ne hanno 
parlato. E questo è un “dettaglio” che merita qualche riflessione. 
Perché questo silenzio? Una ragione dovrà pur esserci. Personalmente me 
ne sono date due. La prima, sicuramente più evidente ma ritengo meno 
decisiva, sta nell’entità numerica della categoria la cui inclusione 
avrebbe grosso modo raddoppiato la platea degli usurati. La seconda, 
meno evidente ma decisiva, sta nel fatto che la forza lavoro dell’
edilizia è ormai in buona parte costituita da lavoratori immigrati 
privi di ogni rappresentanza politica e sindacale, vera carne da 
macello il cui destino non interessa a nessuno.

Anche a voler 
considerare soltanto la prima spiegazione di natura economica (poi, 
arrivando al cuore dell’imbroglio, vedremo che le questioni economiche 
sono già state brillantemente risolte in altro modo e dunque la 
spiegazione decisiva è in realtà la seconda) avremmo la subordinazione 
di un diritto alle esigenze di cassa, giusto per mettere in luce i 
criteri sociali che ispirano i protocolli. Ma considerando invece come 
più attendibile, o comunque prevalente, la seconda spiegazione, ce n’è 
davvero abbastanza per dare un giudizio politico e morale sul governo e 
sulle sue appendici di sinistra che su questo non hanno nemmeno speso 
una di quelle tante parole che in genere consegnano al vento più che 
agli atti della storia.

Anche se ci fermassimo qui, a questa clamorosa 
esclusione, avremmo già chiaro come gli imbroglioni di luglio hanno 
avuto la capacità di trasformare in una nuova ingiustizia l’
applicazione di un principio in sé giusto e da rivendicare, come quello 
del riconoscimento di un fatto così evidente come la diversa usura 
insita nei diversi lavori.

Detto in altre parole: messo nelle mani di 
questi farabutti anche il più nobile dei principi è destinato a 
trasformarsi in merda. 

Ma veniamo al punto in cui l’imbroglio diventa 
colossale ed insopportabile.

Ragionando su una platea di 1 milione e 
400mila persone in attività, da dividere in 35 fasce anagrafiche, si 
ottiene un numero medio di 40.000 unità per ogni fascia. Ne consegue 
che circa 40.000 lavoratori all’anno dovrebbero andare in pensione 
usufruendo dell’esenzione in questione, potendo così anticipare la 
propria uscita dal lavoro.

I sostenitori dell’accordo, come i suoi 
critici moderati, si sono dati un gran da fare per evidenziare questa 
conquista sociale (dove per “conquista” deve intendersi comunque la 
mera attenuazione del peggioramento previsto per la generalità dei 
lavoratori).

Ma ad un certo punto a Padoa Schioppa, forse pressato 
dagli ultras rigoristi, sono scappati dei numeri: “ne usufruiranno”, ha 
detto, “dai 5 ai 7 mila lavoratori all’anno”. Perché 5-7 mila e non 40 
mila?

All’inizio si poteva pensare al solito teatrino governativo, 
dove a Padoa Schioppa tocca la maschera del rigore, salvo quando deve 
annunciare i ricchi finanziamenti alle imprese.

Poi, però, il 
protocollo ha preso a circolare, ed in esso sta scritto che a 
prescindere dai requisiti, i lavoratori riconosciuti come soggetti al 
lavoro usurante saranno contingentati in numero di 5.000 all’anno, fino 
al 2017, anno in cui è già prevista la nuova verifica dei conti. Una 
commissione tecnica dovrà quindi definire le graduatorie perché i tetti 
numerici dovranno essere rigorosamente osservati.

La presa in giro è 
evidente: a 7 lavoratori su 8 verrà spiegato che hanno sì un diritto, 
ma che tale diritto sarà reso inesigibile dai vincoli di bilancio. Da 
sempre un diritto è tale se è universale, se chi ne è portatore può 
esigerlo, e comunque non si è mai visto un diritto sottoposto ad una 
commissione che dirà ai più: siete usurati, ma non abbastanza; datevi 
da fare che forse il prossimo anno tocca a voi.

Una simile porcata non 
ha davvero bisogno di commenti.

 

Imbroglio numero 3: finestre per 
tutti

 

Nel linguaggio comune la finestra è un’opportunità, nel 
sistema pensionistico è una fregatura.

A cosa servono le finestre? 
Servono a ritardare la data della pensione rispetto alla maturazione 
del diritto. Ad esempio, con 4 finestre chi matura il diritto alla 
pensione nel 3° trimestre dell’anno va in pensione alla fine del 4° 
trimestre, con un ritardo che va quindi da un minimo di tre ad un 
massimo di sei mesi. Con due finestre, come quelle previste dalla legge 
Maroni, il ritardo va da un minimo di sei mesi ad un massimo di un 
anno.

È evidente dunque che il sistema delle finestre è di per sé 
truffaldino, dato che posticipa comunque il godimento di un diritto 
maturato.

Ma anche qui il governo Prodi ha deciso di fare meglio, 
“superando” di nuovo la legge Maroni. Ed ancora una volta lo fa in 
maniera truffaldina, mettendo in evidenza un piccolo miglioramento, la 
promessa del passaggio da 2 a 4 finestre per chi ha 40 anni di 
contributi, per nascondere un notevole peggioramento: l’introduzione 
delle finestre a chi oggi non ce l’ha, né le avrebbe avute con la 
Maroni, cioè a chi va in pensione di vecchiaia - gli uomini a 65 anni e 
le donne a 60.

