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La spada di Damocle sui beni culturali
- Subject: La spada di Damocle sui beni culturali
- From: "José F. Padova" <jospadov at tin.it>
- Date: Tue, 29 Jul 2003 18:22:44 +0200
La spada di Damocle sui beni culturali di Salvatore Settis ("La Repubblica", 11 luglio 2003) È in dirittura d'arrivo il nuovo Codice dei beni culturali, da approvarsi (per legge delega) entro l'anno. Non è cosa da poco, visto che esso è destinato a soppiantare qualsiasi norma sui beni culturali in vigore in Italia: insomma, una prova estremamente impegnativa per chi lo ha scritto, gli uffici del Ministero e i giuristi presieduti da Gaetano Trotta, ma soprattutto la prova del fuoco per il ministro Giuliano Urbani. Sono infatti ancora aperte partite capitali, su cui si è svolto nel Paese un acceso dibattito. Per citarne solo due, il problema della privatizzazione della gestione dei beni culturali e quello dell'alienabilità dei beni culturali di proprietà pubblica, in particolare attraverso la «Patrimonio dello Stato S.p.A.» e la correlata «Infrastrutture S.p.A.». Partite importanti, che nelle interpretazioni più pessimistiche (tutt'altro che infondate) mettono a gran rischio il nostro patrimonio culturale.Del nuovo «codice Urbani» circolano bozze e versioni varie. Eppure, sembra che nessuno abbia voglia di discutere nel merito questi punti capitali. Il fuoco di sbarramento, già cominciato, si svolge con deprimente monotonia intorno a un solo tema, la diatriba fra Stato e regioni, con scontate accuse di centralismo e non meno scontati inni alla devoluzione in cui voci «di destra» e gorgheggi «di sinistra» si confondono fino a risultare indistinguibili. Nessuno nega l'importanza di questo tema, senza però dimenticare che, ove il patrimonio pubblico dovesse essere via via alienato, a Stato e regioni resterebbe sempre meno da gestire. O forse gli allarmi di pochi mesi fa erano ingiustificati, e non è più il caso di perderci tempo? Se non è così (e cercherò di mostrarlo), il nuovo codice è un'occasione irripetibile di sanare le ferite che la legge sulla «Patrimonio S.p.A.» ha inflitto all'assetto istituzionale dei beni culturali in Italia: ed è su questo punto (oltre che sulle forme di gestione, sul rapporto Stato-regioni, e molto altro ancora) che esso andrà giudicato.La natura devastante della legge Tremonti non è fantasia di qualche cittadino inesperto.Giorgio Oppo, giurista illustre e accademico dei Lincei, la definisce, sulla Rivista di diritto civile, «esempio clamoroso della mancanza di fantasia e di impegno del legislatore nell'ideare specifici modelli di una gestione agile e produttiva di interessi economici pubblici», e dimostra che la legge è un monstrum giuridico di dubbia costituzionalità; intanto, sono in discussione ben tre disegni di legge (di cui uno presentato da An) per l'istituzione di una commissione parlamentare di vigilanza sulla "Patrimonio SpA". Si è tuttavia diffusa l'opinione che la "Patrimonio S.p.A." sarebbe di fatto innocua e inoperosa. Inoperosa no, visto che ha lanciato il 21 maggio un fondo immobiliare di un miliardo di euro, da gestirsi attraverso una società ora in via di selezione, e che si è presentata fra gli "espositori" al Mipim (Marché International des Professionels de l'Immobilier) di Cannes, il più importante salone di contrattazione immobiliare. Di questi giorni è poi l'annuncio della creazione di una nuova società controllata da Patrimonio S.p.A., Dike Aedifica S.p.A., che avrà il compito di finanziare la costruzione di nuove carceri mediante la dismissione delle carceri storiche (già fulmineamente trasferite alla nuova S.p.A. risultano le carceri di Mondovì, Casale Monferrato, Novi Ligure, Clusone, Ferrara, Frosinone, Avigliano, Velletri, Susa, Pinerolo e Verona; altre 69 sono in lista d'attesa); consigliere delegato di Dike è Vico Valassi, già presidente dell'Ance e (Associazione Nazionale Costruttori Edili).Ma è proprio sbagliato vendere una parte del patrimonio immobiliare dello Stato? Certamente no: ma le dismissioni (del resto sempre avvenute) dovrebbero rispondere ad alcune regole elementari. Primo, la distinzione invalicabile fra il patrimonio storico-artistico, paesaggistico