il "senso di grandezza dell'italica razza" (II)



Title: il "senso di grandezza dell'italica razza" (II)
Il nuovo governo ricordava per molti aspetti quello che si formerà in Italia nel 1943 con Badoglio: prima preoccupazione fu quella di incarcerare centinaia di comunisti. Inoltre aprì trattative sia con la Gran Bretagna sia con l'URSS, che tuttavia era ancora troppo legata dal patto Ribbentrop-Molotov. Nel corso di un incontro tenuto al Cremlino tra Simovic e Viöinskij, questi offrì solo un generico trattato di amicizia e di non aggressione, dal quale si desumeva che l'URSS era disponibile a mantenere un atteggiamento di benevola neutralità nei confronti di Belgrado, ma non ad entrare in guerra al suo fianco. Un trattato che serviva a poco in quel frangente. Due giorni dopo cominciavano i bombardamenti di Belgrado e l'invasione del paese.

 

L'Italia fascista e gli "eterni" odii interetnici

Un luogo comune assai diffuso attribuisce gli attuali conflitti nel Kosovo e quelli precedenti in Bosnia, in Croazia, ecc., agli "eterni" conflitti etnici. In realtà se, come abbiamo accennato, la questione nazionale non era stata risolta felicemente nella Jugoslavia tra le due guerre per l'eccesso di centralismo serbo, non aveva generato gravi conflitti. Il gruppo di Pavelic esisteva, ma superava appena i 500 aderenti: era una frangia insignificante, che non interpretava affatto l'atteggiamento della stessa popolazione croata.

Anche se a volte la Jugoslavia era stata definita una "prigione dei popoli" dal Partito comunista, fautore da sempre di una soluzione federativa e che - prima della Seconda Guerra Mondiale - difendeva (come tutti i partiti comunisti, compreso quello italiano) il diritto delle minoranze all'autodecisione fino alla separazione, il suo assetto interno non era particolarmente diverso da quello di altri paesi come l'Italia o la Spagna che comprendevano etnie non protette. Non vi furono d'altra parte in quel periodo conflitti significativi su questo terreno.

Nel 1941 cambiò tutto, e la prima responsabilità ricade, più che sulla Germania nazista come si pensa abitualmente, sull'Italia mussoliniana: essa infatti non solo si impadronì di gran parte del litorale dalmata e di Lubiana, che divenne "provincia italiana", ma costituì un Regno di Croazia in cui fu incorporata la Bosnia e quindi un numero altissimo di serbi, di "musulmani" ecc. Questo regno doveva essere affidato a un Ajmone di Savoia, che doveva assumere il nome croato di Tomislav II, ma che preferì non mettervi mai piede per non fare la fine di Massimiliano d'Asburgo in Messico. Rimase prevalentemente a Saint Moritz, frequentandone assiduamente il famoso Casinò. Ciano, tuttavia, lo faceva pedinare per timore che si dileguasse del tutto, e scrisse sul suo Diario che dopo una breve sparizione era stato rintracciato in un alberghetto di Milano, dove aveva passato la notte con una "ragazza di facili costumi", come si diceva allora.

Come reggente fu collocato il criminale comune Ante Pavelic, di cui Curzio Malaparte, allora corrispondente del fascista Corriere della sera descrisse i crimini - a guerra finita - nel suo libro Kaputt: ad esempio disse di avere visto nella villa in cui aveva sede il comando degli ustaöa un cesto che gli sembrava pieno di ostriche. Erano invece venti chili di occhi strappati ai serbi. Altre denunce erano state fatte subito da alcuni ufficiali italiani e perfino tedeschi.

In Croazia furono compiuti crimini atroci, con la benedizione di quel monsignor Aloysio Stepinac che Giovanni Paolo II ha voluto beatificare di recente per compiacere il potente episcopato croato. Religiosi francescani parteciparono alla direzione dei famigerati campi di concentramento in cui a una parte dei serbi e dei "musulmani" si offriva la possibilità di salvarsi con una conversione forzata al cattolicesimo, mentre tzigani ed ebrei venivano direttamente consegnati ai campi di sterminio nazisti.