Questo significa che ai 65 o 60 anni si dovranno 
aggiungere altri 3-6 mesi di lavoro.

Anche questo innalzamento dell’
età lavorativa a chi ha raggiunto i limiti definiti non a caso di 
vecchiaia non richiede ulteriori commenti.

Interessante è la stima 
economica di questi interventi. Che il costo per i lavoratori sia 
superiore ai benefici è cosa assai evidente, dato che coloro che vanno 
in pensione con 40 anni di contributi sono assai meno di quelli che ci 
vanno con i requisiti di vecchiaia. Ma, a scanso di equivoci, gli 
estensori del testo si sono preoccupati di esplicitarlo. Nel protocollo 
d’intesa si precisa infatti che i risparmi ottenuti con questo 
intervento sulle finestre serviranno a coprire diverse spese tra cui 
quelle per 5.000 lavoratori posti in mobilità che con gli “scalini” non 
avrebbero più copertura fino alla pensione.

Dunque, al di là della 
scandalo dell’innalzamento mascherato dell’età della pensione di 
vecchiaia, abbiamo un governo che (non dimentichiamolo, non rispetto 
all’oggi, ma addirittura in confronto a quanto previsto dalla Maroni) 
con una mano dà e con l’altra prende. Ma quel che prende è più di quel 
che dà.

 

Imbroglio numero 4: la revisione dei coefficienti ed una 
promessa già rimangiata

 

La legge Dini (legge 335 del 1995) è stato 
un capolavoro contro-riformatore. Un’opera d’arte allora benedetta da 
CGIL-CISL-UIL ed accettata da chi in nome di una politica ormai vuota, 
alla quale si cercava di dare disperatamente un’anima con l’anti-
berlusconismo, implorava allora a tutti di “baciare il rospo”.

Quel 
rospo (Lamberto Dini) è sempre vivo, e l’abbiamo visto all’opera nelle 
settimane precedenti il parto del 20 luglio. Quel che è peggio è che 
gli effetti della sua controriforma si fanno oggi sentire ben al di là 
di quanto si potesse immaginare. Le pensioni calcolate con il sistema 
contributivo saranno tra qualche anno la maggioranza, fino a diventare 
progressivamente la totalità. Oggi sappiamo che in base a quella legge 
avremo vere pensioni da fame. Un lavoratore giovane può attendersi un 
tasso di sostituzione (pensione rispetto alla retribuzione) sotto il 
50%, rispetto al 70-80% (a seconda delle categorie) del sistema 
retributivo.

Per portare a termine questo autentico massacro sociale, 
premessa imprescindibile per far veramente decollare i fondi pensione 
integrativi, la legge Dini prevedeva l’adeguamento dei coefficienti di 
trasformazione. Questa operazione è l’architrave del disegno contro-
riformatore: attraverso di essa si ha la garanzia della stabilizzazione 
dei costi previdenziali calcolati come quota del PIL, per cui ad un 
aumento numerico degli anziani si risponde con la destinazione ad essi 
di una quota di PIL (il 14% circa) invariabile.

Ovvio che questo 
significhi impoverimento individuale, dato che la stessa fetta della 
torta dovrà essere spartita tra un numero maggiore di individui.

Ragioni elettorali prima (2005, governo Berlusconi), e comunque ragioni 
di consenso poi (2006, governo Prodi) hanno consigliato il rinvio di 
questa operazione. Ma ora, grazie al protocollo del 20 luglio, abbiamo 
una data certa: a partire dal 1° gennaio 2010 scatta l’adeguamento dei 
coefficienti, che poi avverrà automaticamente ogni 3 anni.

La stampa 
si è dilungata nel presentare questa operazione come lunga e complessa, 
dato che verrà costituita una commissione ad hoc che avrà il compito di 
studiare gli equilibri pensionistici nel lungo periodo.

Non facciamoci 
ingannare. Allegata al protocollo c’è già la tabella dei nuovi 
coefficienti che a partire dal 2010 ridurrà il valore delle pensioni 
calcolate con il metodo contributivo del 6-8%. Così, tanto per 
cominciare.

Si dirà che queste cose sono pessime, ma che in questo 
caso non c’è imbroglio, dato che erano già previste dalla legge del 
1995. Errore: l’imbroglio c’è, eccome.

Avrete letto sulla stampa di un 
grido quasi commosso rivolto alla condizione dei giovani (tra 
parentesi, saranno proprio i giovani con il sistema contributivo a 
pagare il prezzo più caro del contro-riformismo dei “riformisti”, ma 
chi glielo dice?), un grido che ha portato alla scoperta che le loro 
“riforme” condurranno a pensioni vergognosamente basse. Da qui l’
impegno di non portare il tasso di sostituzione sotto il 60%.

Questo 
“impegno”, vedremo quanto fasullo, ha entusiasmato i sostenitori ed i 
critici moderati dell’accordo: finalmente si è dato qualcosa ai 
giovani!

Anche se il 60% sbandierato fosse attendibile, avremmo 
comunque una riduzione della pensione del 15-25% rispetto ad oggi, a 
seconda che si lavori nel settore pubblico o in quello privato. 

Il 
fatto è che quel 60% non è affatto attendibile.

