[cultura] Il teatro e la scrittura nei luoghi della cura



“Darsi le parole” è un volume a cura di MariaElena Leone presentato il 13 maggio, presso la Bilbioteca Minguzzi-Gentili nell'ambito delle iniziative per il centenario della nascita di Franco Basaglia e in occasione della ricorrenza dell'approvazione della legge 180. Abbiamo chiesto all'autrice di narrarci il percorso umano e professionale compiuto nella realizzazione dell'esperienza di “scrittura e teatro come pratiche di liberazione”.

“Darsi le parole” è un viaggio iniziato tanto tempo fa, plasmato dai volti e dalle parole di tanti compagni, maestri e fratelli. Un viaggio segnato da passaggi cruciali, i volti e le parole di Cinzia Migani, Ivonne Donegani, Fabrizio Starace, Silvano Negretto, Bruna Zani e Andrea Parma. Il mondo da reinventare è reale quanto quello che subiamo ogni giorno. Nei luoghi della cura, l'arte del teatro e della scrittura tornano ad essere santuari di ricerca del senso, restituendoci incontri e strade perdute o appena cominciate. E ritrovarsi in un cammino di crescita personale e collettiva ed accogliere, con coraggio, il mutamento inscritto nelle cose, e trovare le parole per dirlo.

La violenza vuole, mentre la meraviglia non vuole nulla. A questa è perfettamente estraneo il volere; le è estraneo e persino nemico tutto quanto non persegue il suo inestinguibile stupore estatico. E, ciò nonostante, la violenza viene a romperla e rompendola invece di distruggerla fa nascere qualcosa di nuovo, un figlio di entrambe: il pensiero, l'instancabile pensiero filosofico. (Maria Zambrano, Luoghi della poesia)

 

La peculiarità del teatro e della scrittura nei luoghi della cura fa sì che il processo creativo e quello umano si ricongiungano nell'incontro con l'altro quale esperienza fondamentale del nostro essere e delle nostre esistenze.

Il teatro e la scrittura nei luoghi della cura, da strumenti di mercato e di potere, tornano ad essere una straordinaria opportunità, per tutti noi, per ritrovare il linguaggio stesso della vita e rinascere in un volto a volto con il mondo.

“Rinascere” è una parola che risuona, instancabilmente, nei laboratori di teatro e scrittura, nell' accezione di vedere le proprie idee e le proprie parole, prendere corpo.

Raggiungiamo gli scopi del lavoro creativo solo attuando, pienamente, il nostro compito ontologico, direbbe Heidegger, scolpendo la nostra statua, direbbe Plotino, conoscendo noi stessi ( γνῶϑι σεαυτόν) dell' oracolo di Delfi.

L'esperienza artistica non equivale, genericamente, ad esprimere se stessi, affermando il proprio ego. “ Io non riesco assolutamente a credere, dirà Andrej Tarkovskij, che l'uomo sia capace di creare mosso soltanto dal desiderio di autoespressione. L'autoespressione senza la comprensione reciproca non ha senso”. E conclude dicendo “Vale forse la pena di affaticarsi per udire solo la propria eco?”

Il processo creativo e umano, dunque, si realizzano in un tempo preciso, quello della relazione, nel quale far germogliare ad ogni incontro e ad ogni assalto della realtà, l'anelito sepolto e rimosso, quasi impronunciabile, di realizzare la nostra più profonda umanità, incontrando l'altro, facendogli spazio e cioè mettendo al vaglio, tutti quei pensieri precostituiti e preconfezionati, compresi quelli validati scientificamente e inseriti in protocolli rigidi con i quali vediamo solo ciò che il metodo che ci siamo costruiti, ci consente di “vedere”.

Ma l' altro, quando si accorge di non avere spazio tra le nostre braccia, si ritrae e comincia a recitare in teatro come nella vita. A volte, a fingersi pazzo.

