Rassegna Stampa n.1 - Il Manifesto - Marzo 2005



Salve,
segnalo alcuni articoli tratti dal quotidiano "il manifesto"
nel mese di Marzo 2005.

La prima parte di questa rassegna stampa presenta i seguenti articoli:

Ecco il nuovo volto di Provenzano - 8 marzo 2005
Nella trama secolare dell'onorata società - 10 marzo 2005
Funerali vietati al fratello del boss - 23 marzo 2005
Laurea al figlio di Provenzano - 24 marzo 2005
Il pentimento della donna boss - 26 marzo 2005

A presto!
Micaela Beatini

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il manifesto - 08 Marzo 2005
SOCIETÀ
pagina 14

Ecco il nuovo volto di Provenzano

La procura di Palermo diffonde il nuovo identikit del boss.
Era secretato dal 2002. L'ultima versione è stata indicata da un pentito

ALFREDO PECORARO

PALERMO
E' più magro, i capelli bianchi corti con l'attaccatura alta e pettinati
leggermente all'indietro, gli zigomi sporgenti, un po' più invecchiato
anche se in alcuni tratti somatici sembra addirittura più giovane rispetto
alla vecchia immagine ricavata al computer 42 anni fa grazie a una foto
segnaletica. E' l'ultimo identikit di Bernardo Provenzano, il capo dei capi
di Cosa nostra, latitante dal 1963. Gli esperti della scientifica, che lo
hanno elaborato, avevano ricostruito il volto del boss di Corleone alla
fine del 2002 sulla base delle indicazioni fornite dal pentito Nino
Giuffrè. Il nuovo identikit è stato tenuto in un cassetto per più di due
anni, a conoscerlo erano solo in pochi, adesso la procura di Palermo ha
deciso di diffonderlo anche all'opinione pubblica. Il volto di Provenzano
compare in primo piano, con una t-shirt a girocollo nera. «Abbiamo deciso
di rendere pubblico l'identikit - spiega il procuratore di Palermo Piero
Grasso - dopo che un altro collaboratore, Mario Cusimano, e altri testimoni
hanno confermato che è molto somigliante alla realta». Cusimano è stato
arrestato a gennaio nell' ambito dell'inchiesta sui presunti
fiancheggiatori della «primula rossa», e dopo qualche giorno ha deciso di
collaborare. «In via informale perché la rogatoria è ancora in corso», la
ricostruzione al computer del volto di «zu Binnu», è stata confermata ai
sanitari francesi che tra luglio e ottobre del 2003 hanno curato
Provenzano, ricoverato in due cliniche a Marsiglia, dove è stato visitato e
poi operato alla prostata. Medici e infermieri hanno detto che rispetto
all'identikit in mano alla procura, il boss era più smagrito e invecchiato
perché sofferente. La decisione di mostrare l'identikit, in accordo con il
ministero dell'interno, spiega Nicola Cavaliere, direttore centrale della
polizia anticrimine, «è stata presa anche per evitare eventuali fughe di
notizie». «La polizia giudiziaria - afferma - è sempre un'attività che si
presta a rischi, dobbiamo pensare però che non sia così, riteniamo che
questa immagine di Provenzano sia a uso e consumo delle persone per bene».

Di Provenzano, finora, si conoscevano solo cinque fotografie in bianco e
nero che ne riproducono il volto e due immagini trattate al computer che
partendo dalla foto originale ricostruiscono la faccia del ricercato numero
uno d'Italia. Le fotografie sono due «fototessera», due «segnaletiche»,
fronte e profilo dell'arrestato (in un unica striscia fotografica), e una
foto «in posa» che ritrae il boss quando era giovane vestito da militare
accanto ad un vaso con fiori. «Zu Binnu» o «Binnu u tratturi», il trattore
per la sua determinazione, è il superboss che vanta il primato della più
lunga latitanza nella storia della mafia. Dopo la cattura di Totò Riina,
nel gennaio del `93, è toccato a lui il compito di prendere in mano le
redini di Cosa nostra. Di lui hanno parlato tutti i pentiti di Cosa nostra,
a partire dal boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, dilungandosi sul
complesso rapporto di amore-odio che lo ha legato per un quarto di secolo a
Totò Riina.