Nei giorni successivi 
all’accordo si è cominciato a precisare che il 60% è un obiettivo, una 
meta a cui tendere, non proprio una garanzia. Diciamo pure, in maniera 
più chiara, che di un’altra presa in giro a costo zero si tratta.

Questa volta facciamo certificare la presa in giro ad un ultras del 
“riformismo” e del rigore. Così come nessuno metterebbe in dubbio l’
esistenza di un rigore contro il Milan riconosciuto tale dal leader 
delle Brigate rossonere; nessuno vorrà mettere in dubbio la 
certificazione di serietà “riformista”, rilasciata da un ultras di 
questa professione di fede, nei confronti di una misura prima vista 
come un “cedimento nei confronti della sinistra radicale”.

L’ultras in 
questione si chiama Nicola Rossi, economista e parlamentare di 
maggioranza. La sua soddisfazione l’ha espressa in risposta ad un degno 
compare (Enrico Letta), precedentemente sospettato del cedimento di cui 
sopra. Il chiarimento non è avvenuto alla Domenica sportiva, ma sul 
Corriere della Sera del 31 luglio un luogo assai frequentato da questi 
ultras al termine di un “botta e risposta” (si fa per dire) durato 
alcuni giorni.

Lasciamo qui perdere il fraseggio insulso di Letta, 
ambiguo ed espresso in politichese come si conviene ad un candidato 
alla guida del Partito Democratico. Più utili nell’afferrare l’
essenziale le parole di Rossi.

Leggiamolo dunque per fugare ogni 
dubbio: “La replica del sottosegretario alla presidenza del consiglio 
(Letta, ndr) sgombra il campo da una seria fonte di preoccupazione. Da 
essa si evince, infatti, in maniera inequivoca che nessuna garanzia è 
stata offerta dal governo ai sindacati semplicemente perché in base 
alla legislazione vigente non poteva essere offerta circa il livello 
minimo dei trattamenti pensionistici dei giovani nei decenni a venire. 
Una precisazione importante perché non immediatamente evidente non solo 
nell’intervista di Enrico Letta (apparsa qualche giorno prima, ndr) ma 
anche e soprattutto nelle dichiarazioni successive all’accordo, tanto 
di membri del governo e della maggioranza quanto di esponenti 
sindacali”.

La garanzia del 60% semplicemente non c’è. Si è però 
cercato di venderla come tale. Ecco perché oltre al danno c’è la beffa 
di questi imbroglioni incalliti.

 

Imbroglio numero 5: pagano i 
precari

 

Avrete letto che l’insieme degli interventi previsti dal 
protocollo ha tuttavia un costo di 10 miliardi di euro in 10 anni. 
Ricordiamo che questo aggravio non è raffrontato alla legislazione 
vigente (legge Dini), perché in tal caso registreremmo invece una 
enorme riduzione dei costi, ma alle attese di risparmio determinate 
dalla legge Maroni, che sarebbe entrata in vigore il 1° gennaio 2008.

Perché si parla proprio di 10 miliardi in 10 anni? Per due motivi: il 
primo è che se si parlasse di un solo miliardo all’anno, l’effetto 
sarebbe quello di evidenziare un raffronto in sostanziale pareggio con 
la Maroni (e d’altra parte questo misero miliardo che è uno “zero 
virgola” rispetto all’insieme della spesa previdenziale - già se lo 
pagano i lavoratori con l’aumento dei contributi dell’ultima 
finanziaria). Il secondo è che a regime il sistema uscito dall’accordo 
di luglio porterà addirittura a dei risparmi anche rispetto alla 
Maroni.

Facciamo ora un piccolo confronto di questo “aggravio”, 
presentatoci come quasi insostenibile, con altre voci di spesa dello 
Stato.

Quanto costerà in 10 anni la riduzione del cuneo fiscale, cioè 
del grazioso regalo elargito alle imprese con uno dei primi atti del 
governo Prodi? Come minimo 50 miliardi di euro, ma questa cifra è 
destinata a lievitare notevolmente dato che pare che si vogliano 
estenderne i benefici a soggetti (banche e assicurazioni) che oggi ne 
sono esclusi.

E quanto costa il piano decennale delle opere pubbliche, 
tra le quali troviamo ovviamente i peggiori progetti di devastazione 
ambientale (Tav, eccetera)? Come minimo i 118 miliardi di euro 
previsti, ma qui sappiamo che i costi si dilatano con facilità.

Insomma, scusate la banalità, i soldi ci sono per le imprese e per 
opere in larga parte destinate ad alimentare l’affarismo e 

la 
corruzione, non ci sono per lavoratori e pensionati.

Ma nonostante l’
estrema esiguità del miliardo annuo, un’elemosina che fa il paio con 
quella dei 29 euro elargiti ai pensionati più poveri (quelli sotto i 
693 euro mensili, un’altra infamia che si commenta da sola), Prodi, 
Damiano e Padoa Schioppa si sono preoccupati di pareggiare questa 
uscita facendola pagare in larga parte ai lavoratori para-subordinati, 
i cosiddetti “co.co.pro” e co.co.co, che vedranno aumentarsi i 
contributi di 1 punto percentuale all’anno, dal 2008 al 2010 per un 
totale del 3%.

Ma questi “lavoratori a progetto” (attualmente 1 
milione e 780 mila persone), che ci mostrano un’Italia tutta intenta a 
progettare, non sono forse i “giovani” di cui tutti si riempiono la 
bocca?

