La spada di Damocle sui beni culturali



La spada di Damocle sui beni culturali

di Salvatore Settis ("La Repubblica", 11 luglio 2003)



È in dirittura d'arrivo il nuovo Codice dei beni culturali, da approvarsi
(per legge delega) entro l'anno. Non è cosa da poco, visto che esso è
destinato a soppiantare qualsiasi norma sui beni culturali in vigore in
Italia: insomma, una prova estremamente impegnativa per chi lo ha scritto,
gli uffici del Ministero e i giuristi presieduti da Gaetano Trotta, ma
soprattutto la prova del fuoco per il ministro Giuliano Urbani. Sono
infatti ancora aperte partite capitali, su cui si è svolto nel Paese un
acceso dibattito. Per citarne solo due, il problema della privatizzazione
della gestione dei beni culturali e quello dell'alienabilità dei beni
culturali di proprietà pubblica, in particolare attraverso la «Patrimonio
dello Stato S.p.A.» e la correlata «Infrastrutture S.p.A.». Partite
importanti, che nelle interpretazioni più pessimistiche (tutt'altro che
infondate) mettono a gran rischio il nostro patrimonio culturale.Del nuovo
«codice Urbani» circolano bozze e versioni varie. Eppure, sembra che
nessuno abbia voglia di discutere nel merito questi punti capitali. Il
fuoco di sbarramento, già cominciato, si svolge con deprimente monotonia
intorno a un solo tema, la diatriba fra Stato e regioni, con scontate
accuse di centralismo e non meno scontati inni alla devoluzione in cui voci
«di destra» e gorgheggi «di sinistra» si confondono fino a risultare
indistinguibili. Nessuno nega l'importanza di questo tema, senza però
dimenticare che, ove il patrimonio pubblico dovesse essere via via
alienato, a Stato e regioni resterebbe sempre meno da gestire. O forse gli
allarmi di pochi mesi fa erano ingiustificati, e non è più il caso di
perderci tempo? Se non è così (e cercherò di mostrarlo), il nuovo codice è
un'occasione irripetibile di sanare le ferite che la legge sulla
«Patrimonio S.p.A.» ha inflitto all'assetto istituzionale dei beni
culturali in Italia: ed è su questo punto (oltre che sulle forme di
gestione, sul rapporto Stato-regioni, e molto altro ancora) che esso andrà
giudicato.La natura devastante della legge Tremonti non è fantasia di
qualche cittadino inesperto.Giorgio Oppo, giurista illustre e accademico
dei Lincei, la definisce, sulla Rivista di diritto civile, «esempio
clamoroso della mancanza di fantasia e di impegno del legislatore
nell'ideare specifici modelli di una gestione agile e produttiva di
interessi economici pubblici», e dimostra che la legge è un monstrum
giuridico di dubbia costituzionalità; intanto, sono in discussione ben tre
disegni di legge (di cui uno presentato da An) per l'istituzione di una
commissione parlamentare di vigilanza sulla "Patrimonio SpA". Si è tuttavia
diffusa l'opinione che la "Patrimonio S.p.A." sarebbe di fatto innocua e
inoperosa. Inoperosa no, visto che ha lanciato il 21 maggio un fondo
immobiliare di un miliardo di euro, da gestirsi attraverso una società ora
in via di selezione, e che si è presentata fra gli "espositori" al Mipim
(Marché International des Professionels de l'Immobilier) di Cannes, il più
importante salone di contrattazione immobiliare. Di questi giorni è poi
l'annuncio della creazione di una nuova società controllata da Patrimonio
S.p.A., Dike Aedifica S.p.A., che avrà il compito di finanziare la
costruzione di nuove carceri mediante la dismissione delle carceri storiche
(già fulmineamente trasferite alla nuova S.p.A. risultano le carceri di
Mondovì, Casale Monferrato, Novi Ligure, Clusone, Ferrara, Frosinone,
Avigliano, Velletri, Susa, Pinerolo e Verona; altre 69 sono in lista
d'attesa); consigliere delegato di Dike è Vico Valassi, già presidente
dell'Ance e (Associazione Nazionale Costruttori Edili).Ma è proprio
sbagliato vendere una parte del patrimonio immobiliare dello Stato?
Certamente no: ma le dismissioni (del resto sempre avvenute) dovrebbero
rispondere ad alcune regole elementari. Primo, la distinzione invalicabile
fra il patrimonio storico-artistico, paesaggistico e archeologico, per sua
natura inalienabile, e il resto, che può ovviamente essere alienato;
secondo, la trasparenza assoluta dei meccanismi di alienazione; terzo,
l'equità dei prezzi rispetto al mercato. Anche se si possono avanzare seri
dubbi su tutti e tre questi punti, mi limiterò ai primi due. Questo
giornale ha analizzato (il 6 marzo) il meccanismo introdotto, prima della
«Patrimonio S.p.A.», dalla legge 410/2001, che rende possibile la creazione
di «Società per la Cartolarizzazione degli Immobili Pubblici» (Scip),
saltando a piè pari ogni verifica dell'eventuale valore storico-artistico
dei beni, che anzi, se demaniali, diventano «disponibili» non appena
inclusi nelle liste del ministero dell'Economia. Sono state così costituite
la Scip 1 e la Scip 2, mentre la Scip 3, che doveva gestire gli immobili
della Difesa, è stata bloccata dal voto delle opposizioni e di An alla
Camera il 2 luglio (proprio mentre decollava Dike Aedifica). Ma le due Scip
già all'opera hanno incluso nel loro portafoglio decine di edifici, alcuni
dei quali di valore storico, senza chiedere il parere dei Beni
Culturali.Come funzionano le Scip? Il meccanismo di cartolarizzazione
(contro il quale l'Unione Europea ha invano messo in guardia l'Italia un
anno fa) prevede la cessione in blocco di un portafoglio di immobili di
proprietà dello Stato a società-veicolo create per l'occasione, che
emettono obbligazioni, da coprirsi coi proventi delle vendite future; si
registrano cosi a favore dello Stato degli incassi di là da venire,
garantiti da quegli immobili, ipso facto alienabili. Una visura alla Camera
di Commercio di Roma mostra che le due Scip sono società a responsabilità