Quei crimini generarono una spirale di odii e di vendette, giacché anche i cetnici serbi fedeli a re Petar non erano da meno se mettevano le mani su qualche croato. Ma l'innesco era stato provocato proprio dalla spartizione della Jugoslavia voluta insieme da Mussolini e da Hitler.

Una parte degli ufficiali italiani, abbiamo accennato, si indignarono e cercarono di limitare quei crimini; non a caso dopo l'8 settembre del 1943 molti di loro - pur rimasti senza ordini per la viltà di Vittorio Emanuele III e di Badoglio - rifiutarono di piegarsi ai tedeschi e molti si unirono ai partigiani. Gran parte degli ufficiali e dei soldati della Divisione "Venezia" e della "Taurinense" formarono la divisione "Garibaldi", unendosi ai partigiani comunisti pur essendo tendenzialmente monarchici, perché avevano verificato che solo i comunisti combattevano a fondo i nazisti, mentre i cetnici di re Petar preferivano accordarsi con gli occupanti contro gli altri partigiani. E' una storia poco conosciuta, che fa onore al nostro popolo.

Ma torniamo ai famosi "fatali ed eterni odii interetnici", di cui parlano i propagandisti dell'intervento militare di oggi. La prima smentita viene dallo straordinario successo dei partigiani comunisti, che seppero tenere impegnate trenta divisioni tedesche e liberare da soli gran parte del proprio paese, unico esempio in Europa oltre all'Unione Sovietica. La loro forza derivava da due fattori: da un lato non rinviarono come in altri paesi a un "secondo tempo" sia la questione sociale sia quella istituzionale (praticarono da subito una radicale riforma agraria nelle zone liberate e rifiutarono ogni accordo con i seguaci conservatori del re); dall'altro abbozzarono subito un progetto di soluzione della questione nazionale basata su quella Federazione che consentì poi oltre quarant'anni di convivenza sostanzialmente pacifica tra le varie etnie. La stessa composizione del gruppo dirigente era una conferma vivente della concretezza del progetto: Tito era mezzo croato e mezzo sloveno, Kardelij era sloveno, Rankovic serbo, Moshe Pijade ebreo, Djilas montenegrino, ecc....

La dissoluzione della Jugoslavia tra il 1989 e il 1991, e le tragedie successive, non avvennero dunque per la fatale permanenza degli odii antichi, ma come conseguenza di una crisi profonda del regime dovuta all'indebitamento estero, alle pressioni del FMI e della Banca Mondiale, e al tentativo dei dirigenti ex comunisti come Milosevic o Tudjiman di organizzarsi un consenso agitando vecchi spettri e presentandosi come "salvatori" del paese da un pericolo esterno. Ma approfondiremo questi problemi più avanti, nel III capitolo.

 

L'Italia e il Kosovo durante la Seconda Guerra Mondiale

Gli argomenti della propaganda di guerra talvolta fanno breccia anche nella sinistra, a volte direttamente, oppure attraverso un rifiuto così radicale delle motivazioni ufficiali, che porta a schierarsi non solo contro l'aggressore, ma a fare proprie le tesi dell'aggredito, non necessariamente corrette. Così, essendo innegabile che la Serbia è aggredita, si tende ad attribuire ai kosovari ogni colpa, al di là di quella - di una parte soltanto del gruppo dirigente dell'UCK - di avere accettato una protezione interessata, facendo da esca per la trappola. E si nasconde che, se una parte dei kosovari hanno abbandonato la linea non violenta e gradualista di Rugova, ciò si deve non solo e non tanto ai finanziamenti della diaspora albanese negli Stati Uniti (e magari della stessa CIA), ma al fallimento di quella linea per l'intransigenza serba. Non ci si può scandalizzare dunque se in questo contesto è cresciuto un movimento che punta all'indipendenza, e che si illude di trovare protezione da parte della NATO. È lo stesso ragionamento che abbiamo già fatto a proposito del popolo palestinese, per capire perché di fronte all'intransigenza dei Benyamin Netaniahu e all'inadeguatezza (a dir poco) dei risultati ottenuti da Arafat, si è sviluppato l'integralismo islamico, che si è rafforzato non perché islamico, ma perché è apparso il più deciso oppositore ad accordi che anche lucidissimi e laici esponenti palestinesi come Edward Said, Mahmud Darwish, Hanna Ashrawi o Abdel Shafi hanno criticato severamente.