Luciano Liggio, che tra i due ha sempre privilegiato Riina, di Provenzano
diceva: «Spara come un dio, peccato che abbia il cervello di una gallina».

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il manifesto - 10 Marzo 2005
CULTURA
pagina 13


Nella trama secolare dell'onorata società

«Cosa Nostra» Il libro dello storico inglese John Dickie, per Laterza,
ricostruisce oltre un secolo di mafia siciliana.
Dal mito cristallizzato nella «Cavalleria rusticana» alla tragica realtà
della strage di Capaci

MASSIMO CARLOTTO

Secondo Denis Mack Smith: «nessun altro libro sulla mafia è così
persuasivo, comprensivo e leggibile». Si tratta di Cosa Nostra. Storia
della mafia siciliana dello storico inglese John Dickie, uscito in Italia
in questi giorni per l'editore Laterza (trad. di G. Ferrara degli Uberti,
506 pagine, 20 euro). Con Mack Smith concorda anche Andrea Camilleri, che
di mafia e di Sicilia se ne intende come pochi altri: «Quando ho finito di
leggere questa storia di Cosa Nostra non ho saputo se privilegiare
l'accuratezza, la precisione, l'intelligenza dello storico o la leggerezza,
la scorrevolezza, la fluidità del narratore». Tutto vero. Cosa Nostra è il
miglior saggio mai scritto sulla mafia. Quando ho incontrato John Dickie,
alla fine di gennaio, all'istituto di cultura italiano di Londra gli ho
subito chiesto come era stato possibile per uno «straniero» essere così
lucido e straordinariamente chiaro nel descrivere il fenomeno mafioso dalle
sue origini ad oggi. Dickie ha risposto molto semplicemente che il punto di
vista «esterno», appunto da straniero, e quindi privo di ogni influenza
culturale, gli aveva permesso di affrontare Cosa Nostra con tutti gli
strumenti dello storico. In effetti, in Italia, intorno alla mafia si sono
creati miti e leggende che con il tempo hanno sedimentato l'idea
dell'impossibilità di una sua precisa lettura storica. Leggendo il volume
di John Dickie ci si rende conto quanto l'onorata società abbia investito
nelle «voci» e nelle «chiacchiere» non soltanto per depistare, ma anche per
creare una consapevolezza diffusa sull'ineluttabilità della sua stessa
esistenza. Quella stessa consapevolezza che fa dire ai nostri governanti
che con la mafia è necessario convivere. Il giovane storico dell'University
College of London si è documentato seriamente. La bibliografia e le note
sulle fonti citate in appendice al libro è davvero impressionante.

Il libro si struttura in undici capitoli. Dopo la lettura del primo - «La
genesi della mafia. 1860-1876» -, ci si rende conto di avere tra le mani
uno strumento straordinario per capire. Dickie arriva fino al processo
Dell'Utri e, se anche alcune parti sono necessariamente un capolavoro di
diplomazia frutto dell'intervento di competenti uffici legali (in
particolare sul caso Andreotti), la realtà mafiosa è svelata in tutti i
suoi meccanismi principali.

La tesi di Dickie è semplice: la mafia poteva essere sconfitta allora come
oggi. Solo il suo ingresso nel «sistema italiano» ne ha permesso lo
sviluppo in termini di radicamento e poi di esportazione del modello
criminale. Questa ormai è cosa nota. Almeno a sinistra abbiamo sempre
pensato al rapporto mafia-potere politico come a qualcosa di estremamente
reale. Ma altra cosa è leggere una sequela infinita di episodi che hanno
caratterizzato ogni momento storico del nostro paese, dal 1860 al 2003.
Dickie è implacabile nella sua chiarezza. Cita nomi, fatti e fonti senza
rinunciare mai alla verifica. E questo fa di Cosa Nostra un testo
importante, necessario per fare piazza pulita, una volta per tutte, della
disinformazione che ha contribuito al mito dell'invincibilità della mafia,
ma anche per comprendere fino in fondo la genesi e dello sviluppo di
posizioni differenti e spesso dolorosamente inconciliabili nel fronte
antimafia. Come quella che oppose Sciascia a Falcone.