e archeologico, per sua natura inalienabile, e il resto, che può ovviamente essere alienato; secondo, la trasparenza assoluta dei meccanismi di alienazione; terzo, l'equità dei prezzi rispetto al mercato. Anche se si possono avanzare seri dubbi su tutti e tre questi punti, mi limiterò ai primi due. Questo giornale ha analizzato (il 6 marzo) il meccanismo introdotto, prima della «Patrimonio S.p.A.», dalla legge 410/2001, che rende possibile la creazione di «Società per la Cartolarizzazione degli Immobili Pubblici» (Scip), saltando a piè pari ogni verifica dell'eventuale valore storico-artistico dei beni, che anzi, se demaniali, diventano «disponibili» non appena inclusi nelle liste del ministero dell'Economia. Sono state così costituite la Scip 1 e la Scip 2, mentre la Scip 3, che doveva gestire gli immobili della Difesa, è stata bloccata dal voto delle opposizioni e di An alla Camera il 2 luglio (proprio mentre decollava Dike Aedifica). Ma le due Scip già all'opera hanno incluso nel loro portafoglio decine di edifici, alcuni dei quali di valore storico, senza chiedere il parere dei Beni Culturali.Come funzionano le Scip? Il meccanismo di cartolarizzazione (contro il quale l'Unione Europea ha invano messo in guardia l'Italia un anno fa) prevede la cessione in blocco di un portafoglio di immobili di proprietà dello Stato a società-veicolo create per l'occasione, che emettono obbligazioni, da coprirsi coi proventi delle vendite future; si registrano cosi a favore dello Stato degli incassi di là da venire, garantiti da quegli immobili, ipso facto alienabili. Una visura alla Camera di Commercio di Roma mostra che le due Scip sono società a responsabilità limitata, con un capitale sociale di 10.000 euro, versato al 50% da due società olandesi, Stichting Thesaurum e Stichting Palatium, ed hanno entrambe un amministratore unico, il cittadino britannico Gordon Burrows. Prima di rallegrarci di questo afflato europeistico delle Scip, guardiamo meglio. Le due Stichtingen fanno parte di una famiglia molto più ampia, il gruppo Tmf, un trust fund costituito per gestire altre imprese (delle quali il 30 per cento hanno nomi italiani, come Stichting Tiziano, Stichring Canaletto, Stichting Pantelleria e così via). La sede legale di Scip 1 e 2 è a Roma, in via Petrolini 2, di fatto presso la Kpmg, una società internazionale di consulenza finanziaria formata con la fusione di una società olandese (Klynveld), una inglese (Peat), una americana (Marwick) e una tedesca(Goerdeler); risulta infine coinvolto anche il Consorzio G6 Advisor, una vecchia conoscenza (fu incaricato di vendere il Foro Italico dal governo di centro-sinistra). E' difficilissimo (ci hanno provato una giornalista olandese, Hedwig Zeedijk, e due giornalisti italiani, Michele Buono e Piero Riccardi) districare questo groviglio e capire chi fa che cosa.Quel che è chiaro è che si tratta di un sistema a scatole cinesi, non proprio il massimo intermini di trasparenza; e infatti la Fatf, organizzazione intergovernativa contro il riciclaggio di denaro sporco (Financial Action Task Force on Money Laundering), ha fatto pressioni sull'Olanda per una radicale modifica della normativa, che non consenta più agli operatori di nascondersi nel comodo anonimato dei trust funds; e la sua azione è stata energicamente appoggiata dagli Stati Uniti, che temono operazioni di riciclaggio legate al terrorismo. Il Consiglio dei Ministri olandese ha approvato lo scorso 11 aprile la nuova legge, ora al Consiglio diStato. Nella relazione ufficiale che accompagna la nuova legge, si ricorda anche una dichiarazione Ocse secondo cui il rapporto della Fatf «sarà di aiuto agli Stati membri nella lotta contro il riciclaggio e la corruzione». Ma mentre le organizzazioni internazionali protestano contro il meccanismo olandese dei trust funds, e la stessa Olanda sta per cambiare la legge, è proprio a questo meccanismo (non previsto dal nostro ordinamento giuridico) che fa ricorso il governo italiano per mettere in vendita il patrimonio dello Stato. Del resto, ha ricordato spiritosamente Tremonti, lo aveva già fatto il governo D'Alema per la cartolarizzazione dei crediti Inps.Diranno gli esperti di finanza internazionale se non