Universita' di Rom?



Questo pomeriggio nell'Aula Magna della Sapienza avrebbero dovuto esserci
il Sindaco di Roma, Veltroni (ospite d'onore) e Mario Vallorosi,
dirigente dell'Ufficio Speciale Immigrazione del Comune.
L'occasione? Un gruppo di studenti che si autodefinisce ''Universita' di Rom''
e la cattedra di Sociologia delle Relazioni etniche
hanno dato vita a un'iniziativa dal titolo ''Il violino sul Tevere''.
Sottotitolo: ''Rom e gagè: incontro tra due mondi''.
Non c'è stato dibattito.
Se vi fosse stato, avrei pronunciato questo intervento.


Tre anni fa, era estate, le ''nostre'' bombe avevano appena smesso
di piovere sulla Yugoslavia.
Un compagno serbo mi accompagno' al Casilino '700
che ospitava  la piu' grande concentrazione Rom dell'Europa occidentale.
Nella mente un po' bacata di un professore di geometria
cominciarono a intersecarsi, a sovrapporsi due spazi:
sotto la landa arida, desolata del Casilino '700 affioravano,
come in una filigrana, i viali ordinati verdeggianti curati,
i marmi e le fontane della Citta' Universitaria.

Avevo ripreso a fare politica da qualche mese,
con un gruppo di compagni che si era scelto un nome significativo:
''Coordinamento contro le guerre''.
La visita al campo innesco' una riflessione collettiva e un dibattito aspro,
che ci permisero di individuare il punto critico:
ci rendemmo conto di quale mole di lavoro e quante centinaia di anni
di violenza fossero stati necessari
per cristallizzare e divaricare i due spazi,
per coagulare una struttura mentale e una cultura
che separano e contrappongono due dimensioni, due umanita'.
Non vi e' nulla di naturale in questo processo: e' una costruzione storica,
un diaframma artificiale che impedisce la comunicazione e la mescolanza.
Riconoscemmo un paradigma, la metafora di un mondo fratturato, sofferente.
Una separatezza in cui nasce, si alimenta e riproduce il germe della guerra.
Accade dietro l'angolo di casa, la' dove una teca asettica
(dalla sagoma squadrata di un container)
conserva l'archetipo del campo, del lager.


Ci risolvemmo a varcare la rete.
Accadde molto tempo fa.
Era l'anno 2000, nell'era del Grande Giubileo e delle gride papali.
''Via gli zingari dal centro'', un copione che si ripete dal tardo Medio Evo.
Anche quella era guerra, e non ci tirammo indietro.
In quell'occasione, non e' con gli occhiali dell'antropologo
che l'Universita' e' andata verso i campi.
Ci sosteneva un progetto politico, costruito e pensato insieme:
studenti, migranti, rom, clandestini.
Un progetto nel quale l'universita' si poneva al servizio di un'urgenza
sociale,
interveniva per alzare il tiro, per qualificare e risolvere il conflitto.
Si proponeva come luogo di confronto, organizzazione, resistenza;
una filiera che opera per la ricomposizione di un linguaggio
e per la sintesi, la rigenerazione del tessuto frammentato.

Con spirito partigiano, nelle aree che riuscivamo temporaneamente a liberare,
il clandestino e l'intellettuale, lo zingaro e il militante
s'incontravano per lavorare fianco a fianco.
Moni Ovadia, Erri De Luca, Marco Revelli sono scesi in piazza insieme a noi;
la causa dei Rom si e' raccordata con la lotta delle madri dei desaparecidos
e l'universita' ha gettato un ponte
tra la via dei Gordiani e i barrios di Buenos Aires.

A Tor de' Cenci siamo stati il granello che fece inceppare
l'ingranaggio della pulizia etnica. A distanza di oltre due anni,
la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato il Governo Italiano
e il Comune di Roma per quelle deportazioni: il Sindaco Veltroni
avrebbe il dovere di portare alle vittime le scuse dell'amministrazione
e completare l'opera di riparazione, sia pur tardiva e insufficiente,
dei torti inflitti. Se non ci fosse stata l' ''Universita' di Rom'',
la cosa sarebbe passata sotto silenzio. Invece c'eravamo, e c'era
anche l'E.R.R.C. (European Roma Rights Center) che ha fornito
il supporto legale, cosi' oggi quella sentenza e' storia, finalmente.
C'eravamo anche all'Arco di Travertino: un angolo di citta'
dove i moschetti dei carabinieri e le ruspe del Comune
sono dovuti arretrare grazie all'intervento degli studenti,
di tanti compagni, della gente del quartiere.

Di tutto questo non si e' parlato oggi, alla Sapienza.
Abbiamo appreso invece che ''Universita' di Rom'' e' un ciclo di seminari,
un'iniziativa ''istituzionale'' (sic!)
nata nell'ambito della cattedra di Sociologia delle Relazioni etniche.


Nonostante tutto, mi piace pensare che quelle lotte
abbiano avuto un valore, siano state utili alla causa dei rom e dei migranti.
Di certo, sono state fondamentali per noi,
ci hanno aiutati a immaginare cosa potrebbe diventare l'Universita',
in quale direzione ci si deve muovere
per dare un senso alla nostra presenza fra le sue mura.
Era questa, l'altra faccia dell' ''Universita' di Rom'':
l'ingresso del Rom, del migrante, dell'essere umano nel recinto della scienza;
soggetto politico, non oggetto di studio
o spunto per esibizioni folkloristiche e retoriche.
Un'unita' di misura che ci permette di riorganizzare il lavoro,
di valutare il nostro operato attraverso il sistematico confronto
fra i nostri metodi, le nostre conoscenze e i nostri protocolli
e le esigenze indifferibili, urgenti, dell'umanita'.
Dall'interno di una baracca si assume una prospettiva
che permette di intravvedere un'altra universita',
nella quale il Rom e il migrante sono a casa propria
e cio' non appare strano, non ha il sapore dell'utopia o della provocazione:
e' la norma.