Importanti anche i ritratti dei personaggi, di qua e di là della barricata.
Ovviamente si torna a parlare di Buscetta e di Brusca, ma con un taglio più
preciso, da storico, che permette di approfondire la conoscenza della vita
interna di Cosa Nostra. Dickie non si è limitato a una lettura imponente di
testi e documenti. Ha parlato con i protagonisti, in particolare con i
giudici che oggi stanno continuando l'opera di Falcone e di Borsellino e le
ultime pagine sono davvero dense di deduzioni importanti sul futuro assetto
dell'onorata società. Dopo aver letto questo libro si capisce meglio perché
colonnelli e teste di cuoio vengono rinviati a giudizio per non aver
perquisito subito il covo di Totò Riina dopo il suo arresto o quale partita
si sta giocando nella caccia a Bernardo Provenzano. O cosa può significare
per la mafia la costruzione di un ponte inutile sullo stretto di Messina.

John Dickie mi ha confidato che sta lavorando a una ricerca storica sulla
cucina italiana. Conoscendolo non ho dubbi che si tratterà di un'opera
imponente ma spero che continui ad aggiornare Cosa Nostra.


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il manifesto - 23 Marzo 2005
SOCIETÀ
pagina 06

Funerali vietati al fratello del boss

NAPOLI
Sono stati vietati i funerali in forma pubblica di Nunzio Giuliano,
l'esponente della famiglia di Forcella che da anni si era dissociato dalla
camorra, ucciso lunedì sera in un agguato nel a Napoli. Lo ha deciso il
questore Oscar Fioriolli. Intanto, sul fronte delle indagini, l'inchiesta
condotta dal pm Filippo Beatrice privilegia l'ipotesi della vendetta contro
i pentiti (tre fratelli di Nunzio Giuliano da anni collaboravano), anche se
vengono tenute in considerazione tutte le altre piste, sempre collegate a
moventi e ambienti camorristici. Ammazzare un Giuliano, nonostante il
«discredito» al quale nella malavita organizzata vanno incontro i
collaboratori di giustizia costituisce pur sempre una decisione -
sottolineano fonti investigative - adottata ai «massimi» livelli. Non è da
escludere che Giuliano sia stato condannato dopo un summit tra boss della
camorra.


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il manifesto - 24 Marzo 2005
SOCIETÀ
pagina 07

Laurea al figlio di Provenzano

PALERMO
In una cerimonia quasi «privata» che si è svolta alla facoltà di Lettere,
Paolo Provenzano, 23 anni, il figlio minore del capomafia Bernardo,
latitante da 42 anni, si è laureato ieri pomeriggio in lingue e culture
moderne. È stato proclamato dottore in una piccola aula, quella dei
«seminari», in una sessione pomeridiana dedicata a lui e altre due persone.
Il giovane ha ottenuto 106 su 110 dopo aver discusso la tesi «I goti come
oggetto di un'etnografia». Per questo appuntamento si è riunita in viale
delle Scienze tutta la famiglia Provenzano, escluso il padre. Durante la
discussione della tesi (la commissione era formata solo da donne), Paolo
Provenzano ha parlato della popolazione germanica, i Goti, studiandone i
costumi e raffrontandoli ai nazisti. Una esaminatrice ha poi interrotto il
figlio del capomafia per sottolineare, per ben due volte un concetto: «Guai
quando i figli devono inventarsi i padri».

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il manifesto - 26 Marzo 2005
SOCIETÀ
pagina 07

Il pentimento della donna boss

Sorella di due irriducibili di Cosa nostra, Giusy Vitale dirigeva la
potente e spietata cosca di Partinico