c'era proprio niente di meglio per vendere il patrimonio dello Stato; quale è il ruolo delle diverse società coinvolte, che cosa ci guadagnano e con quale vantaggio per i cittadini italiani; se i prezzi di vendita corrispondono o meno ai prezzi di mercato. A me preme sottolineare che, in un assetto tanto complicato, il grande assente è il ministero dei Beni Culturali, il cui giudizio di merito può essere agevolmente evitato. La strategia generale del Ministro dell'Economia è chiara: generare sempre nuovi meccanismi (come la legge 27/2003 per l'alienazione delle manifatture tabacchi) e nuove società (come la Dike Aedifica) per la dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato. È qui che la finanza creativa del ministro Tremonti incrocia, e potenzialmente vanifica, il codice dei beni culturali del ministro Urbani: se esso non farà chiarezza in questa materia, se consentirà che si continui a ignorare ogni distinzione fra immobili di valore culturale e non, il codice nascerà morto. Non possiamo aspettarci che a vigilare sul nostro patrimonio artistico siano società olandesi o consulenti finanziari inglesi. E che cosa accadrà dei beni paesaggistici in un regime di questo tipo, e con le pesanti ipoteche sulla gestione dell'ambiente che Giulia Maria Crespi, presidente del Fai, ha denunciato nella sua lettera aperta a Berlusconí dell'8 luglio? Da chi verrà gestita la sdemanializzazione delle terre di uso civico (milioni di ettari di boschi, pascoli, montagne) prevista dal disegno di legge 1241 ora in discussione al Senato? Da un'altra Scip?Dal nuovo codice ci aspettiamo una chiara disciplina dei beni culturali e paesaggistici che faccia argine alle dismissioni facili, indirizzando gli appetiti del ministero dell'Economia verso i beni immobili sicuramente non di valore storico, artistico, paesaggistico o archeologico. Ma nessuna norma sarà efficace se non accompagnata da un adeguato censimento degli immobili di proprietà pubblica. Come scriveva già nel 1990 Giovanni Urbani, indimenticabile direttore dell'Istituto Centrale per il Restauro, va sanata «l'assurdità di una legislazione per la quale il patrimonio pubblico è una specie di oggetto misterioso, un'entità aeriforme nei cui confronti è perciò impossibile esplicare delle azioni di tutela concrete e definite». Si tratta insomma, continuava Urbani, «di riportare il patrimonio pubblico dallo stato gassoso a quello solido» mediante un'operazione di censimento tesa al tempo stesso proteggere quanto è di valore culturale, e a «liberare» quanto non lo è. E'importantissimo che il censimento parta subito(il ministro dell'Economia dovrebbe capire che si tratta di un investimento sul patrimonio pubblico), e che sia fatto da chi lo sa fare, cioè non dal solo Demanio, ma dalle Soprintendenze,con forze fresche e risorse adeguate; che sia efficace e trasparente, e se occorre finalizzato in prima fase all'identificazione di beni che siano immediatamente alienabili senza detrimento dei valori storici e culturali. Non meno importante,che nel frattempo si riaffermi il regime di inalienabilità del demanio storico-artistico, peraltro garantito dal codice civile. Il nuovo codice dei beni culturali nasce in un contesto pesantemente inquinato, sotto la spada di Damocle di massicce e indiscriminate dismissioni del patrimonio pubblico. Abbiamo il diritto di aspettarci che esso non si limiti a prender atto di leggi estremamente discutibili, ma abbia il coraggio di modificare o restringere la normativa vigente per riaffermare, in linea con la Costituzione, il valore di civiltà del nostro patrimonio culturale e ambientale. Da: Bell'Italia, Edit. Giorgio Mondatori, n. 207, luglio 2003-07-19 Patrimonio svendesi, ma a pochi offerenti Chi trae vantaggio dall'alienazione degli immobili pubblici? di Vittorio Sgarbi L a Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici, Scip, non ha certo un nome dei più felici visto che alcuni la accusano di "scippare" il patrimonio storico-artistico italiano. La società ha allestito le prime aste per la vendita dei beni pubblici considerati alienabili, gestiti dalla Patrimonio Spa, alimentando subito le prime proteste. Forse un po' a sorpresa, le critiche non hanno riguardato