Referendum -- ZAGREBELSKY (la Repubblica, 27.maggio .2005)




Bologna, 28 m aggio 2005

Da "Repubblica" di ieri 27 maggio, leggo (vedi qui di seguitoe anche in
allegato) questo interessante articolo di Zagrebelski

Penso valga la pena spendere qualche minuto per leggerlo.

In modo molto pacato e garbato, Gustavo Zagrebelsky propone considerazioni
molto ben documentate e, a mio avviso, decisamente degne di essere diffuse.

Credo sarebbe opportuno che tutti noi, cattolici e non cattolici, clericali
e anticlericali, ne meditassimo le idee e i pericoli ivi esposti

Shalom-salaam-pace a tutti, ma proprio a tutti

Domenico Manaresi

N:B: Le sottolineature in grassetto, sono del sottoscritto.

Mitt. Domenico Manaresi - via Gubellini, 6 - 40141 Bologna - tel&fax
051-6233923 - e-mail: bon4084 at iperbole.bologna.it



LE IDEE

Referendum, il peccato morale del fronte astensionista

di GUSTAVO ZAGREBELSKY (la Repubblica, 27.maggio .2005)




C'è ancora, forse, qualche considerazione sull'appello all'astensione e sul
rapporto tra cittadini cattolici e gerarchia ecclesiastica: due aspetti del
referendum del 12-13 giugno destinati a proiettare ombre durature sul
futuro della convivenza civile nel nostro Paese.



A) L'astensione referendaria è un'ovvia possibilità, così ovvia che su di
essa si basa l'invalidità del referendum, prevista per l'ipotesi che la
maggioranza degli elettori non abbia partecipato al voto. Lecita
l'astensione, lecito ovviamente l'invito all'astensione. L'esortazione dei
vescovi italiani a disertare le urne rientra dunque perfettamente tra ciò
che possibile per il diritto. Il punto è così chiaro che non si capisce la
mobilitazione di tanti illustri giuristi, "scesi in campo" per difendere
una causa che non aveva bisogno di difensori, perché vinta in partenza.

La vera questione riguarda non la liceità giuridica ma la moralità politica
di una campagna referendaria in cui fautori del mantenimento della legge
invitano non a votare no all'abrogazione, ma ad astenersi dall'andare a
votare. Liceità giuridica e moralità politica sono cose del tutto diverse e
non è insistendo sulla prima che si portano argomenti a favore della
seconda. Ora, è evidente che siamo di fronte allo sfruttamento
opportunistico di quella quota di astensioni fatalmente derivanti da
disinteresse o indifferenza. I fautori del no vorrebbero annettersi gli
indifferenti per far fallire il referendum e quindi salvare la legge,
assegnando all'astensione dei "veri astensionisti" (gli indifferenti, per
l'appunto) un significato che non ha. Ma soprattutto la posizione
strumentale dei "falsi astensionisti" (gli interessati che si appoggiano
sugli indifferenti) è avvertita come un atto di prepotenza, di imposizione,
di slealtà.



 È come se - si passi la parabola - in una gara di corsa, il regolamento
consentisse a un concorrente di partire avanti agli altri. Non diremmo
forse che la moralità sportiva, al di là del regolamento, dovrebbe indurre
quel concorrente a rinunciare al vantaggio, affinché tutti competano ad
armi pari e che, se non lo facesse, gli altri avrebbero ragione di dirsi
vittime di un'ingiustizia? Il pari rispetto vale in tutti i referendum. Ma
deve valere particolarmente in un referendum così importante come è questo,
in cui le coscienze sono interrogate come o forse più che nel caso del
divorzio e dell'aborto.

Conoscendo la saggezza e la prudenza della gerarchia ecclesiastica, sarei
indotto a pensare che si sia prestato ascolto a pessimi o troppo furbi
consiglieri, e non siano stati presi in considerazione gli effetti perversi
della posizione assunta. Poiché non è più tempo per forzature o interventi
autoritari della Chiesa, molti, trascurando i problemi morali - gravi,
molto gravi - che il referendum solleva, si sono indotti a orientarsi
pregiudizialmente a senso unico, in reazione e difesa contro ciò che è
percepito come una forzatura dei diritti della propria coscienza. Non
sappiamo se finirà che il quorum non sarà raggiunto e la legge resterà, o
se accadrà il contrario. In ogni caso, mantenimento o eliminazione della
legge dipenderanno da ragioni improprie ed estranee alla valutazione dei
problemi e al libero e leale confronto ideale che ci si sarebbe potuti
augurare. Risuonano di nuovo accenti che sanno di clericalismo e
anticlericalismo. Coloro che credono nella possibilità, necessità e
fecondità del dialogo tra culture, laica e cristiana, non possono che
concludere amaramente: un vero capolavoro.



