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IL CROCIATO DELLA MECCA



Dal "Corriere della sera" del 22 luglio 2002
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Immigrazione e leggi
     IL CROCIATO DELLA MECCA
di FRANCESCO MERLO

Che strana Chiesa è questa. I vescovi del Nord (Maggiolini, Biffi, eccetera)
vogliono la crociata anti-islamica in nome dell'identità dell'uomo
cristiano; al contrario, il capo della chiesa calabrese vuole la jihad
cattolica in nome dell'uomo senza identità. I primi pongono condizioni alla
solidarietà, mentre monsignor Cantisani la declassa a corte dei miracoli.
Biffi subordina l'accoglienza alla confessione cristiana, e Cantisani
abbatte gli argini e confonde la solidarietà con l'invasione, l'aiuto con la
resa. E dunque, con la ghiotta complicità di Rifondazione comunista e dell'
Unità , l'arcivescovo Antonio Cantisani, dal pulpito di Catanzaro ha acceso
e ha chiamato a raccolta parroci e fedeli, anime e corpi, Azione Cattolica e
Caritas, Fondazione Migrantes e Pastorale giovanile, scout e marmotte, tutti
contro la legge sull'immigrazione, la cosiddetta Fini-Bossi dalla quale è
ovviamente lecito dissentire, ma contro la quale un vescovo non può operare
e catechizzare se non per darsi carico, nei fatti, degli scarti, della
incompiutezza, delle durezze proprie di ogni legge umana. È per questo che
noi cittadini dello Stato italiano diamo l'otto per mille del nostro reddito
alla Chiesa cattolica, e non perché essa delegittimi lo Stato e organizzi,
come Brancaleone, le crociate dei poveri. Purtroppo, la chiesa di Cantisani
sommuove e commuove proprio l'Italia meno ricca, i marginali del Sud, e li
promuove ad avanguardia dei naufraghi, li invita alla disobbedienza e
all'odio contro la legge. Proprio questa è la bruttissima parola che
l'arcivescovo ha usato: odio. La sua, sulle prime, sembra una crociata di
buoni sentimenti, ma a ben vedere è una dichiarazione di guerra ideologica
contro lo Stato, e contro gli Stati.
Pare una croce ma è un maglio, una picconata, è la sedizione di un pezzo di
Chiesa, la calabrese appunto, che è la chiesa della marginalità
mediterranea, la chiesa degli abitanti più poveri di questa striscia
d'Europa. Quello dei calabresi è un Cristo povero che Cantisani vorrebbe
derelitto.
L'arcivescovo pensa ai marciapiedi, ai semafori, ai campi, ai luoghi già
problematici della Calabria come la Mecca dei disperati o, se preferite,
l'ecclesia dei naufraghi, dei diseredati e dei dannati della Terra.
Perciò la sua frase «un uomo è un uomo anche quando è un clandestino» non è
un doloroso aforisma sul calco di quello più noto di Primo Levi.
Purtroppo, è solo un artifizio retorico dell'arcivescovo, ed è soprattutto
un'entrata a gamba tesa contro il diritto dello Stato a darsi regole. Il
vescovo dice infatti di odiare questa legge «ripugnante» perché «essa
considera lo straniero solo in rapporto alla sua capacità lavorativa», ma
non si capisce come lo dovrebbe considerare e rispettare. Non ci sono altri
modi di accogliere gli stranieri: o turisti danarosi o lavoratori bisognosi.
Così in tutto il mondo, anche nello Stato del Vaticano.
Il vescovo, in realtà, non predica contro la legge italiana, e neppure
contro quella olandese o francese, o tedesca. Il vescovo è contrario a
qualsiasi legge, non importa se di destra o di sinistra, che si prefigga di
regolare, di dare regole alla convivenza interetnica. La sola legge che
vuole applicare è la legge del regno di Dio, dove però non si lavora, non si
produce, non c'è l'inflazione, non ci sono terroristi e non ci sono
stipendi. Insomma, la teoria che «nessun uomo è clandestino» è un insulto
alla complessità del problema.
Il vescovo calabrese non contesta, infatti, gli aspetti particolari della
legge, come per esempio l'obbligo delle impronte, ma spara molto più in alto
e chiede l'abbattimento dei confini geografici, etnici, professionali e
politici di cui si compone oggi l'identità di un uomo. Un uomo è un uomo, e
non un'astrazione; la dignità umana si difende anche con i confini, ogni
uomo è un'isola di identità, e un uomo senza confini non ha profilo, è un
concetto filosofico, una esercitazione teologica, una violenza di eccessi,
l'imposizione di un carico insopportabile, malgrado la sua apparente
nobiltà: un uomo è un uomo anche quando lo si seppellisce sotto una pesante
armatura di ispirate teologie.
E' vero, come dice il vescovo, che un uomo vale più della sua funzione
sociale, del suo lavoro, e «che la solitudine e la disperazione degli
immigrati e dei loro parenti lontani» è una piaga purulenta, una infezione
che ci tocca e ci contagia. Ma senza regole, senza confini, senza
definizioni si corre, sì, verso l'uguaglianza di tutti davanti a Dio, ma non
sarebbero i nostri «ospiti» a diventare come noi, bensì noi a diventare come
loro, tutti ovviamente pronti ad altre crociate.
Che strana Chiesa. Alla fine proprio la Calabria sarebbe la prima vittima
del suo vescovo, quella Calabria che in piena età moderna produsse contro lo
Stato l'eresia visionaria e affascinante di Campanella, un'eresia - è
suggestivo ricordarlo - filoislamica e anticattolica. Ebbene, si parva licet
componere magnis , anche il vescovo di Catanzaro si fa sleale («eretico»), e
non solo contro lo Stato italiano, contro gli Stati laici, ma soprattutto
contro la sua Calabria.

Francesco Merlo