Può essere utile ricostruire le vicende del Kosovo nell'ultimo secolo, senza nascondere le sue sofferenze, che ci sono state, e senza ignorare il punto di vista dei serbi (non del solo Milosevic). Nel secolo scorso diversi viaggiatori, inglesi o di altre nazionalità, hanno descritto vivacemente i conflitti che esistevano in quella regione dell'Impero ottomano, e che spesso si concludevano a danno della minoranza serba, meno armata e relativamente meno protetta. Ma non erano conflitti "etnici". L'arretratezza del Kosovo e della stessa Albania, la parte più povera e trascurata dell'impero ottomano, aveva fatto protrarre fino alle soglie di questo secolo un'organizzazione per clan che comportava spesso scontri cruenti tra gli stessi albanesi, per faide durate decenni, il ricorso sistematico all'abigeato nei confronti dei vicini in caso di calamità naturali, ecc.

Le leggende alimentate dalla propaganda nazionalista serba hanno ingigantito tutti gli episodi di cui erano vittime gli slavi, ignorando quelli che avevano colpito gli albanesi. Ad esempio, si ingigantivano i dati sugli stupri a danno di serbe, sorvolando sul fatto che analoghi episodi colpivano donne albanesi, e che comunque la percentuale di tali episodi non era diversa da quella riscontrata nei rapporti di polizia nelle regioni più arretrate della stessa Serbia. Un residuo di concezioni che consideravano la donna un oggetto disponibile, ovviamente orribili, ma che non avevano nulla a che vedere con la pratica sistematica e deliberata dello stupro che ha accompagnato la "pulizia etnica" (da parte di croati, serbi e "musulmani") nelle guerre di Croazia e di Bosnia in questo terribile decennio.

La propaganda nazionalista serba aveva ingigantito allora quegli episodi, per teorizzare l'inferiorità "razziale" degli albanesi.Ad esempio, un uomo politico serbo, Vladan Djordjevic, improvvisatosi antropologo, aveva sostenuto seriamente nel 1913 che gli albanesi erano residuati di popolazioni primitive che avevano avuto la coda per appendersi agli alberi (secondo lui, ancora nel secolo scorso c'erano nel Kosovo esemplari umani con residui della coda!). Il residuo animalesco degli "arnauti", come venivano chiamati da turchi e serbi gli albanesi, sarebbe stato provato dalla mancanza di un alfabeto.

La propaganda serba, inoltre, sosteneva che la "Vecchia Serbia" (così veniva chiamato il Kosovo a Belgrado) era sempre stata abitata solo da serbi fino alla battaglia di Kosovo Polje del 1389, quando era cominciata una "invasione" albanese al seguito delle armate turche. Nulla di più falso: nella famosa battaglia, rispolverata da Milosevic nel 1989 per cancellare l'autonomia sancita dalla Costituzione jugoslava, gli albanesi erano presenti in entrambi gli eserciti, come risulta da tutti i documenti dell'epoca. Ciò si doveva naturalmente al fatto che allora, come in tutta l'Europa e nel mondo, non era nata un'identità "nazionale", e la presenza in questo o quell'esercito dipendeva dalle scelte tattiche dei vari capi clan. E ciò era durato a lungo: Skanderberg, l'eroe albanese per eccellenza, era figlio di una serba, mentre Djordje Petrovic, detto Karadjordje, fondatore della dinastia serba, era invece di origine albanese.

