Perché con la Ru486 le femministe hanno perso la loro battaglia



Perché con la Ru486 le femministe hanno perso la loro battaglia
di Eugenia Roccella - storica femminista

La Ru486 non è più solo una banale pillola
che provoca l'aborto, è una bandiera.
Non è facile capire come un metodo chimico
per interrompere la gravidanza si sia trasformato
in una frontiera di civiltà, una battaglia
fatta in nome della libertà femminile e del
progresso. Quando i gruppi di self-help e le
associazioni per la salute delle donne si battevano
per diffondere il metodo Karman, assai
meno traumatico del tradizionale raschiamento,
non ho memoria di un analogo
coro di scalpitanti consensi e dichiarazioni
pugnaci. Ma, sul dilemma aspirazione o curetage,
nessuno poteva spendere qualche residuo
scampolo di ideologia, non c'era il gusto
dello scontro frontale laici-cattolici, progressisti-
reazionari; si trattava, semplicemente,
di valutare vantaggi e svantaggi delle
diverse tecniche per le pazienti.
Per farla diventare una bandiera, la povera
pillola è stata caricata di significati simbolici
che la travalicano, e le attribuiscono un
ruolo salvifico del tutto sproporzionato: il mifepristone
dovrebbe liberare le donne dalla
sofferenza, fisica e psichica, eliminando insieme
crampi e sensi di colpa. La Ru486, per
chi la difende, avrebbe solo virtù positive,
renderebbe l'aborto facile e indolore; dunque,
chi chiede cautela (e per esempio non
apprezza le emorragie domestiche) vuole in
realtà che l'aborto sia difficile e doloroso, un
penoso cammino di espiazione.
Personalmente, ho lottato per ottenere
una legge, mi sono autodenunciata, ho subito
processi, e sarei disposta a rifarlo immediatamente.
Non voglio, come credo non possa
volerlo nessuna donna, che la scelta di interrompere
la gravidanza sia punitiva, che
implichi un tributo visibile e corporeo di lacrime
e sangue da sommare a quella lacerazione
interiore invisibile e incorporea, che
comunque comporta. Quando, negli anni Settanta,
scendevamo in piazza contro le leggi
"per l'integrità della stirpe", qualcuna di noi
commentava: pensa a che punto siamo, se
dobbiamo reclamare l'aborto come fosse un
diritto. Non lo è, infatti; è un compromesso
raggiunto all'interno della costruzione maschile
della cittadinanza, immaginata per il
corpo dell'uomo, che non si sdoppia, che non
sa generare. E'un pensiero-limite, una legittimazione
di quella morale concreta dell'aggiustamento
che le donne hanno praticato
per secoli, nella zona di confine tra lecito e illecito,
fra ciò che era consentito dalla legge
patriarcale e ciò che ritenevano giusto secondo
la propria esperienza di vita. L'aborto è
una conquista ambigua, della cui ambiguità
le femministe erano e sono perfettamente coscienti;
non è l'affermazione trionfante della
libera scelta, ma la presa d'atto di uno scacco,
l'ultima via d'uscita di fronte al fallimento
del tentativo di controllare il corpo e la fertilità.
L'interruzione di gravidanza è una soluzione
arcaica, che avrebbe dovuto cedere gradualmente
il passo alla prevenzione, a metodi
contraccettivi più morbidi e amichevoli
per le donne. La battaglia per l'aborto era fatta
per arrivare alla riduzione degli aborti,
nella convinzione che sottraendoli alla clandestinità
si sarebbe incrementata la consapevolezza
e l'informazione.
In questo senso, la battaglia è stata persa.
Il ricorso all'interruzione di gravidanza, in
Europa, non è mai calato sensibilmente, e
non ha rapporto, come dimostra il caso della
Svezia, con un alto tasso di diffusione dei contraccettivi.
L'apologia della Ru486 rischia di aggravare
e consolidare questa sconfitta. In che cosa
consiste la tanto propagandata "facilità" dell'aborto
chimico? Non in meno dolore fisico
per le donne, se persino Silvio Viale ammette
che "il bisogno di analgesia è minore per
l'aborto chirurgico"; non in meno dolore psichico,
se al sollievo per una rapida conclusione
si sostituisce un'attesa di giorni, e l'ansia
che sempre provoca un evento emorragico (lo
si chieda a chi l'ha vissuto). I movimenti internazionali
per la salute della donna hanno
messo in guardia sulle conseguenze a lungo
termine della Ru486, di cui non si sa ancora
abbastanza; e da tempo le femministe esortano
alla cautela verso l'uso disinvolto di farmaci
che intervengono pesantemente sui delicati
equilibri ormonali femminili.
La facilità dell'aborto chimico è altrove, e
si legge con chiarezza nelle parole dello stesso
Viale, riportate sul Foglio di sabato da Nicoletta
Tiliacos: "E' naturale che a un flusso
di materiale indefinito sia attribuito un valore
diverso da quello di un embrione o di un
feto (.) più formato e più visibile". Siamo,
dunque, a un'etica dell'invisibilità, del genere
"occhio non vede, cuore non duole". La
Ru486 potrebbe costituire una sorta di bilanciamento
morale dell'ecografia, che induce a
considerare il feto visibile una persona. Con
questo metodo si può mascherare il conflitto,
addolcire il senso cruento dell'operazione,
permettendo, dice ancora Viale, "di considerarlo
meno un aborto".
Qui bisogna essere chiari: siamo pro-choice
o siamo abortisti? Vogliamo la consapevolezza
di una scelta, sempre connessa all'assunzione
di una responsabilità, o vogliamo
che l'interruzione di gravidanza diventi un
anticoncezionale come un altro? Vogliamo
tentare di ridurre o di incrementare il numero
di aborti? La Ru486 rende l'aborto realmente
facile solo dal punto di vista culturale,
abbassando la soglia di attenzione cosciente
delle donne, e permettendo agli uomini di
minimizzare la propria responsabilità (in fondo
basta una pillola). La banalizzazione dell'aborto
è legata all'indifferenza pubblica verso
il valore sociale, culturale e simbolico della
maternità, e porta con sé una sostanziale
mancanza di rispetto verso il corpo femminile.
I nuovi anticoncezionali, invece di essere
più naturali, meno invasivi e chimicamente
pesanti, somigliano sempre di più a forme
"leggere" di aborto (pillola del giorno dopo,
vaccini antifertilità), intervenendo a cose fatte.
Mentre in ogni campo della medicina sale
la richiesta di metodologie dolci, alle donne
si offrono solo bombe chimiche, e nei paesi
terzi, in nome dei diritti riproduttivi, farmaci
spaventosi come la Quinacrine, che provoca
la sterilizzazione grazie a un processo infiammatorio
dell'utero.
Davvero vogliamo questo, abbiamo lottato
per questo? Io no, e so di non essere la sola.
Eugenia Roccella


	

	
		
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