Imbroglio dunque, ma per costoro imbroglio doppio, visti i 
contenuti del successivo accordo detto, chissà perché (un altro 
imbroglio?), “riforma del Welfare”. 

 

Imbroglio numero 6: contratti 
senza tempo

 

Dato che l’appetito vien mangiando, e viste le deboli 
risposte dei dissenzienti sia nella maggioranza di governo che in 
ambito sindacale i “riformisti” hanno deciso di fare il pieno, 
superando per molti aspetti la stessa legge Biagi.

A pochi giorni dall’
accordo sulle pensioni, è così seguito quello sulla legge 30.

Gli 
slogan per gonzi del tipo “flessibilità sì, precarietà no” (ecco l’
immancabile imbroglio) sono stati tradotti nel protocollo d’intesa in 
una conferma pressoché totale della legge Biagi, che in alcune parti 
(le più importanti) viene opportunamente peggiorata.

È questo il caso 
dei contratti a termine, sui quali viene confermata la cancellazione di 
ogni causale per la loro attivazione, affermando dunque la totale 
libertà dell’impresa di assumere a termine per generiche “necessità 
aziendali”.

Ma questo ancora non basta. Ed il vero piatto forte dei 
“riformisti” è la possibilità di rinnovo all’infinito dei contratti a 
termine, così come viene sancita nel protocollo di luglio, laddove si 
prevede la loro estensione senza limiti temporali, anche dopo il 
“tetto” dei 36 mesi tra proroghe e rinnovi. Per compiere questa 
operazione basterà recarsi presso la Direzione Provinciale del Lavoro 
accompagnati (indovinate perché) da un rappresentante sindacale (magari 
un sindacato compiacente all’azienda come il Fismic in Fiat, nota di 
PM).

Dunque, precari a vita. In Italia la quota complessiva delle 
diverse tipologie del precariato ha già raggiunto il 20% della forza 
lavoro totale e viaggia a gonfie vele. È questo il capitalismo reale di 
cui parlavamo all’inizio. Ed il governo Prodi, degno interprete di 
questo capitalismo, ha fatto del suo meglio per farvi corrispondere la 
legislazione sul lavoro.

Precari a vita, è questo che vogliono, e non 
lo nascondono neppure più, se non nella retorica di cui ammantano certi 
loro discorsi. Nei fatti, comunque, hanno le idee chiare: nessun limite 
viene imposto al ricorso dei contratti a termine, neppure indicando una 
percentuale massima delle assunzioni di questo tipo.

Nessun limite 
neppure all’utilizzazione del lavoro interinale. Per gli interinali non 
c’è nemmeno la finzione del “tetto” dei 36 mesi. E qui viene in mente 
la battaglia che facemmo nel PRC, nella primavera del 1997, contro il 
“pacchetto Treu” che introduceva per la prima volta nel nostro paese il 
lavoro interinale. Alla fine raccogliemmo oltre duemila firme di 
dirigenti locali e nazionali di quel partito contro quello che 
intravedevamo chiaramente come l’inizio di un percorso disastroso. 
Altri, dal pavone Bertinotti al suo insulso successore, assicuravano 
sull’esistenza dei famosi “paletti” che ne avrebbero limitato 
rigidamente l’estensione, ed i parlamentari del PRC votarono l’infame 
“pacchetto”.

Oggi sappiamo almeno chi avesse ragione.

 

Imbroglio 
numero 7: contratti per tutti i gusti, commissioni per “superarsi”

 

Giunti a questo punto non è il caso di dilungarsi.

È evidente che la 
legge Biagi ne esce confermata e rafforzata. Dunque “superata”, nel 
senso già specificato di peggiorata. Qui l’imbroglio è fatto da una 
serie di imbrogli, ognuno per ogni tipologia di contratto.

Ogni forma 
di contratto precarizzante viene o confermata od estesa.

Lo “Staff 
leasing”, ovvero il “contratto commerciale di somministrazione a tempo 
indeterminato”, cioè l’affitto di intere squadre di lavoro presso le 
agenzie di lavoro interinale, non solo non viene cancellato (come i 
sinistri governativi davano per certo), ma viene addirittura 
incentivato con erogazioni alle stesse agenzie.

Ai co.co.pro si chiede 
di continuare a progettare per tutta la vita.

Ai lavoratori a part 
time il protocollo regala la lieta novella di una flessibilità a senso 
unico: le aziende potranno cambiare l’orario a piacimento (viva la 
flessibilità!), ma i lavoratori - in questo caso quasi sempre 
lavoratrici - potranno opporsi solo per “comprovati motivi di cura” 
(abbasso la flessibilità!). Nessuna “doppia chiave” dunque, neppure sui 
cambiamenti improvvisi di turno.

Si è scritto invece dell’eliminazione 
del lavoro a chiamata, il cosiddetto “job on call”. Attenzione, non è 
così. A volte per “superarsi” bisogna anche cancellare ciò che non 
funziona. E questo è il caso del job on call per il quale si prevede di 
costituire una commissione per “definire una forma di part-time per 
brevi periodi che potrebbe assumere la stessa funzione”.

Con ogni 
evidenza, non di abrogazione si tratta, ma di semplice necessità di ri-
definizione di questo strumento.