I più raffinati propagandisti serbi, invece di negare l'esistenza di albanesi nella "Vecchia Serbia", li consideravano in parte "invasori", in parte serbi convertiti all'islam e albanesizzati linguisticamente. Naturalmente in tutti i Balcani c'erano state molte conversioni alla religione dei dominatori, ma rimaneva da spiegare come mai l'assimilazione linguistica sarebbe avvenuta da parte di quella che doveva essere secondo loro una minoranza insignificante, e non da parte dei turchi, come è accaduto quasi ovunque negli altri casi accertati.

 

Su questi aspetti è prezioso il libro più organico sulla storia di questa sfortunata regione, quello di Marco Dogo, Kosovo. Albanesi e serbi: le radici del conflitto, C. Marco Editore, Lungro di Cosenza, 1992. Un libro documentatissimo e rigoroso di ben 376 pagine, che costa purtroppo, se lo si trova ancora, 45.000 lire. Anche l'agile ed equilibrato libretto di Thomas Benedikter, Il dramma del Kosovo. Dall'origine del conflittofra serbi e albanesi agli scontri di oggi, Data News, Roma, 1998, p. 140, [[sterling]]. 22.000, fornisce dati assai utili su questo piano.

 

Come per tutte le convivenze durate per secoli, con qualche tensione, ma senza conseguenze tragiche (ad esempio il Libano fino all'inizio della penetrazione delle potenze europee nel 1840), i guai veri sono cominciati con gli interventi esterni. Nel corso del secolo XIX, oltre alla guerra propagandistica, nel Kosovo e in Macedonia operavano agenti della Serbia da un lato, dell'Austria Ungheria dall'altro, che offrivano protezione a destra e a manca per impossessarsi di quei territori facendo leva sulle rivalità tra i vari capi locali (i serbi stessi protessero alcuni capibanda albanesi contro altri).

 

Le responsabilità europee ed italiane nel conflitto

Sono le guerre balcaniche (sulla cui origine esterna è difficile dubitare, dato che dietro a ciascon contendente c'erano le maggiori potenze europee che affilavano le armi in vista della Grande Guerra) ad avviare i tentativi di spartizione dell'ampia area dell'Albania etnica, che cominciava ad aspirare all'indipendenza, ma che aveva meno forza degli altri contendenti, e a cui offriva protezione l'ultimo paese arrivato sulla scena balcanica: l'Italia. Nel corso delle guerre balcaniche e poi della Prima Guerra Mondiale i territori del Kosovo e della stessa Albania sono invasi da diversi eserciti. L'Italia offre protezione a una possibile Albania indipendente, scontrandosi con gli interessi della Francia, alleata ma rivale non solo nei Balcani, che appoggia la Serbia e punta decisamente alla spartizione.

Stabilito un discutibile protettorato sull'Albania (riconosciuto alla fine dalle altre potenze dell'Intesa), l'Italia spreca molte delle sue carte nel tentativo di impossessarsi direttamente di Valona, scontrandosi con una fiera resistenza e perdendo così molta credibilità.

Negli anni successivi, l'irredentismo del Kosovo, annesso alla Serbia senza alcun riconoscimento della pur minima autonomia culturale, non trova molti appoggi esterni. L'Italia punta più sulla carta croata, mentre la stessa Albania di re Zog evita di toccare l'argomento della Grande Albania perché ha bisogno dell'appoggio jugoslavo contro i nemici esterni e le mai cessate aspirazioni dell'imperialismo italiano.