Alla Sapienza oggi tirava un'altra aria.
Il clima era quello di sempre.
Anzi, un tantino peggiore. Ho preso qualche appunto:

''il mondo magico dei Rom, basato sull'immaginazione,
l'emozione, i caldi impulsi del cuore''

''il loro universo antropologico, uno spazio-tempo
che ha coordinate completamente differenti dalle nostre''

''cosi' diversi da noi, con la loro emotivita'
rappresentano la parte piu' importante di noi, la poesia,
l'ultima poesia che si aggira per l'Europa''

''gli zingari sono ladri, ma sono anche figli del vento'' (testuale!!)

E i Rom, naturalmente, non hanno diritto di replica.


''Due mondi'' che si incontrano, e possono comunicare
grazie al gentile, servizievole intervento degli esperti?
Sara'.
A me sembra piuttosto che quando mi allontano dall'Universita'
(dove risuonano questi accenti) ed entro in un campo rom,
non entro in un altro mondo, entro nel mondo.
Riconosco me stesso, i miei problemi, la mia umanita'.

A volte, sto bene, benissimo, come non mi accade mai
in una Facolta' o in un Dipartimento.
C'e' una tenerezza particolare, un'attenzione arcaica e dolce;
prende piede la piacevole sensazione che sia quella, la realta'.

Altre volte sto male, vedo la gente morire.
Come Zivko, ucciso dalla baracca a quarant'anni.
Ucciso dagli opportunismi dell'amministrazione, e dai nostri errori.
Gia', perche' questo e' l'altro aspetto,
qui sta la durezza della faccenda:
quando si affronta questo terreno ingrato,
i tuoi errori, i tuoi ritardi li paghera' qualcun altro,
sulla propria pelle.
E' difficile da sopportare.


Non vi faccio una colpa, cari amici e compagni di un tempo,
per il fatto che vi siete stancati di fare politica
e di confrontarvi con certi temi.
Nella sfera personale ci sono tante priorita' e quell'incandescenza logora.
Non e' una colpa chiudersi in casa, riprendere la vita ordinata dello studente.
Ma bisogna essere conseguenti - e lasciar lavorare gli altri in pace.

Invece vi rifate vivi per proporci questa roba,
in un contesto sontuoso, accademico: l'Aula Magna del Rettorato,
e auspicate il saluto del sindaco, e la benedizione del Rettore.
L'Aula Magna e' un luogo che gli studenti strapparono con la lotta,
un anno e mezzo fa, per tenerlo aperto, nel tentativo
di evitare l'applicazione di una riforma
che svilisce l'universita' e la asservisce al mercato.
Con quell'occupazione cercavamo di tenere viva un'altra idea di universita'.
Alcuni di noi la chiamavano ''Universita' di Rom''.

Voi non c'eravate.
Come non c'eravate a dicembre, a gennaio di quest'anno,
quando abbiamo invaso la tana del nemico,
e la Facolta' di Giurisprudenza ospitava seminari
in cui magistrati, avvocati, clandestini, operatori, professori, studenti,
organizzavano insieme la resistenza contro la Legge Bossi-Fini.
Non vi abbiamo visti nemmeno quella volta.
Eppure quella era ''Universita' di Rom'', non ci sono dubbi.

Vi ripresentate adesso, in modo paraculo, a farci la lezioncina
sui ''due mondi che si incontrano'', con un titolo furbetto:
''Il violino sul Tevere'' - un gioco di parole
che richiama irresistibilmente uno spettacolo teatrale
che in queste settimane tiene il cartellone in varie citta' d'Italia.
Quando c'e' penuria di idee, bisogna pure agganciarsi a qualcosa,
e allora si finisce per appropriarsi degli sforzi, della creativita',
delle esperienze altrui, stravolgendone il senso.


La vostra ''Universita' di Rom'' nasce scippando
un progetto presentato dal Coordinamento contro le guerre
e finanziato dall'universita'. Era un'idea seria, ispirata alle intuizioni
di un giovane comunista degli anni '40, Pier Paolo Pasolini.
Si proponeva di ricostruire le linee di un discorso sulla frontiera,
di ritrovare le radici di un impegno, di un'intenzione,
di riportare alla memoria il ''Sogno di una cosa'' - la giovinezza
dimenticata e rimossa di una sinistra che oggi stenta a ritrovarsi.
Era un progetto complesso, impegnativo. Una bella responsabilita'.
Da un altro punto di vista, sedici milioni di denaro contante.
Ma questa non e' l' ''Universita' di Rom'', Mauretta, questa e' la C.E.P.U.

Il risultato si e' visto oggi.
Quando ci si appoggia sulle spalle di giganti
(la statura di Moni Ovadia e' fuori discussione, la sua buona fede anche)
si puo' nutrire, per qualche istante, l'illusione di librarsi nello spazio.
Purtroppo non e' cosi'. Cari amici di un tempo, vi dovete rassegnare:
nella merda siete e nella merda rimarrete.
Lasciatene fuori, vi prego, l' ''Universita' di Rom'',
e soprattutto i Rom - che non hanno fatto nulla di cosi' grave
da meritare questo.