Altre commissioni sono previste su 
altri temi, giusto per non precludersi la possibilità futura di 
ulteriori “superamenti”.

 

Imbroglio numero 8: un inganno bipartisan 
già consumato

 

Dopo i tanti imbrogli messi in cantiere, vediamone 
ora uno già consumato.

Se luglio è stato il mese della grande 
abbuffata, il 30 giugno 2007 è una data addirittura epica dell’azione 
(contro)riformatrice. A luglio, infatti, gli imbroglioni sono arrivati 
con un buon riscaldamento: una truffa andata a buon fine (anche se un 
po’ meno del previsto) per preparare il grande affondo.

Stiamo 
parlando del trasferimento del TFR (le liquidazioni) nei fondi pensione 
integrativi.

Se ci fosse una classifica degli obiettivi bipartisan, 
perseguiti con pari tenacia, perfidia ed inganno da entrambi gli 
schieramenti, questa norma sarebbe certamente al primo posto.

Non è un 
caso che, di comune accordo (sindacati in prima fila), la sua entrata 
in vigore sia stata anticipata di un anno rispetto al resto della legge 
Maroni di cui pure fa parte.

Il perché di tanta fretta è cosa nota: 
alimentare i mercati finanziari, ingrassare i fondi pensione, 
irrobustire la concertazione e la corruzione sindacale. Il tutto, 
ovviamente, in nome del “futuro delle nuove generazioni”, alle quali 
notoriamente pensano senza sosta.

Per inciso, se questa fosse davvero 
la preoccupazione, perché non si è costituito un fondo integrativo 
volontario presso l’Inps? I lavoratori sarebbero stati ben più 
garantiti, l’Inps avrebbe incassato i soldi. 

Troppa grazia! Banche e 
assicurazioni sarebbero rimaste a bocca asciutta, gli speculatori pure, 
così come i sindacalisti sarebbero rimasti senza poltrone ben 
remunerate nei consigli d’amministrazione dei fondi chiusi.

Che siamo 
diventati pazzi? Scusiamoci perciò per l’ingenuità 

della domanda 
posta e torniamo al dunque. 

Come noto i lavoratori privati (quelli 
pubblici non hanno ancora i “fondi”, ma vedrete che provvederanno!) 
hanno avuto sei mesi di tempo, dal 1° gennaio al 30 giugno scorso, per 
compilare un modulo per accettare o rifiutare il trasferimento del 
proprio TFR verso un fondo integrativo. Il ragionamento bipartisan per 
spingere all’adesione ai fondi è stato il seguente: vi abbiamo 
decurtato alla grande le pensioni (come siamo stati bravi!), ma vi 
diamo la possibilità di rinunciare integralmente al TFR per potervi 
costruire una (modestissima) pensione integrativa (qui siamo stati 
bravissimi ed anche generosi!); per meglio incentivarvi dato che siete 
un po’ zucconi ci siamo anche preoccupati di innalzare a dismisura la 
tassazione sul TFR, così il trasferimento nei fondi sarà ancora più 
vantaggioso (qui, va riconosciuto, siamo stati addirittura geniali). 
Questo “ragionamento” (inclusa la vanteria per la falcidia fiscale del 
Tfr) lo abbiamo trovato, nei mesi scorsi, nelle dichiarazioni di 
ministri e “oppositori”, di sindacalisti e di pennivendoli addetti alle 
pagine economiche dei giornali. Chi scrive ha avuto l’opportunità di 
leggerlo in un bel volantino patinato della CGIL.

Ma tutto ciò non 
sarebbe servito a niente se non vi fosse stato l’imbroglio bipartisan 
della norma sul “silenzio assenso”. Cosa prevedeva quella norma? Un’
autentica mostruosità giuridica, il trasferimento forzoso del TFR per 
quei lavoratori che non avessero esplicitato la loro scelta. Che questa 
sia una truffa è fuori discussione: come si possono trasferire dei 
soldi di una persona verso una forma di investimento finanziario 
(perché questo di fatto sono i fondi), senza neppure una firma di 
quella stessa persona? 

La cosa è ancora più grave perché la legge 
prevede in ogni caso l’impossibilità del recesso. Chi si troverà senza 
TFR ed iscritto ad un fondo senza nemmeno averlo scelto non potrà 
neppure tornare indietro. Una enormità, quest’ultima, che ha sollevato 
perfino qualche tenue critica da parte di Giuliano Amato, preoccupato 
non per l’imbroglio, ma perché questa clausola ha disincentivato l’
adesione da parte di molti. 

Sta di fatto che la truffa del “silenzio 
assenso” è stata decisiva, dato che senza di essa l’operazione “fondi”, 
pur così tanto sponsorizzata, sarebbe miseramente fallita.

I dati 
ufficiali non ci sono ancora, ma le proiezioni dicono che mentre ha 
aderito esplicitamente solo il 3,7% (tre virgola sette per cento) della 
platea interessata (tonfo clamoroso dei “riformisti” nel consenso), vi 
sarebbe però stato un 30% circa di lavoratori “silenti”, per legge 
dunque “assenzienti” (vittoria dei “riformisti”, e degli speculatori 
finanziari, nella truffa).

Ovviamente non è difficile immaginare che 
la quota di lavoratori “silenti” appartenga agli strati più deboli e 
precarizzati del mondo del lavoro, giusto per colpire il bersaglio più 
facile.

