Sofri: la grazia e la giustizia



 
Da L'Unità, 17 luglio 2003, pagina 5
 
Dignità e speranza per i carcerati
 
 di Sergio Segio e Sergio Cusani
 
«Il ministro di Grazia e giustizia e il ministero di Grazia e giustizia assumono rispettivamente la denominazione di ministro della Giustizia e ministero della Giustizia»: così recita l’articolo 16, Capo III, del decreto legislativo n. 300 del 30 luglio 1999 di riforma dell’organizzazione del Governo.
Dall’agosto di quattro anni fa, insomma, in Italia la giustizia risulta privata della grazia. Nel nome. Nei fatti, pur se sporadicamente qualche grazia viene ancora concessa, è da molto più tempo che si è scelto di rinunciare alle possibilità di temperamento delle durezze che la giustizia può comportare.
Una giustizia senza grazia, una giustizia che non sa essere all’occorrenza indulgente, facilmente può arrivare a mutarsi nel suo contrario. E tale è in effetti la realtà delle carceri italiane: una situazione generalizzata di ingiustizia e inciviltà.
Da oltre un decennio essa è gradualmente e inesorabilmente peggiorata, sino agli attuali livelli di totale deterioramento: condizioni di vita rese intollerabili da un sovraffollamento senza precedenti, con oltre 56.000 reclusi per 41.000 posti; crescita di suicidi, gesti di autolesionismo, malattie; un’assistenza sanitaria letteralmente a pezzi, poiché privata del 35% delle risorse finanziarie negli ultimi 3 anni; carenze di personale e conseguentemente grave disagio di tutti gli operatori penitenziari; misure alternative alla detenzione scarsamente utilizzate; leggi e regolamenti disapplicati.
Uno stato di cose tanto conosciuto quanto rimosso. A fronte del quale l’attuale governo, analogamente a quelli precedenti, persegue nei fatti la politica dello struzzo, vale a dire una pressoché totale disattenzione alla somma stratificata di problemi che gravano su chi vive e su quanti lavorano nelle carceri.
Anche per questa drammatica situazione e per tali motivi, la concessione della grazia ad Adriano Sofri risulterebbe, oltre che un fatto di giustizia sostanziale, una opportunità politica e culturale per ripensare e rivedere le modalità e i luoghi di esecuzione delle pene nel nostro Paese.
La libertà per Adriano Sofri costituirebbe un fatto di giustizia non già per le sue indubbie qualità umane ed intellettuali, ma perché nel suo caso, in modo forse più evidente e simbolico di altri, la pena assume solo il volto e la valenza della ritorsione. E se la pena è fine a se stessa, se non promuove cambiamento e non offre speranza, perde ogni parvenza di giustizia e ogni legittimazione anche nel senso e nei sentimenti comuni.
La detenzione di Adriano Sofri oggi è ingiusta e occorre porvi rimedio. Era possibile farlo anche nella scorsa legislatura. È diventato doveroso farlo in questa. Per quello stesso senso di umanità che traspare dalla posizione della famiglia Calabresi. Per un investimento di civiltà.
La concessione della libertà ad Adriano Sofri, che auspichiamo con forza, può e deve aprire un percorso. Perché è vero che condizioni di ingiustizia e di invivibilità riguardano la vita della generalità dei reclusi, alle cui sofferenze anche occorre dare una risposta umana e civile.
Una risposta vera, non certo quella dell’“indultino”: una misura che l’iter parlamentare ha talmente svuotato di ogni efficacia da non essere stata votata alla Camera neppure dal suo ideatore e primo proponente. Una misura che, se pure fosse definitivamente approvata dal Senato, non farà uscire dal carcere un solo detenuto in più di quanti già oggi possono fruire delle misure alternative. Dunque, si tratta non di un atto di clemenza bensì di un’inutile e crudele beffa, peraltro suscettibile di ingenerare illusioni e aspettative che inevitabilmente sfoceranno poi in nuova e pericolosa disperazione.
C’è bisogno invece di risposte vere e piene, urgenti e lungimiranti. Per Sofri e per i carcerati tutti. Per rendere libertà al primo e dignità e speranza ai secondi. Per ridare un volto credibile alla giustizia e per restituirle, nei fatti se non nel nome, un po’ di grazia e una maggiore umanità.