limitata, con un capitale sociale di 10.000 euro, versato al 50% da due
società olandesi, Stichting Thesaurum e Stichting Palatium, ed hanno
entrambe un amministratore unico, il cittadino britannico Gordon Burrows.
Prima di rallegrarci di questo afflato europeistico delle Scip, guardiamo
meglio. Le due Stichtingen fanno parte di una famiglia molto più ampia, il
gruppo Tmf, un trust fund costituito per gestire altre imprese (delle quali
il 30 per cento hanno nomi italiani, come Stichting Tiziano, Stichring
Canaletto, Stichting Pantelleria e così via). La sede legale di Scip 1 e 2
è a Roma, in via Petrolini 2, di fatto presso la Kpmg, una società
internazionale di consulenza finanziaria formata con la fusione di una
società olandese (Klynveld), una inglese (Peat), una americana (Marwick) e
una tedesca(Goerdeler); risulta infine coinvolto anche il Consorzio G6
Advisor, una vecchia conoscenza (fu incaricato di vendere il Foro Italico
dal governo di centro-sinistra). E' difficilissimo (ci hanno provato una
giornalista olandese, Hedwig Zeedijk, e due giornalisti italiani, Michele
Buono e Piero Riccardi) districare questo groviglio e capire chi fa che
cosa.Quel che è chiaro è che si tratta di un sistema a scatole cinesi, non
proprio il massimo intermini di trasparenza; e infatti la Fatf,
organizzazione intergovernativa contro il riciclaggio di denaro sporco
(Financial Action Task Force on Money Laundering), ha fatto pressioni
sull'Olanda per una radicale modifica della normativa, che non consenta più
agli operatori di nascondersi nel comodo anonimato dei trust funds; e la
sua azione è stata energicamente appoggiata dagli Stati Uniti, che temono
operazioni di riciclaggio legate al terrorismo. Il Consiglio dei Ministri
olandese ha approvato lo scorso 11 aprile la nuova legge, ora al Consiglio
diStato. Nella relazione ufficiale che accompagna la nuova legge, si
ricorda anche una dichiarazione Ocse secondo cui il rapporto della Fatf
«sarà di aiuto agli Stati membri nella lotta contro il riciclaggio e la
corruzione». Ma mentre le organizzazioni internazionali protestano contro
il meccanismo olandese dei trust funds, e la stessa Olanda sta per cambiare
la legge, è proprio a questo meccanismo (non previsto dal nostro
ordinamento giuridico) che fa ricorso il governo italiano per mettere in
vendita il patrimonio dello Stato. Del resto, ha ricordato spiritosamente
Tremonti, lo aveva già fatto il governo D'Alema per la cartolarizzazione
dei crediti Inps.Diranno gli esperti di finanza internazionale se non c'era
proprio niente di meglio per vendere il patrimonio dello Stato; quale è il
ruolo delle diverse società coinvolte, che cosa ci guadagnano e con quale
vantaggio per i cittadini italiani; se i prezzi di vendita corrispondono o
meno ai prezzi di mercato. A me preme sottolineare che, in un assetto tanto
complicato, il grande assente è il ministero dei Beni Culturali, il cui
giudizio di merito può essere agevolmente evitato. La strategia generale
del Ministro dell'Economia è chiara: generare sempre nuovi meccanismi (come
la legge 27/2003 per l'alienazione delle manifatture tabacchi) e nuove
società (come la Dike Aedifica) per la dismissione del patrimonio
immobiliare dello Stato. È qui che la finanza creativa del ministro
Tremonti incrocia, e potenzialmente vanifica, il codice dei beni culturali
del ministro Urbani: se esso non farà chiarezza in questa materia, se
consentirà che si continui a ignorare ogni distinzione fra immobili di
valore culturale e non, il codice nascerà morto. Non possiamo aspettarci
che a vigilare sul nostro patrimonio artistico siano società olandesi o
consulenti finanziari inglesi. E che cosa accadrà dei beni paesaggistici in
un regime di questo tipo, e con le pesanti ipoteche sulla gestione
dell'ambiente che Giulia Maria Crespi, presidente del Fai, ha denunciato
nella sua lettera aperta a Berlusconí dell'8 luglio? Da chi verrà gestita
la sdemanializzazione delle terre di uso civico (milioni di ettari di
boschi, pascoli, montagne) prevista dal disegno di legge 1241 ora in
discussione al Senato? Da un'altra Scip?Dal nuovo codice ci aspettiamo una
chiara disciplina dei beni culturali e paesaggistici che faccia argine alle
dismissioni facili, indirizzando gli appetiti del ministero dell'Economia
verso i beni immobili sicuramente non di valore storico, artistico,
paesaggistico o archeologico. Ma nessuna norma sarà efficace se non
accompagnata da un adeguato censimento degli immobili di proprietà
pubblica. Come scriveva già nel 1990 Giovanni Urbani, indimenticabile
direttore dell'Istituto Centrale per il Restauro, va sanata «l'assurdità di
una legislazione per la quale il patrimonio pubblico è una specie di
oggetto misterioso, un'entità aeriforme nei cui confronti è perciò
impossibile esplicare delle azioni di tutela concrete e definite». Si
tratta insomma, continuava Urbani, «di riportare il patrimonio pubblico
dallo stato gassoso a quello solido» mediante un'operazione di censimento
tesa al tempo stesso proteggere quanto è di valore culturale, e a
«liberare» quanto non lo è. E'importantissimo che il censimento parta
subito(il ministro dell'Economia dovrebbe capire che si tratta di un
investimento sul patrimonio pubblico), e che sia fatto da chi lo sa fare,
cioè non dal solo Demanio, ma dalle Soprintendenze,con forze fresche e
risorse adeguate; che sia efficace e trasparente, e se occorre finalizzato
in prima fase all'identificazione di beni che siano immediatamente
alienabili senza detrimento dei valori storici e culturali. Non meno
importante,che nel frattempo si riaffermi il regime di inalienabilità del
demanio storico-artistico, peraltro garantito dal codice civile.