Se qualcuno pensa che stiamo esagerando nella descrizione di 
un cumulo di imbrogli, rifletta sulla portata di quanto si è consumato 
il 30 giugno, nel tripudio bipartisan Damiano-Maroni, e ci dica dov’è l’
esagerazione.

 

Che dire?

 

Dopo questa disamina c’è ben poco da 
dire.

Certo, potremmo dedicarci all’analisi politica, a cercare di 
capire dove andrà questa compagine governativa, a quel che faranno gli 
apprendisti stregoni del PRC e del PdCI, ai probabili scenari dei 
prossimi anni.

Ma per il momento è forse più utile fermarsi ad alcune 
considerazioni più generali.

La prima, di carattere strutturale, è che 
il rullo capitalista macina senza sosta, indifferente ai drammi sociali 
che provoca. Ovviamente è stato sempre così, ma in altre epoche 
storiche (ad esempio nel trentennio 1945-1975) le politiche 
capitalistiche dovevano tener conto (in Occidente) delle necessità del 
compromesso sociale. Oggi anche questo limite è tra

volto. Lo sappiamo 
ormai da oltre un quarto di secolo, ma non per questo non dobbiamo 
rilevare la crescente voracità delle classi dominanti attuali. Una 
voracità che è ormai inversamente proporzionale ad ogni progettualità 
sociale. So che questa formula contiene il rischio dello scivolamento 
catastrofista da cui è bene guardarsi. Ma la catastrofe sociale (oltre 
che ambientale) incombe davvero, anche se gli effetti che se ne vedono 
in Occidente, e che qui abbiamo cercato di esaminare relativamente all’
Italia, sono ben poca cosa rispetto a quel che avviene su scala 
globale.

 

La seconda, è il degrado morale e culturale, prima ancora 
che politico, dell’attuale classe dirigente. Una classe politica ormai 
incapace di esprimere una qualsiasi idea di società, soggiogata agli 
imperativi sistemici, oltre che corrotta sul piano individuale. 

Una 
classe politica capace di discutere ed accapigliarsi su come reperire 
la miseria di un miliardo all’anno pur di rastrellarlo all’interno del 
sistema previdenziale, quando si stima che l’effetto cumulativo dei 
tagli sulle pensioni abbia prodotto negli ultimi 14 anni un risparmio 
di spesa pari a circa 200 (duecento) miliardi di euro!

Oggi che tutti 
possono osservare l’innocuo alternarsi di centrodestra e centrosinistra 
al governo, che ognuno può rilevare l’assoluta intercambiabilità dei 
ruoli, c’è forse la possibilità che inizi a prendere forma la 
consapevolezza del capitalismo reale in cui viviamo. Quel che occorre, 
prima di tutto, è sviluppare la coscienza del rifiuto, la comprensione 
del fatto che possiamo dire di no, che ribellarsi è giusto e 
necessario.

 

La terza considerazione riguarda la sinistra. Già nel 
digitare questa parola si avverte la necessità del distinguo. Ma da 
tempo abbiamo imparato che non possiamo sfuggire al marcio della 
sinistra reale rifugiandoci in una nuova sinistra che non c’è.

Oggi la 
sinistra sembra dividersi tra chi vuole superare la destra come 
guardiana del mercato, delle liberalizzazioni, delle privatizzazioni, e 
chi nell’illusione di mantenere un presidio sociale ormai inesistente 
si concepisce come “limitatore del danno”.

I primi vanno spediti, al 
punto di cambiarsi continuamente l’abito pur di realizzare la loro 
missione di primi della classe nella modernizzazione capitalistica; i 
secondi arrancano, ma vivacchiano grazie al fatto che non essendoci 
limite al peggio, non può esserci un limite neppure alla politica ed 
alla logica del “meno peggio”. Apparentemente, i primi sono odiosi, i 
secondi soltanto patetici. Errore di superficialità! Se i primi sono 
odiosi per quel che fanno e per come lo fanno, il ruolo dei secondi è 
per certi aspetti ancora più ripugnante.

Nell’imbroglio generale 
insito nelle politiche del governo, c’è l’imbroglio particolare dei 
menopeggisti della sinistra collaborazionista di governo. Costoro, con 
espressione afflitta e sofferente ci raccontano di ciò che vorrebbero, 
ma non possono; di un “nuovo mondo possibile” che per incanto avrebbe 
dovuto prendere le mosse dalla coabitazione (per giunta subalterna) con 
Padoa Schioppa; di una lotta che le masse dovrebbero condurre contro il 
governo, mentre loro al governo ci stanno (sia pure soffrendo, 
beninteso!).

Pretendere rigore teorico dagli attuali dirigenti del PRC 
sarebbe come chiedere a Cicciolina di farsi suora, tuttavia fa un certo 
effetto sentire ripetere a disco rotto che “la questione del governo 
non è decisiva”, che “il governo non è un fine ma un’opportunità” e via 
bestemmiando idiozie. Per questi imbroglioni al cubo stare al governo 
piuttosto che all’opposizione è dunque insignificante, preferiscono 
tuttavia il governo per sfruttarne le “opportunità”. Se questo discorso 
avesse un senso, dovremmo dedurne che anche la partecipazione ad un 
futuro governo Berlusconi (qualora ve ne fosse la possibilità) andrebbe 
accolta come un’opportunità da non perdere.