Io stessa, se avessi seguito i criteri di selezione, tra quelli imposti dalle diverse metodologie teatrali, in una ipotetica griglia di valutazione, alle voci bell'aspetto, memoria, dizione, nessuno sarebbe risultato idoneo, nessuno avrebbe potuto iniziare un percorso di parole sulla scena o sulla carta. Fragili vengono chiamati coloro che non rientrano nelle categorie e nei parametri ufficiali; ad essi, il teatro sociale concede ed assicura una piccola ribalta nella quale sfoggiare i propri limiti affinché vengano tollerati e accettati, quando, invece, rappresentano la forza rivoluzionaria di un teatro rinnovato che si riprende il suo spazio di verità e spontaneità condivise a scapito dell' indifferenza, dell'artificio e della menzogna.

Il maestro Konstantin Stanislawskij (maestro di teatro) pregava i suoi allievi di evitare la parola “metodo” e di utilizzare “appunti sul metodo” perché non può esservi nulla di apriori dinanzi all' umano, se non lo sguardo attento e in ascolto dell' altro, che ci fa esistere e svelare nel nostro tempo e nel nostro modo.

Ricordo un episodio che mi ha segnata, influenzando il modo in cui ho percepito e affrontato situazioni complesse nella mia esperienza di regista e maestra di teatro, illuminando l'importanza di promuovere e creare ambienti inclusivi e di supporto in ambito educativo e pedagogico: nei primi anni della mia formazione teatrale e umana, una compagna di laboratorio, esclusa dal cast di uno spettacolo, tentò il suicidio. Nei corridoi, e solo nei corridoi, si poteva sussurrare il nome di quella dolce e sorridente fanciulla. Non era conveniente porre né porsi domande, perché avevamo già una risposta pronta, forgiata dal mercato e dall'industria educativa e culturale, che ci addestra, ancora oggi, alla pratica della selezione come giustificazione ideologica dell'esclusione, in tutte le sue squallide varianti.

Quella tacita risposta non smise di interrogarmi, finché non giunsero le domande, quelle a cui proviamo a rispondere con l'intera nostra esistenza. Domande che connotano l'arte e l'umano come luoghi in cui non serve esibire virtuosismi, ma camminare insieme e riflettere sul cammino, che è poi l'etimologia della parola metodo (μέϑοδος, che significa letteralmente “strada attraverso cui si va oltre”).

Dovremmo leggere, allora, quello che il teatro e la scrittura ci dicono, nei luoghi della cura, in quanto mezzi di trasformazione in grado di interrompere la coazione a ripetere del disagio indotto da schemi, abitudini consolidate e scambiate per postulati e verità dogmatiche.

Per esempio, ci raccontano che fragili sono coloro che non stanno al gioco al massacro di una competizione becera, di un tecnicismo disumano e che bisognerebbe fare ammalare i sani affinché, entrando in questi luoghi di pratica filosofica, possano recuperare la condizione di esseri umani, e ammalarsi di bellezza, considerando, seriamente, l'apporto immenso che i rinchiusi donano a quelli che stanno Fuori.

Per tanto tempo, per molto tempo, ho pensato di aver rinunciato al mio amore per la filosofia per uno più grande, quello appunto per il teatro e la scrittura. Ed ora, in piena consapevolezza, posso dire che quel primo amore per gli studi filosofici, si è incarnato nelle prassi del Teatro e della Scrittura, applicati alla salute mentale. In Teatro e Scrittura si immaginano e si mettono alla prova nuove forme di esperienza, si dà forma a qualcosa che prima non esisteva, rendendo l'impossibile e il non ancora pensato, immediatamente intelligibile e teoretico.

Occorre, allora, ricominciare tutto daccapo, da Aristotele, Konstantin Stanislawskij, Antonin Artaud, Mejerchold e Dullin, Platone, Sofocle, Friedrich Nietzsche e Fëdor Dostoevskij, Simone Weil, Rainer Maria Rilke, Ingmar Bergman e Jean Paul Sartre, Hannah Arendt, Edmund Husserl e John Keats, Virginia Wolf e Borges, Edit Stein, Martin Heidegger, Maria Zambrano, Bertolt Brecht, Michel Foucault, Jerzi Grotowskij e molti altri, molti.

Ricominciare dai grandi Maestri, i volti e le parole, per comprendere, una volta per tutte, che la politica, la Scuola, la scienza, il teatro e l'arte, senza la filosofia, il suo apporto e supporto, diventano ingannevole e grottesca farsa di giullari di corte.

MariaElena Leone
attrice, autrice, regista e pedagoga
della compagnia Teatro del Mare, Taranto


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