Il nuovo codice dei beni culturali nasce in un contesto pesantemente
inquinato, sotto la spada di Damocle di massicce e indiscriminate
dismissioni del patrimonio pubblico. Abbiamo il diritto di aspettarci che
esso non si limiti a prender atto di leggi estremamente discutibili, ma
abbia il coraggio di modificare o restringere la normativa vigente per
riaffermare, in linea con la Costituzione, il valore di civiltà del nostro
patrimonio culturale e ambientale.





Da: Bell'Italia, Edit. Giorgio Mondatori, n. 207, luglio 2003-07-19

Patrimonio svendesi, ma a pochi offerenti

Chi trae vantaggio dall'alienazione degli immobili pubblici?

di Vittorio Sgarbi



L a Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici, Scip, non ha certo un nome
dei più felici visto che alcuni la accusano di "scippare" il patrimonio
storico-artistico italiano. La società ha allestito le prime aste per la
vendita dei beni pubblici considerati alienabili, gestiti dalla Patrimonio
Spa, alimentando subito le prime proteste. Forse un po' a sorpresa, le
critiche non hanno riguardato tanto, o soltanto, l'entità culturale dei
beni venduti, ma il loro valore economico: troppe le svendite, e tutte a
favore di una grande azienda americana, la Carlyle. Si voleva vendere parte
del patrimonio immobiliare pubblico per ricavare grandi risorse economiche
da destinare alle nuove infrastrutture statali; per ora sono stati grandi
affari per alcuni, ma non certo per lo Stato.