tanto, o soltanto, l'entità culturale dei beni venduti, ma il loro valore economico: troppe le svendite, e tutte a favore di una grande azienda americana, la Carlyle. Si voleva vendere parte del patrimonio immobiliare pubblico per ricavare grandi risorse economiche da destinare alle nuove infrastrutture statali; per ora sono stati grandi affari per alcuni, ma non certo per lo Stato. Un caso esemplare: Villa Manzoni a Roma Un esempio, fra gli oltre trenta possibili in tutta Italia, riguarda Villa Manzoni a Roma. Si tratta di un imponente edifico sulla via Cassia, costruito sopra una struttura romana (la cosiddetta Villa di Lucio Vero) all'interno di un vasto parco, vicino alla tomba di Nerone. Lo ha progettato negli anni Venti del secolo scorso, per conto di una famiglia imparentata con quella di Alessandro Manzoni, un architetto dal gusto forse discutibile, un po' dannunziano, tronfio e bizzarro nel rifarsi agli stili storici (il barocco in particolare), ma comunque di innegabile interesse. Armando Brasini (18791965), questo il suo nome, è stato accademico d'Italia e assai noto anche all'estero (ex Urss, Spagna);nella capitale ha lasciato qualche"orrore" (il ponte Flaminio), ma anche edifici di sorprendente arditezza (Villa Brasini, nella zona di ponte Milvio; la cupola del complesso del Buon Pastore in via di Bravetta).Si può discutere se Villa Manzoni e tutto il suo parco, di grande suggestione naturalistica e di notevole interesse archeologico, meritassero, come io credo, di rimanere pubblici. Non si discute, però, sul fatto che il prezzo di vendita sia stato inadeguato: al massimo 230 mila euro, equivalenti alla base d'asta nonché al valore di un appartamento di 120 metri quadrati nel quartiere popolare di Centocelle. D'accordo, la villa era abbandonata e abbastanza rovinata, quindi bisognosa di consistenti interventi di ripristino; qualcuno poi dice porti sfortuna e che abbia ospitato addirittura riti satanici; ma qualunque agenzia immobiliare di Roma non avrebbe esitato a offrire tre, quattro volte la cifra di aggiudicazione. I più ricchi di tutti, quelli della Carlyle, l'hanno comprata invece a una cifra irrisoria. Come mai? La multinazionale favorita La Carlyle non è un'azienda qualunque: è una finanziaria multinazionale strettamente legata alla politica e in particolare a George Bush senior, padre dell'attuale presidente degli Stati Uniti. Nel suo consiglio di amministrazione Bush era addirittura affiancato da membri della famiglia Bin Laden! L'inizio delle fortune della Carlyle risalgono al periodo di conduzione da parte di un altro influente e temuto esponente della destra americana, Frank Cariucci, ex segretario alla difesa durante l'amministrazione Reagan. Successivamente la Carlyle avrebbe coinvolto molti altri uomini provenienti dello staff presidenziale di Reagan e di Bush senior, oltre ad alcuni ex direttori della Cia. Si può dire che la Carlyle si occupi di tutto: dalle armi (Lockheed Martin) all'aeronautica civile (Boeing), dal catering alle bibite e a Euro Disney. C'è chi la ritiene coinvolta in vicende finanziarie non sempre cristalline, troppo intrecciate con la politica. Una donazione sospetta Come ogni multinazionale che si rispetti, la Carlyle ha i suoi collaboratori anche in Italia e attraverso questi ha proposto alla città di Roma un particolare progetto: la donazione di un Museo ebraico da allestire proprio negli spazi di Villa Manzoni. Una nobile intenzione, se non fosse fin troppo evidente l'obiettivo pubblicitario e promozionale dell'iniziativa: facendo un dono, si vuol far credere di essere i benefattori invece che i beneficiati. Restando nel contesto romano, infatti, la Carlyle ha comprato anche un intero palazzo in stile umbertino in via XX Settembre per poco più di 400 milioni delle vecchie lire (base d'asta), naturalmente attraverso la generosissima Scip. Dando seguito all'offerta del museo, il Comune di Roma non rischia di essere troppo coinvolto nei giochi strategici della multinazionale? E soprattutto, non sarà opportuna una maggiore vigilanza sulle aste della Scip? Non solo per ciò che si mette all'asta, ma anche per l'adeguatezza dei prezzi di vendita.
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