B) La chiamata a raccolta da parte della gerarchia è stata perentoria e ha
sorpreso e turbato anche molti cattolici. I cristiani "partecipano alla
vita pubblica come cittadini" e sono chiamati a "animare cristianamente
l'ordine temporale, rispettandone la legittima autonomia"; "la laicità
intesa come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed
ecclesiastica - ma non da quella morale - è un valore acquisito e
riconosciuto dalla Chiesa", ricorda la Nota dottrinale della Congregazione
per la dottrina della fede del 24 novembre 2002, dedicata a "l'impegno e il
comportamento dei cattolici nella vita politica". Queste formule
ribadiscono l'insegnamento della Gaudium et spes del Concilio vaticano II e
sono coerenti con la preoccupazione della Chiesa di non vedersi coinvolta
come tale nell'azione politica dei cattolici, invitati a non agire mai
pretendendo di avere con sé la sua autorità: una preoccupazione
autoimmunitaria che, per essere seria, ovviamente richiede dalla Chiesa un
corrispondente atteggiamento di rispetto dei confini di competenza.



Ora, per i cattolici valgono i principi rigorosi enunciati nella Donum
vitae, l'Istruzione emanata il 22 febbraio 1987 dalla stessa Congregazione
per la dottrina della fede: la difesa della vita fin dal concepimento, la
condanna degli atti di procreazione diversi dall'unione sessuale naturale
dei coniugi e il divieto di interventi sull'embrione umano non strettamente
necessari alla terapia dell'embrione stesso. Ma l'indicazione che giunge a
vincolare perfino i comportamenti concreti nella strategia referendaria è
compatibile con la dignità della missione politica dei "cristiani che
partecipano alla vita pubblica come cittadini"? Che ne è del compito, che è
loro, di "animare cristianamente l'ordine temporale" nel rispetto della
laicità, cioè della "autonomia della sfera civile e politica da quella
religiosa ed ecclesiastica"?



Sono interrogativi che i cattolici clericali liquideranno con un'alzata di
spalle ma che certo scuotono la coscienza dei cattolici democratici. Non
riguardano però soltanto loro, bensì tutti i cittadini, cattolici e non
cattolici, in quanto si viva e si voglia vivere in una democrazia e non in
una "repubblica cristiana", dove le istituzioni civili sono diretta
emanazione del governo ecclesiastico. La democrazia non presuppone affatto
quel relativismo etico che il magistero della Chiesa giustamente condanna.
Essa, al contrario, si alimenta di convinzioni etiche e ideali che cercano
di diffondersi e di affermarsi fino a diventare forza costitutiva della
società. Ciò presuppone però il libero confronto e questo, a sua volta, la
libera e diretta partecipazione di coloro che vi portano le proprie
convinzioni, quale che ne siano la fonte e il fondamento, laico o
religioso. La democrazia è, per così dire, un regime in prima persona, non
per interposta persona. Se essa è occupata da forze che agiscono come longa
manus di poteri esterni, diventa il luogo di scontro e prepotenza di
potentati che obbediscono alle loro regole e non rispondono a quelle della
democrazia: potentati che sono, tecnicamente, irresponsabili. Non apparirà
fuori luogo ricordare che John Locke, nella Epistola sulla tolleranza del
1689, negava ai cattolici romani (oltre che agli atei, ma per altri e
opposti motivi) il diritto alla tolleranza proprio per la loro non
integrabilità in un comune vivere civile, "fintantoché essi sono debitori
di cieca obbedienza ad un papa infallibile che porta legate alla cintura le
chiavi della loro coscienza"; e non sarà improprio ricordare inoltre che
qualcosa di simile è avvenuto, il secolo scorso, in molte democrazie
occidentali, con riguardo ai comunisti, in quanto ritenuti agenti del
potere sovietico.



Fede religiosa, tanto più se organizzata in chiese strutturate
gerarchicamente, e fede democratica costituiscono un connubio difficile,
non privo di momenti drammatici. Il rapporto della Chiesa con i suoi fedeli
che operano nella politica, per non dire del rapporto strettamente connesso
con le istituzioni dello Stato, è una linea necessariamente sinuosa che non
si riuscirà mai a raddrizzare una volta per tutte ricorrendo a qualche
formula o formuletta. Se ciò accadesse, vorrà presumibilmente dire che le
ragioni dello Stato si sono sottomesse a quelle della Chiesa, o viceversa.
Invece, il rapporto di tensione, ancorché causa di problemi, è generatore
di anticorpi benefici che tengono deste le coscienze e, al tempo stesso,
proteggono dagli integralismi. Dunque, è un fattore benefico per la nostra
vita. Se volessimo cercare qui una radice della cultura europea alla quale
tenerci stretti, la troveremmo probabilmente non nel Cristianesimo come
tale (che ha causato nei secoli momenti di terribile sopraffazione, ora
condannati dalla Chiesa stessa), ma nella sua dualità rispetto all'autorità
civile. Questo rapporto, sempre instabile, deve tuttavia essere preservato
nei suoi giusti limiti. Ciò che il referendum prossimo venturo segnala, mi
pare, è un pericolo che può proiettarsi sull'avvenire di questo rapporto.
Ci si deve augurare che, nel mondo laico e in quello cattolico, molti siano
i consapevoli di quanto prezioso ma anche di quanto fragile sia il bene da
preservare.

GUSTAVO ZAGREBELSKY

 (

la Repubblica, 27 maggio 2005)