No, non possiamo chiedere 
a costoro alcun rigore. Ma un minimo di conoscenza della storia dei 
comunisti, visto che per ora (forse non per molto) continuano a 
definirsi tali, uno se l’aspetterebbe. E invece no. Preferiscono fare 
finta di ignorare quel che ha sempre significato, nelle diverse 
circostanze storiche, la questione del governo di una società 
capitalista per i comunisti. 

All’imbroglio si aggiunge così la 
diffusione dell’ignoranza tra i loro stessi militanti. Alla riflessione 
si sostituisce il chiacchiericcio quotidiano sulla politichetta 
nazionale.

Che dire? Tutto serve a vivacchiare, ma niente li salverà 
dalla rovina.

 

La quarta considerazione riguarda un aspetto assai 
profondo, che dovremo indagare meglio anche perché collegato al punto 
precedente sulla sinistra.

Chi scrive non aveva dubbi sul fatto che il 
centro-sinistra sarebbe stato più funzionale del centro-destra alle 
esigenze sistemiche ed ai concreti interessi delle oligarchie 
finanziarie dominanti.

Ovvio che le banche preferissero Padoa Schioppa 
a Tremonti, sicuro che Montezemolo preferisse Prodi a Berlusconi, 
chiaro che Confindustria preferisse Damiano a Maroni.

Ma tutto 
lasciava pensare ad una politica dai due volti: concreta e servizievole 
con i dominanti, ma attenta, almeno nelle forme, a non inimicarsi la 
base sociale che li ha mandati al governo. Questo non per una qualche 
attenzione alle classi popolari (ci mancherebbe!), né per una 
particolare educa

zione verso di esse, ma semplicemente per la 
coltivazione dei normali interessi della ditta, che almeno ogni 5 anni 
ha pur bisogno di quei voti per continuare a fare fatturato e profitti.

Insomma, se Berlusconi può presentarsi come lo sguaiato Paperone di 
Arcore, si poteva pensare che i centrosinistri al governo avrebbero 
almeno somigliato un po’ ai vecchi democristiani, sempre in affari con 
il Diavolo, ma mai mancanti a messa ed in genere seri e compunti di 
fronte ai problemi della vita quotidiana.

Ovviamente anche quella posa 
era un imbroglio, sempre meglio però degli imbrogli di oggi, ed in ogni 
caso gli interessi della ditta li sapevano fare assai bene. Già, ma 
qual è la ditta dell’odierna sinistra? Un tempo era il partito, ma 
oggi? Per dirla in breve, la sensazione è che essendo ormai la politica 
trasversale, la ditta di riferimento non vada più intesa come metafora 
stante ad indicare il partito o la corrente di appartenenza, ma debba 
invece essere ormai interpretata in un senso assai più vicino al 
significato letterale del termine. Non a caso se c’è una parola su cui 
non si discute, perché sacra, è appunto “impresa”.

Questo lo sapevamo, 
ma le discussioni di luglio, le cento interviste del campionato 
nazionale dei “riformisti”, hanno fatto emergere qualcosa di più: non 
solo l’adesione totale e totalizzante agli imperativi sistemici del 
capitalismo, ma l’espressione neanche tanto velata di un profondo odio 
di classe verso i lavoratori. Un odio per certi versi più profondo di 
quello espresso dalla destra. Che i “soggetti del cambiamento” di un 
lontano passato turbino ancora, magari inconsciamente, il sonno dei 
governanti di oggi? Che la psicologia ci venga in soccorso!

Si dirà, 
ed è vero, che non tutti i partecipanti a questo torneo vengono dalla 
sinistra. Ma Fassino, Veltroni, D’Alema, giusto per limitarci agli 
ultimi tre segretari DS, da dove vengono?

Del resto, in precedenza, 
abbiamo insistito sul concetto di imbroglio. Ed un imbroglio continuato 
come quello messo in atto nel superluglio di Palazzo Chigi che cosa 
esprime se non il massimo disprezzo degli imbrogliati?

Attenzione 
dunque alla corretta valutazione di costoro: una cricca al servizio 
delle oligarchie finanziarie in economia e della Casa Bianca in 
politica estera, ma al tempo stesso una banda assetata di potere, 
disposta a qualsiasi violenza e sopruso pur di mantenerlo insieme ai 
privilegi conquistati. Da costoro, insomma, non solo politica, ma anche 
odio di classe. Ricambiamoli con la stessa moneta.

 

Post Scriptum 

 

Dato che il protocollo non è ancora legge, molti si chiedono come 
andrà a finire in autunno.

Non credo che possano esserci veri 
cambiamenti. O meglio, in parlamento vi sarebbe un’ampia maggioranza 
trasversale pronta a peggiorare ancora il tutto. Ma, al di là dell’
infinito campionato tra “riformisti”, non penso ve ne sia la 
convenienza politica.

In quanto ai possibili miglioramenti di 
dettaglio (e di facciata) reclamati dai menopeggisti che sfileranno il 
20 ottobre, saranno appunto se ci saranno di dettaglio e più che altro 
di facciata. Ovviamente, non è che manchino gli spazi economici. 
Abbiamo già ricordato i 200 miliardi di euro tagliati al sistema 
previdenziale dal 1993 al 2007. E con il protocollo di luglio nuovi e 
ben più consistenti risparmi faranno gioire i rigoristi di ogni risma.

