Si possono muovere almeno tre ordini di 
      obiezioni all’importante discorso tenuto ieri dal cardinal Raffaele 
      Renato Martino, presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, sui 
      rapporti con il mondo islamico. Un discorso, vogliamo dirlo subito, 
      ispirato a un discutibile irenismo e le cui proposte, se accolte, 
      provocherebbero certo più danni e problemi che benefici. Ma ciò non vuole 
      dire che non si tratti di un discorso importante dal momento che di sicuro 
      esso riflette posizioni largamente diffuse sia nel mondo cattolico sia, 
      con declinazioni in parte diverse, in quello laico. Il primo ordine di 
      obiezioni riguarda la stessa premessa storico-causale, per così dire, 
      della posizione espressa dal cardinale: «Solo il dialogo e la libertà 
      religiosa - egli ha affermato - possono evitare il fondamentalismo: sia 
      quello politico-laico che quello religioso». 
      Dunque la ragione per cui ci troviamo di fronte 
      all’ondata fondamentalista attuale starebbe in null’altro che nel 
      fatto che vi è stato finora troppo poco dialogo e troppo poca libertà 
      religiosa. Se ce ne saranno di più, eviteremo il fondamentalismo. Il 
      minimo che può dirsi, mi pare, è che si tratti di un’analisi 
      approssimativa fondata più sull’ideologia che sui fatti. Davvero c’era una 
      scarsa libertà religiosa nell’Inghilterra in cui sono cresciuti i giovani 
      fondamentalisti (con passaporto britannico) che poi avrebbero fatto 
      saltare in aria la metropolitana e i bus di Londra nel luglio scorso? 
      Davvero è a causa della nota chiusura al dialogo delle chiese cristiane 
      olandesi, e della conseguente soffocante cappa di conformismo religioso, 
      che alcuni giovani islamici di quel Paese si sono sentiti in dovere di 
      ammazzare Pim Fortuyn e Theo Van Gogh? 
      Il secondo ordine di obiezioni riguarda le 
      modalità del rapporto con l’islam. «Se attendiamo la reciprocità nei 
      Paesi rispettivi dove ci sono cristiani - ha sostenuto il cardinale 
      secondo l’agenzia Ansa - allora ci dovremmo mettere sullo stesso piano di 
      quelli che negano questa possibilità». Insomma, niente reciprocità: gli 
      islamici a casa loro facciano pure dei cristiani ciò che gli piace, noi 
      non faremo dipendere in nulla il nostro comportamento da loro. Ora è 
      certissimo che mai e poi mai l’intolleranza altrui potrebbe giustificare 
      la nostra, ma da qui a teorizzare l’irrilevanza della reciprocità, come mi 
      sembra faccia il cardinale Martino, ce ne corre. Specialmente se si pensa 
      che egli sovrintende a un organo della Chiesa che si intitola, oltre che 
      alla pace, alla giustizia. Ma la giustizia - la giustizia umana, non 
      quella di Dio - non ha forse qualcosa a che fare con la reciprocità? Si 
      può definire giusta una situazione che preveda una stabile disparità di 
      trattamento? E una pace fondata sulla prepotenza e la persecuzione degli 
      uni e la tolleranza e la remissività degli altri, merita davvero il nome 
      di pace o non piuttosto qualche altro nome? La migliore risposta, come 
      sempre, la dà il senso comune. 
      Vengo infine alla terza e più impegnativa 
      affermazione di Martino. «Se in una scuola ci sono cento bambini di 
      religione musulmana - ha detto - non vedo perché non si possa insegnare la 
      loro religione. Questo è il rispetto dell’essere umano, e il rispetto non 
      deve essere selezionato». Apparentemente non fa una grinza, ma i principi 
      sono principi e devono essere applicati perché tali: allora bisognerà dire 
      che non solo cento bambini ma dieci, cinque, un bambino di religione 
      musulmana ha il diritto anch’esso a un apposito insegnamento di religione 
      nell’orario scolastico. Ma quanti insegnanti saranno necessari? E poi 
      naturalmente nessuno vorrà negare che non solo i bambini islamici hanno 
      diritto a un insegnamento religioso ma anche quelli di religione 
      buddhista, di religione confuciana, zoroastriana, anche i bambini figli di 
      Testimoni di Geova o magari degli adepti a Scientology. Perché no? E se 
      no, qual è il criterio di esclusione - beninteso, in armonia con i 
      principi di tolleranza e di dialogo religioso, nonché con il principio di 
      uguaglianza - che lo Stato italiano potrebbe nel caso adottare? 
      Naturalmente non spero certo che il presidente del 
      Pontificio consiglio Giustizia e Pace vorrà rispondere a qualcuna 
      delle domande sopra riportate. Se mai lo facesse sarebbe certo una 
      meritoria rottura di quella tradizione delle gerarchie cattoliche che 
      spesso si mostrano alquanto noncuranti degli aspetti pratici delle 
      questioni che affrontano, accampando il motivo che di questi aspetti deve 
      occuparsi la politica, cioè i laici. Ma a parte ciò, e per concludere, mi 
      sembra che le parole del cardinale Martino configurino su un insieme di 
      questioni importantissime una posizione nettamente antitetica a quella 
      ormai più volte delineata, e con forza, da Benedetto XVI. Si può dire anzi 
      che quelle parole costituiscono in filigrana un vero e proprio manifesto 
      antiratzingeriano: e anche come tali, dunque, esse si segnalano alla 
      nostra attenzione. Se però dietro di esse ci sia solo uno stato d’animo o 
      un pensiero personali, o se invece esse nascondono scontentezze più ampie 
      e profonde, almeno al nostro sguardo e almeno a oggi è impossibile capire.