Papa Woytila:bilancio di un pontificato



Invio questo articolo, che ho scritto per il Nuovo quotidiano di Puglia

Un saluto fraterno da Arrigo Colombo

 

Papa Woytila: bilancio di un pontificato

 

di Arrigo Colombo

 

 

In questi  giorni il papa polacco, dal lungo pontificato di ventisett’anni, sta vivendo il suo trionfo popolare e mediatico. Alcuni anzi si sono chiesti se il trionfo non fosse anzitutto mediatico; per un papa che i media li aveva sempre cercati e ampiamente usati. Se dunque fosse il popolo a riempire le chiese e le piazze; o non fossero i media, con la loro grandiosa ed enorme mobilitazione, di giornali interi, di giorni e notti intere, a spingerlo nelle chiese e nelle piazze, a mobilitarlo. Si sono chiesti se questo non fosse mai accaduto prima proprio perché i media non avevano ancora raggiunto la potenza che in questi  ventisett’anni hanno maturato; ma anche l’umanità non aveva raggiunto quel grado già alto di unità, di compresenza, e anche di solidarietà che va maturando in misura sempre maggiore.

Ma lasciamo questa ipotesi, che è tutta da provare; anche se ha turbato alcuni spiriti sensibili, che avrebbero preferito il silenzio e il raccoglimento interiore. Resta il fatto di una grande popolarità che il papa polacco si conquistò subito come uomo, e come diverso dall’abituale stereotipo clericale. L’uomo robusto, forte; lo sportivo, che conosceva e amava la montagna, lo sci, che aveva voluto una piscina per poter nuotare. Che aveva lavorato in fabbrica. E però era anche un artista, e aveva scritto e fatto teatro, e amava la poesia.

Ma inoltre la simpatia popolare lo avvolgeva proprio in quanto “polacco”, figlio della nazione dalla grande fede e dall’infinita sofferenza, la nazione martire, due volte spartita tra i grandi prepotenti imperi; e ancora spartita tra Hitler e Stalin; e infine finita sotto il ferrato tallone sovietico. La nazione disprezzata, calpestata. E, salendo al papato, diventava il simbolo di una liberazione possibile; e diventava anche una forza morale, forza di riscatto, per il suo popolo, per i lavoratori di Danzica in rivolta, il patto saldo di Solidarnosc; per tutti i popoli schiavi dell’Europa Orientale. Quanto di concreto egli abbia potuto fare per loro non si sa; e però nessuno può sottovalutare il valore del simbolo e della forza morale.  

Un fatto che impressionava ed esaltava erano i suoi viaggi nel mondo: 104 missioni, in un numero enorme di paesi. V’era certo in essi la volontà di realizzare il suo compito di pastore universale, l’incontro con la gente, la conoscenza concreta delle condizioni di un popolo e di una comunità ecclesiale. Molti però hanno visto in queste folle osannanti un trionfalismo superficiale e vuoto, troppo brevi i soggiorni. Soprattutto, per i popoli poveri, e di fronte alla gravità  del problema demografico e della malattia (l’Aids in particolare; si pensi all’Africa nera con 29 milioni di sieropositivi) il contrasto con la sua ostinata interdizione della pillola e del preservativo. Un’interdizione che risale all’amletico papa Montini, alla sua prevaricazione sulla commissione conciliare; una storia tutta ambigua e contraddittoria. Che provoca stragi. Il risvolto oscuro di questi viaggi, del presunto amore del papa per questi popoli.

Lo si è presentato come grande difensore dei valori: la persona, la vita, la pace; che risuonavano spesso nei suoi discorsi. La persona forse, non però la donna: cui ha negato la pillola, la maternità da procreazione assistita, e in particolare il sacerdozio; presentando come volontà divina quello che era, nella società ebraica antica, un fatto di costume, e anzi un vizio patriarcale. La vita sì, ma anche l’intolleranza di fronte alla legge sull’aborto e alle sue particolari e delicatissime motivazioni; e le morti provocate da quell’ostinata interdizione del preservativo; e l’illiceità della pena di morte riconosciuta solo in anni recenti. Sono punti legati certamente al conservatorismo del clero polacco in cui era cresciuto. Come anche la tradizionale dottrina sulla sessualità, rigidamente ribattuta; laddove i maggiori teologi hanno compiuto un lungo cammino di chiarificazione; la persistente condanna dell’omosessualità. Un atteggiamento dogmatico e intollerante, il rifiuto della libertà di coscienza su tanti punti ancora molto discussi, dove non val la pena d’imporre pretesi vincoli definitivi; che in futuro dovranno cadere. Come già è avvenuto per tante interdizioni del passato.

Il punto più acutamente controverso è il suo autoritarismo. Il fatto che, giungendo al papato, e avendo dietro a sé il Concilio Vaticano II, cui aveva partecipato, non ne ha ripreso lo spirito, e il progetto: e cioè la partecipazione del potere, nello spirito fraterno proprio del Vangelo, attraverso la collegialità episcopale, attraverso la promozione e partecipazione del laicato. Il modello imperiale e feudale che informa la struttura gerarchica della chiesa, l’assolutismo papale che in sé concentra tutto il potere, il dispotismo papale è rimasto intatto. Si è anzi rafforzato. È ricomparsa la scomunica, che si credeva fosse finita col Concilio; e così la persecuzione dei teologi più innovativi e creativi, che meglio potevano contribuire alla crescita della coscienza cristiana ed umana (così Schillebeckx, così Küng, e tanti altri; e, fatto ancor  più doloroso, la Teologia della liberazione in America Latina, legata alle comunità di base, a un modo più evangelico e fraterno di vivere la comunità ecclesiale).

Si dice che ha fatto tanto per l’ecumenismo, cioè per la riconciliazione e riunificazione delle comunità cristiane. Ma non ha fatto l’essenziale, ciò che poteva riportare davvero all’unità; cioè la rinunzia all’assoluto potere papale su tutti. E però, a un certo momento, lo ha capito: che bisognava ritornare al primo Millennio, quando il papa era solo il vescovo di Roma e non aveva sulle altre chiese nessun reale potere di giurisdizione, ma solo il prestigio che gli conferivano la grande città e le tombe degli apostoli. Lo ha capito, e in un documento lo ha espresso. Ma farlo era altra cosa; era troppo; era anche troppo tardi, ormai.