Sappiamo dal solito Ciano (fonte preziosa per la ricostruzione della politica estera italiana) che il 21 aprile 1939, appena completata la conquista dell'Albania, aveva cominciato a interessarsi del Kosovo. Riferendo il contenuto di un incontro avvenuto quel giorno con Tahir Stylla, ex ministro di Albania a Belgrado, Galeazzo Ciano parla per la prima volta del "problema dei Cossovesi, cioè 850.000 albanesi fortissimi fisicamente, saldissimi moralmente, entusiasti all'idea di una unione alla madre Patria". Da Stylla apprende che "pare che i serbi ne abbiano un terrore panico". A quanto sembra, non ne sa molto, ma comunque conclude che "oggi non bisogna neppure lasciare immaginare che il problema attira la nostra attenzione: anzi bisogna cloroformizzare gli jugoslavi. Ma in seguito bisogna adottare una politica di vivo interessamento per il Cossovo: ciò varrà a tener vivo un problema irredentista nei Balcani che polarizzerà l'attenzione degli stessi albanesi, e rappresenterà un pugnale piantato nel dorso della Jugoslavia".

Il 18 giugno dello stesso anno riceve di nuovo Stylla, e annota: "Intendo valermi di lui per la questione del Kossovo [questa volta ne trascrive più correttamente il nome NdR], della quale è molto competente. Creerò presso il sottosegretariato per l'Albania un ufficio irredentismi". Il momento buono verrà meno di due anni dopo, con l'invasione e laspartizione della Jugoslavia. Il Kosovo (tranne la zona di Trepca, piccola ma importante per le risorse minerarie, che viene annessa alla zona di occupazione tedesca) viene assegnato all'Italia.

Per una parte degli albanesi sembra la realizzazione del sogno della "Grande Albania", sia pure sotto tutela italiana. Nel giro di un anno, 60.000 contadini serbi sono costretti a lasciare il paese; ma doveva essere solo l'inizio. Il capo del governo fantoccio nominato dall'Italia, Mustafà Kruja, annunciò in un discorso che il Kosovo doveva essere "etnicamente puro": per gli immigrati recenti c'era l'espulsione o l'eliminazione, mentre i serbi che vi risedevano da secoli dovevano essere dichiarati in massa "colonisti" (alludendo anacronisticamente alle colonie di popolamento avviate dopo l'annessione alla Serbia). Va detto che Ciano diffidava di lui, temendo che il suo estremismo facesse danni, ma anche perché Kruja era impopolare tra i notabili albanesi in quanto era figlio di un servitore! Comunque, Mustafà Kruja rimase in carica dal novembre 1941 al gennaio 1943, e di danni riuscì a farne effettivamente parecchi.

Quando l'esercito italiano si sfaldò dopo l'8 settembre 1943, il Kosovo finì ovviamente sotto controllo diretto della Germania. Molti notabili, per ottenere i favori dei nuovi padroni, cominciarono a teorizzare di essere "ariani di stirpe illirica", e ottennero comunque l'espulsione di altri serbi e montenegrini dalle zone miste. Anche per questo la resistenza antifascista nell'area fu più debole che nel resto della Jugoslavia, e radicata prevalentemente tra le minoranze slave, sottoposte a un'oppressione più dura.

 

Il Kosovo nella Jugoslavia di Tito

Dopo la liberazione la sorte dei kosovari fu contraddittoria: da un lato il Kosovo fu annesso alla Repubblica serba come regione senza diritti amministrativi autonomi (a differenza della Vojvodina, che li ottenne quasi subito), dall'altro non fu concesso il ritorno ai serbi e montenegrini espulsi dai kosovari alleati ai fascisti italiani e ai nazisti. La questione dell'assetto della regione era stata rinviata alla eventuale costituzione della grande federazione balcanica, che doveva comprendere anche Albania e Bulgaria, e la stessa Grecia se fosse diventata - come sembrava probabile - anch'essa una repubblica socialista, e della cui sorte parliamo altrove.

