Sofri: la grazia e la giustizia



La grazia e la giustizia: libertà per Sofri, dignità e speranza per i carcerati

«Il ministro di Grazia e giustizia e il ministero di Grazia e giustizia
assumono rispettivamente la denominazione di ministro della Giustizia e
ministero della Giustizia»: così recita l'articolo 16, Capo III, del
decreto legislativo n. 300 del 30 luglio 1999 di riforma
dell'organizzazione del Governo.
Dall'agosto di quattro anni fa, insomma, in Italia la giustizia risulta
privata della grazia. Nel nome. Nei fatti, pur se sporadicamente qualche
grazia viene ancora concessa, è da molto più tempo che si è scelto di
rinunciare alle possibilità di temperamento delle durezze che la giustizia
può comportare.
Una giustizia senza grazia, una giustizia che non sa essere all'occorrenza
indulgente, facilmente può arrivare a mutarsi nel suo contrario. E tale è
in effetti la realtà delle carceri italiane: una situazione generalizzata
di ingiustizia e inciviltà.
Da oltre un decennio essa è gradualmente e inesorabilmente peggiorata, sino
agli attuali livelli di totale deterioramento: condizioni di vita rese
intollerabili da un sovraffollamento senza precedenti, con oltre 56.000
reclusi per 41.000 posti; crescita di suicidi, gesti di autolesionismo,
malattie; un'assistenza sanitaria letteralmente a pezzi, poiché privata del
35% delle risorse finanziarie negli ultimi 3 anni; carenze di personale e
conseguentemente grave disagio di tutti gli operatori penitenziari; misure
alternative alla detenzione scarsamente utilizzate; leggi e regolamenti
disapplicati.
Uno stato di cose tanto conosciuto quanto rimosso. A fronte del quale
l'attuale governo, analogamente a quelli precedenti, persegue nei fatti la
politica dello struzzo, vale a dire una pressoché totale disattenzione alla
somma stratificata di problemi che gravano su chi vive e su quanti lavorano
nelle carceri.
Anche per questa drammatica situazione e per tali motivi, la concessione
della grazia ad Adriano Sofri risulterebbe, oltre che un fatto di giustizia
sostanziale, una opportunità politica e culturale per ripensare e rivedere
le modalità e i luoghi di esecuzione delle pene nel nostro Paese.
La libertà per Adriano Sofri costituirebbe un fatto di giustizia non già
per le sue indubbie qualità umane ed intellettuali, ma perché nel suo caso,
in modo forse più evidente e simbolico di altri, la pena assume solo il
volto e la valenza della ritorsione. E se la pena è fine a se stessa, se
non promuove cambiamento e non offre speranza, perde ogni parvenza di
giustizia e ogni legittimazione anche nel senso e nei sentimenti comuni.
La detenzione di Adriano Sofri oggi è ingiusta e occorre porvi rimedio. Era
possibile farlo anche nella scorsa legislatura. È diventato doveroso farlo
in questa. Per quello stesso senso di umanità che traspare dalla posizione
della famiglia Calabresi. Per un investimento di civiltà.
La concessione della libertà ad Adriano Sofri, che auspichiamo con forza,
può e deve aprire un percorso. Perché è vero che condizioni di ingiustizia
e di invivibilità riguardano la vita della generalità dei reclusi, alle cui
sofferenze anche occorre dare una risposta umana e civile.
Una risposta vera, non certo quella dell'"indultino": una misura che l'iter
parlamentare ha talmente svuotato di ogni efficacia da non essere stata
votata alla Camera neppure dal suo ideatore e primo proponente. Una misura
che, se pure fosse definitivamente approvata dal Senato, non farà uscire
dal carcere un solo detenuto in più di quanti già oggi possono fruire delle
misure alternative. Dunque, si tratta non di un atto di clemenza bensì di
un'inutile e crudele beffa, peraltro suscettibile di ingenerare illusioni e
aspettative che inevitabilmente sfoceranno poi in nuova e pericolosa
disperazione.
C'è bisogno invece di risposte vere e piene, urgenti e lungimiranti. Per
Sofri e per i carcerati tutti. Per rendere libertà al primo e dignità e
speranza ai secondi. Per ridare un volto credibile alla giustizia e per
restituirle, nei fatti se non nel nome, un po' di grazia e una maggiore
umanità.

Sergio Segio e Sergio Cusani