Hina, l’islam, l’integrazione
Possono i musulmani vivere nella cultura europea? Sì, a
patto di saper accettare regole condivise
Samir Khalil
Samir
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L’11 agosto scorso, Hina Saleem, ventunenne
pakistana, arrivata sette anni fa nel Bresciano, è stata sgozzata dal
padre e sepolta nel giardino di casa. Il fatto ha suscitato da noi,
giustamente, grande scalpore. Ma in Pakistan sarebbe una storia quasi
banale: nel 2004 sono state uccise 1.349 ragazze, nel 2005 oltre mille. In
tutto il mondo islamico il cosiddetto «delitto d’onore» è punito in modo
blando: la condanna è a pochi anni di detenzione, spesso poi
ridotta. In Italia, fino al 1981, il delitto d’onore godeva di
attenuanti. Ma con una differenza: non era mai eseguito in nome della
religione, bensì dei costumi. Hina è stata sgozzata «in nome dell’islam»,
anche se sappiamo che si tratta di usanze antichissime, rinforzate
purtroppo dall’insegnamento tradizionale musulmano. Lo stesso vale per le
mutilazioni genitali femminili, i matrimoni forzati e quelli infantili, la
lapidazione delle donne adultere, il prezzo della sposa, ecc. Famosi ulema
hanno sostenuto che sono norme islamiche. Affermare quindi che «l’islam in
questa tragedia non c’entra per niente» è segno di leggerezza. Lo dimostra
il rito di sgozzare la vittima, usanza tipicamente musulmana, molto
diffusa dal terrorismo islamico. L’islam è riuscito a imporre delle
prescrizioni minuziose su tutti i particolari della vita quotidiana; se
avesse voluto abolire questi costumi l’avrebbe fatto. Ma qual è il
crimine di Hina? Vestiva all’occidentale, fumava, lavorava in una
pizzeria-bar, e soprattutto conviveva da qualche tempo con un italiano. Un
ragazzo pakistano avrebbe potuto fare tutto questo senza problemi; una
ragazza, no. Questa chiara discriminazione è contraria alla Costituzione
italiana. Come Hina, ci sono stati centinaia di casi in Europa negli
ultimi anni; in Francia, le donne hanno reagito creando il gruppo «Né
puttana né sottomessa!». Forse è bene spiegare alcuni punti per capire
l’atteggiamento dei genitori. Primo: l’onore della famiglia musulmana è
rappresentato dalla donna, in particolare dalla sua verginità. L’uomo può
permettersi di avere rapporti con le donne, purché non siano musulmane. La
donna no. Uccidendo Hina, il padre ha salvato l’onore della famiglia. La
figlia aveva frequentato l’oratorio, ma «a partire dalla pubertà è stata
fatta stare in casa, lontana dai costumi occidentali», ha spiegato il
prete di Brescia, mentre i suoi fratelli continuano a frequentarlo, in
quanto maschi. In secondo luogo, va ricordato che l’islam, a differenza
del cristianesimo, non è una spiritualità che ognuno concretizza secondo
la sua cultura. L’islam è una cultura, un comportamento sociale, un modo
di vestirsi, di mangiare, ecc. Penetra in tutti i particolari della vita.
Perciò difficilmente il musulmano riesce a distinguere tra fede e
tradizione; il che rende difficile l’integrazione al di fuori del mondo
islamico. Terzo fatto: l’islam mette l’accento sul gruppo, non
sull’individuo. È la comunità (la ummah) che importa, più che la persona.
Perciò la libertà umana non è una priorità, neppure un valore. Se c’è
conflitto tra la protezione del gruppo e quella della persona, l’ultima
sarà sacrificata. «Sarò io e solo io a decidere con chi condividere la mia
vita», aveva detto Hina a suo padre. C’è un problema evidente che
taluni, in nome della solidarietà, cercano di nascondere. La cultura
musulmana tradizionale è molto diversa, se non opposta, alla cultura
cristiana che si esprime nella civiltà europea. Non tutti i musulmani
possono vivere felici nella cultura europea. Perciò mi pare ragionevole,
per amore loro - come ho ripetuto - informarli seriamente prima che
vengano in Europa di questa profonda differenza e accogliere solo chi è
capace di accettarla. Se è vero che ogni identità si arricchisce
nell’incontro con l’altro, rimane vera la norma universale: tocca
all’ospite adattarsi alle regole di chi ospita. D’altra parte, non c’è
dubbio che il musulmano si senta più a casa con chi ha una chiara identità
cristiana che con chi è secolarizzato. Leggiamo nel Corano (5,82):
«Troverai che i più prossimi all’amore per i credenti (ossia i musulmani -
ndr) sono coloro che dicono: “In verità siamo nazareni (cristiani -
ndr)”». Il musulmano è un uomo religioso che si sente più in sintonia con
i credenti. E si aspetta da noi una testimonianza
cristiana.
* Gesuita e
islamologo
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