Intanto una spietata repressione colpiva la popolazione, in alcuni casi perché accusata di connivenza con i nazifascisti, in altri perché legata effettivamente a un'organizzazione nazionalista anticomunista come il Balli Kombetar. I metodi adottati erano terribili: a Drenica fu trovata una fossa comune con 250 albanesi, mentre nel Montenegro 1.670 civili albanesi furono chiusi in un tunnel e asfissiati con il gas. Tali misure furono adottate anche in altre repubbliche contro i collaborazionisti, veri o presunti, ma va segnalato che quando nel 1966 il potente ministro degli Interni Aleksandar Rankovic fu destituito, fu accusato tra l'altro (oltre che di avere messo microspie perfino nella camera da letto di Tito...) dicrimini commessi contro la popolazione del Kosovo. Le misure staliniste di Rankovic avevano largamente anche i serbi, ma dopo il suo allontanamento da tutte le responsabilità direttive egli era apparso la vittima di una presunta discriminazione antiserba: quando morì nel 1983 un immenso corteo di serbi lo accompagnò alla tomba, trasformandolo in un simbolo.

Questi dati ci permettono di capire che la soluzione dei problemi nazionali nella Repubblica jugoslava non deve essere denigrata, ma neppure mitizzata, giacché, come è stato sperimentato anche durante l'occupazione di Trieste, la formazione stalinista dei dirigenti portò molte volte a oscillazioni tra progetti rispettabili e brutali sopraffazioni.

La Costituzione del 1946 non riconosceva dunque l'esistenza di un'etnia albanese, e manteneva le regioni abitate da essa all'interno di tre repubbliche (Serbia, Macedonia e Montenegro). Sotto la direzione di Rankovic venne anche incoraggiato l'esodo di circa 195.000 albanesi del Kosovo e della Macedonia verso la Turchia. Solo nel 1966 si comincerà a modificare la situazione, dopo il Plenum di Brioni della Lega dei Comunisti di Jugoslavia, che varò un progetto di decentramento, in base al quale fu deciso tra l'altro di istituire l'università albanese di Priötina. Nel 1968 ci saranno forti manifestazioni studentesche in tutta la Jugoslavia, che a Priötina assumeranno caratteristiche nazionalistiche. Ma l'aspirazione all'unione con l'Albania rimarrà circoscritta a pochi gruppi marxisti-leninisti, alcuni dei quali sono confluiti oggi nell'UCK. La ragione è semplice: pur restando l'area più povera e arretrata della Jugoslavia, il Kosovo ha un livello di vita e di cultura nettamente superiore a quello dell'Albania di Henver Hoxha. Il processo di graduale concessione di diritti nazionali agli albanesi culmina nel 1974 in una Costituzione che, pur non riconoscendo lo status di repubblica al Kosovo, lo equipara di fatto a una repubblica con diritto di veto sulle decisioni della federazione. Verrà anche destinata al Kosovo una buona fetta del bilancio della federazione jugoslava, che tuttavia finirà in parte sprecata per la gestione burocratica dei dirigenti locali

Il resto è più noto, ed è conseguenza, non causa, della crisi profonda del paese, indebitato con l'estero e incapace di affrontare democraticamente i problemi che aveva di fronte. Va ricordato tuttavia che, per moltissimi anni dopo la soppressione da parte di Milosevic dei diritti riconosciuti dalla Costituzione del 1974, tra i kosovari continuò a prevalere un orientamento gradualistico e la richiesta di autonomia, non di indipendenza o di unione a un'Albania ancora poco attraente.

In ogni caso, non abbiamo il diritto di decidere noi se la soluzione migliore è l'autonomia o l'indipendenza, o l'unione all'Albania. Possiamo solo batterci perché la decisione possa essere presa democraticamente da tutti gli abitanti del Kosovo, e perché siano garantiti i diritti della minoranza serba. Altro non ci compete. E comunque, meno che mai possiamo farlo noi italiani, che esaltiamo nei libri di storia e nelle celebrazioni rituali il nostro Risorgimento, che si basava appunto su una lotta per la riunificazione degli italiani sparsi in diversi Stati o sottoposti a una dominazione straniera ritenuta intollerabile anche se secolare.

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(http://www.intermarx.com/ossto/moscato2.html)