PALERMO
Una donna tutta casa e Cosa nostra, più che legata alla famiglia era lei
che la reggeva occupandosi di affari e omicidi, soprattutto dopo l'arresto
dei fratelli Vito e Leonardo, «irriducibili» uomini d'onore fedeli all'ala
stragista dei corleonesi di Totò Riina e Leoluca Bagarella. Giusi Vitale,
però, passerà alla storia come il primo pentito donna. Non una semplice
«donna di mafia» come tante altre, ma un boss in gonnella che comandava i
«picciotti» e ordinava delitti e che ha deciso di saltare il fosso,
lasciandosi alle spalle una lunga scia di sangue. Giusi è depositaria di
molti segreti, li sta rivelando agli inquirenti che da un mese e mezzo la
stanno ascoltando, riempiendo decine e decine di verbali d'interrogatorio.
Ha retto una delle famiglie più potenti nell'organigramma di Cosa nostra,
quella di Partinico. Una cosca storica, quella dei Vitale, radicata tanto
da potersi opporre persino al capo dei capi Bernardo Provenzano, ritenuto
troppo «moderato». Ai pm Maurizio De Lucia e Francesco Del Bene, Giusi, che
da due anni si trova in carcere per l'omicidio di un imprenditore, ha detto
di aver deciso di pentirsi «per amore dei figli». Probabilmente, però, a
farle maturare la decisione sono stati anche i colpi inferti dalla Procura
alla sua famiglia, decimata dalla inchieste giudiziarie.

L'ultima operazione antimafia, condotta a novembre dello scorso anno, ha
portato all'arresto di 23 persone, tra cui l'altro fratello di Giusi,
Michele Vitale, la cognata Maria Gallina moglie di Leonardo, il nipote
Giovanni, 23 anni, figlio di Vito, e Giovanni Intravaia, 26 anni, ritenuto
il figlio illegittimo di Michele Vitale. L'inchiesta svelò che Leonardo
Vitale, detenuto in regime di 41 bis, impartiva gli ordini spediti via fax
dal carcere e decifrati dalla moglie che lo teneva informato sugli affari a
Partinico. La "pentita" starebbe fornendo preziosi elementi alla Dda di
Palermo su intrecci tra mafia e politica, omicidi, alcuni dei quali
ordinati da lei, e retroscena di vicende giudiziarie che sono attualmente
in corso. E starebbe raccontando anche di incontri avvenuti nel 1993 con il
boss latitante Bernardo Provenzano, riunioni alle quali però non avrebbe
partecipato, ma di cui è a conoscenza per avere accompagnato i fratelli
Leonardo e Vito. La donna non avrebbe quindi avuto alcun contatto con la
primula rossa di Corleone, ma non è ancora chiaro se lo abbia mai visto in
volto. I due figli di Giusi Vitale sono stati portati via nei giorni scorsi
da Partinico, dove si trovavano con la nonna, e sono stati trasferiti in
una località protetta.

La capomafia di Partinico ha vissuto un lungo travaglio prima di iniziare a
collaborare con la giustizia. La prima volta fu arrestata il 24 giugno del
1998 con l'accusa di associazione mafiosa e scarcerata il 25 dicembre del
2002. Le porte del carcere si riaprirono tre mesi dopo: il 26 marzo del
2003 Giusi fu arrestata con l'accusa di essere il mandante dell'omicidio di
Salvatore Riina (omonimo del capomafia), un imprenditore assassinato il 20
giugno 1998, perché sospettato di essere un informatore di Bernardo
Provenzano. Per il delitto furono arrestati anche il marito Angelo Caleca e
il fratello Leonardo Vitale, ritenuti gli autori materiali. La donna-boss
non avrebbe gradito di avere nel suo territorio la «spia» di una cosca
rivale, e per questo motivo avrebbe ordinato ai suoi uomini di uccidere
Riina. Giusi l'ambiente mafioso l'ha respirato fin da bambina, allevata in
una casa dove tutti erano affiliati a Cosa nostra. Per la «famiglia» ha
fatto di tutto: ha coperto la latitanza del fratello maggiore Vito, detto
«fardazza» e dei suoi picciotti, ha girato paesi e città per recapitare
«bigliettini» con i messaggi da affidare ai boss, ha perfino portato nei
covi dove si nascondeva il fratello l'amante per rendere più lieve la sua
latitanza. Ma non si limitava a svolgere un ruolo di secondo piano:
analizzava, rifletteva, suggeriva.

La donna, secondo le indagini, si divideva infatti tra due amanti, uno dei
quali arrestato cinque anni fa. La storia giudiziaria di Giusi comincia con
i pentiti che svelano il suo vero ruolo, e ironia della sorte, uno dei suoi
accusatori è proprio una donna: Maria Fedele, moglie di Antonino Guarino,
`picciotto' della cosca di Partinico.