La prima moglie si è rivolta a un centro anti-
violenze per denunciare le gravi lesioni fisiche subite in parti
vitali del proprio corpo e poi il sequestro dei due figli minori. La
seconda moglie è fuggita con i suoi due figli e si è rifugiata in un
centro di accoglienza per donne in difficoltà. Lui è egiziano, loro sono
marocchine, in tutto sei figli, nati in Italia. Una tragica storia di
poligamia, violenza, miseria e disperazione. Succede a Roma. Ma sono
numerosi i casi simili nel nostro Paese. Proprio mentre il Parlamento si
appresta a varare una legge sulla libertà religiosa che di fatto legittima
il matrimonio islamico. Najat Hadi aveva 26 anni quando nel 1987 venne a
Roma per turismo: «Mi ero concessa una vacanza. Da dieci anni lavoravo
come governante all'Hotel Sahara di Agadir, un albergo a 5 stelle.
Economicamente stavo bene. Ci siamo conosciuti a un bar. Lui mi ha fatto
la corte e mi ha detto che insieme avremmo fatto una bella vita. Abdel Ati
Ali Keshk, più grande di quattro anni, diplomato in ragioneria, faceva il
pizzaiolo. Gli ho creduto e ci siamo sposati». Il matrimonio si celebrò
nella moschea di via Bertoloni gestita all'epoca dall'imam egiziano Ismail
Nur El-Din: «L'imam aveva provveduto ai due testimoni, suo figlio e un suo
amico. Poi ci recammo all'ambasciata egiziana e, sempre alla presenza di
due testimoni, il matrimonio fu lì registrato.
Poi il certificato fu tradotto in italiano e
fatto registrare all'Anagrafe di Roma». All'inizio il sodalizio funzionava
abbastanza bene: «Ma presto insorsero dei problemi. Non voleva
assolutamente che io potessi rendermi autonoma guadagnando dei soldi. Si
divertiva, perfino con i nostri bambini, a farsi implorare perché ci desse
i soldi. Quando li concedeva, era come se ci facesse l'elemosina. In 19
anni sono andata una sola volta a trovare i miei familiari in Marocco. Mio
padre è morto sei anni fa e lui non mi ha permesso di partecipare ai
funerali». Che si trattasse di un pretesto è evidente dal fatto che i
soldi per andare in Egitto li trovava sempre: «Lui è di Damanhur, vicino
ad Alessandria. Ci siamo andati spesso. Vi ho pure soggiornato per anni.
La mia primogenita Fatema vi ha fatto le elementari. Lui insisteva perché
stessi il più a lungo possibile in Egitto. Diceva che in tal modo i figli,
tutti nati in Italia tranne Mariam, sarebbero cresciuti secondo i precetti
della religione islamica e la consuetudine della società araba. Di fatto
ci aveva segregato in Egitto, nell'appartamento dei suoi genitori, mentre
lui viveva stabilmente in Italia». Non trascorse molto prima che Abdel Ati
mostrasse il suo volto violento: «Bastava un nulla perché lui mi
picchiasse con una ferocia illimitata. Mi ha ripetutamente preso a calci e
a pugni, mi ha sbattuto la testa per terra, mi ha colpito con tale
accanimento da perforarmi l'orecchio. La prima volta che fui ricoverata al
Pronto Soccorso avevo una ferita alla testa e gli occhi insanguinati. Mi
ha abbandonata lì da sola. Mi hanno messo dieci punti in testa. Poi mi ha
costretta a ritirare la denuncia, minacciando di portarmi via i bambini. E
una volta dimessa fui indotta a sottomettermi alla sua volontà, tornai in
Egitto e ci rimasi per sei mesi. Fu al ritorno a Roma che scoprii la
ragione di tanta insistenza e violenza: l'ho trovato insieme a una
prostituta polacca. I miei vicini mi dissero che aveva trasformato la casa
in un bordello. Lui non si scompose: "Visto che non c'eri, avevo bisogno
di altre donne". Eppure sono stata costretta a perdonarlo per poter far
rientrare dall'Egitto i miei figli». Poi c'è stata una sorta di
redenzione: «Nel 1995 mio marito andò in pellegrinaggio alla Mecca. Mi
disse che voleva cambiare vita. Cominciò a pregare. Io gli credetti.