In quanto all’età pensionabile, giova ricordare a chi si lamenta in 
continuazione del miglioramento delle aspettative di vita, che in meno 
di 20 anni (1995-2013, quando le nuove regole andranno a regime) si 
sarà allungata l’età della pensione di anzianità di ben 10 anni.

Dunque i rigoristi, dal punto di vista della mera compatibilità 
economica, potrebbero benissimo starsene tranquilli al riparo delle 
loro blindature multiple. E dal loro bunker potrebbero fare qualche 
piccola concessione qua e là, giusto per il quieto vivere. A luglio, 
però, non l’hanno fatto, mettendo in croce i collaborazionisti. 

Non l’
hanno fatto sia per ragioni ideologiche che politiche. Hanno ritenuto 
preminente, prima di ogni altra cosa, affermare il completo dominio 
delle oligarchie di cui sono parte, scrivendo così sulla pelle dei 
lavoratori le vere ragioni fondanti del futuro Partito Democratico.

Il 
“rospo” di cui abbiamo già parlato lo aveva del resto preannunciato al 
PRC, dicendogli in sostanza: fatela finita, siete ormai fuori dalla 
storia, prendete atto che comandiamo noi e limitatevi a darci il voto 
che altrimenti torna bau-bau Berlusconi. 

Un simile affronto, 
successivamente reiterato da Rutelli e da altri esponenti di spicco 
della maggioranza di governo affinché lo capissero anche i sordi, un 
tempo sarebbe stato giustamente considerato un’onta da lavare nel 
sangue. Tradotto in atti politici: via dal governo e tutti (rospo 
compreso) a casa.

Questo in tempi normali, in cui il pensiero 
dominante non era ancora pensiero unico; in cui i partiti, e gli uomini 
che li dirigevano, avevano ancora una dignità ed un onore da difendere. 
Ma oggi?

Oggi abbiamo i facitori del danno al governo assieme ai 
pretesi riduttori del danno. E come in molti incendi estivi chi appicca 
il fuoco e chi cerca di spegnerlo vive spesso fianco a fianco. In 
genere, però, il bosco brucia.

La manifestazione del 20 ottobre non fa 
certo pensare ad un vero sussulto di orgoglio. Sembrerà impossibile, ma 
la piattaforma (leggere per credere) non cita neppure di striscio i 
protocolli di luglio limitandosi ad affermare che: “L’attuale governo 
non ancora ha dato (sic!) risposte ai problemi fondamentali che abbiamo 
di fronte”. I manifestanti del 20 ottobre marceranno quindi per una 
“svolta”, ma evitando di dire intanto il benché minimo no su pensioni e 
legge 30. 

Ma la politica è fatta anzitutto di no. Tanto più quando, 
come in autunno, il parlamento, il paese, la stampa parleranno di 
queste due cose concrete che riguardano la grande maggioranza degli 
italiani, non certo di “svolte”.

Il senso di questa manifestazione è 
del resto reso evidente dalla data scelta. Perché ottobre, quando tutti 
sanno che la finanziaria, che imbarcherà in qualche forma i protocolli 
di luglio, dovrà essere presentata dal governo entro il 30 settembre? E 
quando tutti sanno che, dati i numeri al Senato, andrà avanti 
presumibilmente a colpi di fiducia? Non disturbare il manovratore è la 
vera preoccupazione di costoro, mugugnanti perché in difficoltà, ma pur 
sempre “leali” come solo i veri collaborazionisti sanno essere. E 
perché, se proprio ottobre deve essere, il 20 e non ad esempio il 13? 
Ce lo spiega (ma guarda un po’!) Gianfranco Fini, che essendo impegnato 
a mettersi in mostra nel centro-destra, pare stia organizzando per 
quella data una manifestazione per oscurare un po’ le primarie del 
Partito Democratico previste per il 14 ottobre.

Racconta Fini alla 
stampa di aver telefonato nei giorni scorsi a Giordano per informarsi 
se per caso PRC e soci preparassero qualcosa per quel giorno. Giordano 
lo ha rassicurato: ci avevano pensato, ma poi hanno risposto sì alla 
richiesta di compiere un gesto di cortesia nei confronti di Veltroni e 
compagnia. Ecco perché sarà il 20 ottobre, e non il 13, ad essere 
candidato a diventare giornata mondiale dell’ipocrisia. Quando si dice: 
“lotta dura senza paura!”

Come finirà allora? Alla fine qualcosa si 
inventeranno, non è la fantasia che gli manca. Che cosa, probabilmente 
non lo sa ancora nessuno. Ma non importa, quel che è certo è che si 
tratterà di un po’ di fumo, che non influirà sulla qualità e sulla 
quantità dell’arrosto cucinato nel superluglio delle classi dominanti.

 

Leonardo Mazzei

 

In questo numero di PM pubblichiamo questo lunga 
e precisa analisi di Leonardo Mazzei sui “protocolli di luglio” ovvero 
sulla controriforma del sistema previdenziale e del “welfare” 
approntata dal governo Prodi alla vigilia delle ferie estive (tanto per 
cambiare) malgrado le promesse fatte in campagna elettorale (beato chi 
ci crede ancora !!). Si tratta di un intervento di cui condividiamo 
molti elementi (come ad esempio, la sostanziale equivalenza di centro-
destra e centro-sinistra nell’azione di governo) e che riteniamo possa 
essere molto utile ai lavoratori, specialmente nella sua parte di 
analisi.