Che rischio la Ru 486 nei Paesi poveri
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- Date: Fri, 30 Dec 2005 11:08:42 +0100
Che rischio la
Ru 486 nei Paesi poveri www.impegnoreferendum.it
di Assuntina
Morresi
Uno dei miti della pillola abortiva è quello secondo il quale sostituendo la
procedura chirurgica con quella medica si abbattono le complicanze e la
mortalità dovute ad aborti mal eseguiti, o effettuati in condizioni di non
sicurezza (aborto unsafe): una situazione ricorrente nei Paesi in via
di sviluppo, anche dove l’aborto è legale. Ma si tratta, appunto, di un mito,
considerati i requisiti richiesti nei Paesi occidentali per le donne che si
sottopongono all’aborto chimico e i dati disponibili sulle
sperimentazioni. Vediamo alcune delle condizioni essenziali richieste per accedere a questo tipo di procedura abortiva. Innanzitutto è di fondamentale importanza l’accesso a un servizio sanitario fornito di ecografo e relativo personale dedicato: l’età gestazionale va stabilita con precisione – dopo i 49 giorni di gravidanza l’efficacia della pillola abortiva diminuisce sensibilmente – e soprattutto è necessario escludere la possibilità di una gravidanza extrauterina, caso in cui la pillola abortiva non ha alcun effetto se non quello di mascherarne i sintomi e causare anche la morte, come già avvenuto negli Usa. È sempre con un’ecografia che si verifica il completo svuotamento dell’utero, nella visita prevista dopo due settimane dalla prima pillola. Si richiede inoltre di abitare a non più di un’ora di macchina da un ospedale in grado di effettuare interventi d’urgenza, e di potervi essere accompagnate: fra gli effetti collaterali più pesanti vi sono infatti emorragie – a cui possono seguire interventi medici o chirurgici, quando non trasfusioni –, forti dolori addominali – per cui sono spesso necessari analgesici – e infezioni, che richiedono trattamenti antibiotici sotto stretto controllo medico. Sono proprio i processi infettivi a essere oggi sotto accusa: quattro donne in meno di due anni in California e una quinta in Canada – come già denunciato su queste pagine, nel silenzio pressoché assoluto della "grande stampa" – sono morte per una rara infezione (dovuta al batterio Clostridium Sordellii) dopo essersi sottoposte ad aborto chimico (o medico). Facile accesso a strutture ospedaliere debitamente equipaggiate di attrezzature e personale: quante donne ne possono disporre nelle regioni svantaggiate africane o asiatiche? D’altra parte i dati disponibili riguardanti le sperimentazioni in questi Paesi non sono incoraggianti: Winikoff e collaboratori, ad esempio, nel 1997 hanno condotto uno dei primi studi sperimentali (molto citato nella letteratura scientifica) sull’accettabilità del metodo abortivo medico in Cina, Cuba e India, paragonando i risultati con quelli ottenuti chirurgicamente. Le cifre mostrano che in questa sperimentazione in India l’aborto medico è fallito nel 5.2% dei casi, mentre per quello chirurgico il successo è del 100%; in Cina la pillola abortiva è fallita nell’8.6% dei casi, mentre il metodo chirurgico nello 0.4%. A Cuba addirittura viene riportato un fallimento del metodo medico del 16%, contro un 4% di quello chirurgico. Ricordiamo che quando la pillola abortiva fallisce è necessario procedere per via chirurgica, talvolta in condizioni di urgenza. Tutte le donne coinvolte nella sperimentazione abitavano a non più di un’ora di macchina dalla clinica. Ma questa non è la condizione della maggior parte delle donne di questi Paesi, molte delle quali vivono in aree rurali del tutto sprovviste di servizi sanitari attrezzati. Incoraggiare un aborto medico che si potrebbe verificare anche a casa significherebbe esporle a numerose, evidenti e gravissime complicanze. Proprio ai pericoli per le donne lontane da strutture sanitarie si è appellato il ministro della Sanità australiano, quando ha confermato il bando alla pillola abortiva esistente nel suo Paese fin dal 1996. Fra le controindicazioni elencate per chi vorrebbe abortire con la pillola figurano anche malnutrizione e anemia, il che non depone precisamente a favore di questa procedura nei Paesi in via di sviluppo. In un altro studio del maggio 2001, pubblicato nella rivista scientifica Lancet, si presenta una sperimentazione effettuata in Tunisia e Vietnam con un successo, rispettivamente, nel 91 e 93% dei casi, ancora una volta al di sotto della media occidentale (95%). Interessante il motivo addotto dalle donne che hanno scelto di abortire a casa: evitare il ricovero in clinica è compatibile con le attività familiari, di lavoro, di studio. Evidentemente le informazioni ricevute le avevano indotte a pensare che l’aborto chimico non avrebbe influito nel corso normale della loro vita. E invece il 13% delle donne tunisine ha dichiarato che gli analgesici ricevuti erano inadeguati per l’entità del dolore, e il 31% delle donne vietnamite che hanno scelto l’uso domestico del misoprostol si sono sottoposte a visite ospedaliere non programmate. Per non parlare dei noti effetti collaterali: crampi (più di due giorni in media), vomito (da mezza giornata a più di un giorno), diarrea, perdite di sangue anche pesanti, e via dicendo. Nel testo dell’articolo viene sottolineato che «la somministrazione a casa
del misoprostol offre alle donne più scelta, controllo e privacy nella gestione
del proprio aborto», e quindi l’uso domestico viene consigliato per tutti i
Paesi del mondo, sviluppati e non. Eppure le deludenti percentuali di efficacia
indicherebbero il contrario. Come mai? A pensar male si fa peccato ma spesso ci
si azzecca: quattro entusiasti autori – su sette – dell’articolo appartengono al
«Population Council», l’ente no profit che detiene il brevetto del mifepristone
nel mercato americano. Due di loro sono anche autori dell’articolo precedente,
che infatti si concludeva con un giudizio positivo sulla sperimentazione
presentata, contro ogni evidenza numerica. Qualche notizia però trapela. Nel 2000 è stato dedicato all’aborto medico un numero speciale del Journal of American Medical Women’s Association, nel quale il dottor Wu Schangchun, del «National Research Institute for Family Planning» di Pechino ha dedicato un articolo alla situazione in Cina. Se da un lato le sperimentazioni cinesi descritte nella letteratura medica danno un’efficacia che va dal 91 al 97%, con una percentuale di interventi chirurgici del 3-9%, viene specificato che in molte cliniche l’aborto per aspirazione è comunque eseguito al termine del terzo giorno della procedura medica se l’espulsione non è ancora avvenuta, per evitare interventi di emergenza per i quali non si è attrezzati. In questo modo il tasso di interventi chirurgici effettuati è maggiore del 20%. Il 35% delle donne denuncia perdite di sangue pesanti e prolungate, a causa delle quali il 10-20% deve tornare in ospedale, specie fra chi vive fuori dalle città. Il 40% non sceglierebbe nuovamente l’aborto medico. La «State Family Planning Commission» ha sottolineato che l’aborto medico deve avvenire in cliniche pubbliche specializzate e pronte a interventi di emergenza, ma nonostante ciò il numero di aborti medici sta diminuendo nei grandi ospedali, perché «lo staff medico è troppo impegnato in questa procedura (più consulti, più visite, più osservazione) e inoltre deve gestire casi con seri effetti collaterali e complicazioni». |
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