Intanto era nata Mariam, a cinque anni di distanza da Mouhamed. Nel 1999
nacque il quarto figlio, Abdel Rahman. In Egitto ordinò al padre di
requisire tutti i nostri passaporti.
Quando mi ribellai, suo padre e sua sorella mi
picchiarono. Fu lì che mio marito mi lacerò i seni con un bastone
appuntito». L'illusione svanì definitivamente nel 2001: «Quell'anno sposò
Yamna Oukhira, aveva 35 anni, era anche lei marocchina. Lo scoprii
tornando dall'Egitto. Lui l'aveva portata a casa nostra mentendo a
entrambe. Io le dissi: "Che ci fai a casa mia?". Lei con fare sicuro: "Io
sono sua moglie". Ribattei: "Ma lo sai che ha già 4 figli?". Lei sgomenta:
"No". Le ordinai: "Tu devi andare via da questa casa. Non c'è spazio. C'è
una sola camera dove dormo io con i quattro figli. Se siete sposati
secondo il rito islamico, allora deve trovarti un'altra casa". Finii
all'Ospedale Gemelli per un esaurimento nervoso: sono stata troppo male,
avevo la febbre e ho tremato in continuazione per venti giorni. Ma anche
stavolta l'ho perdonato per i miei figli. Alla fine Yamna è scappata con i
due figli avuti con Abdel Ati, Ahmed e Zeinab. Ha trovato rifugio in una
Casa di accoglienza per donne vittime di violenza familiare». Lo scorso 26
settembre, mentre Najat e i figli si trovavano nella moschea Al Houda di
Centocelle per consumare il pasto offerto in occasione del Ramadan, il
marito arrivò e si portò via i figli minori, Mariam e Abdel Rahman: «Sono
disperata. Non riesco più a dormire. Vi supplico, aiutatemi a riaverli».
Sembra che Abdel Ati sia fuggito in Egitto, forse insieme ai figli. Del
caso si sta occupando l'Acmid- Donna, l'Associazione delle donne
marocchine in Italia, la cui presidentessa Souad Sbai ha promosso
un'azione legale a sostegno di Najat. Ma il problema della poligamia non
si esaurisce in singoli casi umani ancorché drammatici. Si tratta di una
minaccia seria all'istituto della famiglia monogamica su cui si regge la
civiltà occidentale. E che paradossalmente trova conforto nella proposta
di legge all'esame del Parlamento, denominata «Norme sulla libertà
religiosa e abolizione della legislazione sui culti ammessi», il cui
articolo 11 afferma che il ministro di culto islamico non sarà tenuto a
pronunciare, durante il rito in moschea, gli articoli del codice civile
sulla parità di diritti e doveri tra marito e moglie (143, 144 e 147 del
codice civile), «qualora la confessione abbia optato per la lettura al
momento della pubblicazione». Così come sorprende il fatto che interi
passaggi dell'articolo 11 corrispondano a quelli contenuti nella bozza
d'Intesa con lo Stato redatta dall'Ucoii (Unione delle comunità e
organizzazioni islamiche in Italia), in cui si chiede la legittimazione
della poligamia che, non a caso, caratterizza lo status familiare di
diversi dirigenti dell'Ucoii. Allora, ministro delle Pari Opportunità
Barbara Pollastrini, diamo una mano a Najat perché riabbia i figli
sequestrati dal padre, ma occupiamoci tutti insieme della minaccia insita
nell'istituto della poligamia che insidia la nostra civiltà.