Un caso esemplare: Villa Manzoni a Roma

Un esempio, fra gli oltre trenta possibili in tutta Italia, riguarda Villa
Manzoni a Roma. Si tratta di un imponente edifico sulla via Cassia,
costruito sopra una struttura romana (la cosiddetta Villa di Lucio Vero)
all'interno di un vasto parco, vicino alla tomba di Nerone. Lo ha
progettato negli anni Venti del secolo scorso, per conto di una famiglia
imparentata con quella di Alessandro Manzoni, un architetto dal gusto forse
discutibile, un po' dannunziano, tronfio e bizzarro nel rifarsi agli stili
storici (il barocco in particolare), ma comunque di innegabile interesse.
Armando Brasini (18791965), questo il suo nome, è stato accademico d'Italia
e assai noto anche all'estero (ex Urss, Spagna);nella capitale ha lasciato
qualche"orrore" (il ponte Flaminio), ma anche edifici di sorprendente
arditezza (Villa Brasini, nella zona di ponte Milvio; la cupola del
complesso del Buon Pastore in via di Bravetta).Si può discutere se Villa
Manzoni e tutto il suo parco, di grande suggestione naturalistica e di
notevole interesse archeologico, meritassero, come io credo, di rimanere
pubblici. Non si discute, però, sul fatto che il prezzo di vendita sia
stato inadeguato: al massimo 230 mila euro, equivalenti alla base d'asta
nonché al valore di un appartamento di 120 metri quadrati nel quartiere
popolare di Centocelle. D'accordo, la villa era abbandonata e abbastanza
rovinata, quindi bisognosa di consistenti interventi di ripristino;
qualcuno poi dice porti sfortuna e che abbia ospitato addirittura riti
satanici; ma qualunque agenzia immobiliare di Roma non avrebbe esitato a
offrire tre, quattro volte la cifra di aggiudicazione. I più ricchi di
tutti, quelli della Carlyle, l'hanno comprata invece a una cifra irrisoria.
Come mai?

La multinazionale favorita

La Carlyle non è un'azienda qualunque: è una finanziaria multinazionale
strettamente legata alla politica e in particolare a George Bush senior,
padre dell'attuale presidente degli Stati Uniti. Nel suo consiglio di
amministrazione Bush era addirittura affiancato da membri della famiglia
Bin Laden! L'inizio delle fortune della Carlyle risalgono al periodo di
conduzione da parte di un altro influente e temuto esponente della destra
americana, Frank Cariucci, ex segretario alla difesa durante
l'amministrazione Reagan. Successivamente la Carlyle avrebbe coinvolto
molti altri uomini provenienti dello staff presidenziale di Reagan e di
Bush senior, oltre ad alcuni ex direttori della Cia. Si può dire che la
Carlyle si occupi di tutto: dalle armi (Lockheed Martin) all'aeronautica
civile (Boeing), dal catering alle bibite e a Euro Disney. C'è chi la
ritiene coinvolta in vicende finanziarie non sempre cristalline, troppo
intrecciate con la politica.

Una donazione sospetta

Come ogni multinazionale che si rispetti, la Carlyle ha i suoi
collaboratori anche in Italia e attraverso questi ha proposto alla città di
Roma un particolare progetto: la donazione di un Museo ebraico da allestire
proprio negli spazi di Villa Manzoni. Una nobile intenzione, se non fosse
fin troppo evidente l'obiettivo pubblicitario e promozionale
dell'iniziativa: facendo un dono, si vuol far credere di essere i
benefattori invece che i beneficiati. Restando nel contesto romano,
infatti, la Carlyle ha comprato anche un intero palazzo in stile umbertino
in via XX Settembre per poco più di 400 milioni delle vecchie lire (base
d'asta), naturalmente attraverso la generosissima Scip. Dando seguito
all'offerta del museo, il Comune di Roma non rischia di essere troppo
coinvolto nei giochi strategici della multinazionale? E soprattutto, non
sarà opportuna una maggiore vigilanza sulle aste della Scip? Non solo per
ciò che si mette all'asta, ma anche per l'adeguatezza dei prezzi di vendita.