Re: "La Stampa" contro il commercio equo



In effetti mi aspetto una reazione che provochi almeno un articolo di scuse da parte dei quotidiani coinvolti in questa faccenda. Fra l'altro ho un po' storto il naso quando, a detta del presidente di Fairtrade, ho appreso che i controlli vengono effettuati solo una volta l'anno...mi paiono un po' pochi per garantire il marchio di "prodotto equoesolidale", si sa che durante il resto dell'anno posso avvenire le cose più turpi e sistemare il tutto quando è imminente il controllo, un po' come avviene quando arriva il controllo dell'ASL negli esercizi commerciali o quando arriva la visita di un'autorità statale nei centri pubblici...






Associazione Animali e Natura ha scritto:
Sinceramente io non capisco perche' indignarsi per quello che la giornalista dice, piuttosto che per quello che Fairtrade fa... Questo articolo mi suscita un ragionevole dubbio... piuttosto che sparare a zero sulla giornalista preferisco vederci chiaro...

Da cliente di prodotti equosolidali preferirei che venisse smentita ogni affermazione in modo oggettivo e obiettivo, non che ci si indignasse come un fatto personale.

Dobbiamo essere superiori a queste cose... altrimenti qualcuno potrebbe credere che qualcosa di marcio ci sia veramente...

Saluti,
Stefano.



On 9/13/06, *Marco Penno* <marcosbiro at gmail.com <mailto:marcosbiro at gmail.com>> wrote:

    L'articolo seguente riportato su "La Stampa" del 10/9/2006 cerca di
    gettare
    fango sul commercio equo e solidale nel suo complesso prendendo
    spunto da
    un "reportage dettagliato" del Financial Times (a detta della
    giornalista).
    La giornalista non parla a fondo dello scandalo presunto legato a
    Fairtrade, ma generalizza la truffa partendo da questa osservazione:
    "Come
    conferma un produttore di caffè solidale, «nessun certificatore può
    garantire che sarà comprato il 100% della produzione di una cooperativa,
    quindi come è possibile assicurare che ogni confezione soddisferà gli
    standard?»"
    Quest'ultima affermazione, intanto è poco comprensibile: non si capisce
    perchè una cooperativa debba vendere tutta la sua produzione?! Ma
    forse la
    giornalista, nella foga del suo delirio intendeva dire che non si può
    dimostrare la provenienza di tutti i prodotti. Allora comunque non
    dimostra
    nulla, non cita la fonte della "rivelazione" (forse in realtà è stata
    suggerita da un amico incontrato al bar); ma comunque il tutto è
    sufficiente per essere il pretesto di una serie di calunnie
    pesantissime a
    tutte le organizzazioni di commercio equo.
    Penso che chi ha scritto tale articolo non sia in buona fede e invito a
    sommergere di lettere "La Stampa" e a girare questa informazione a
    tutte le
    organizzazioni di commercio equo e solidale italiane in modo che
    possano
    difendersi da sè.
    Inoltre leggendo l'ultima frase dell'articolo penso che ognuno di
    noi possa
    sentirsi insultato personalmente, quindi spero almeno che "La
    Stampa" venga
    sommersa di lettere di protesta.
    Ciao
    Marco
    "Solo due cose sono infinite, l'universo e la stupidità umana, e non
    sono
    sicuro della prima." [Albert Einstein]

    UN'INCHIESTA DEL FINANCIAL TIMES SVELA TUTTI GLI INGHIPPI E GLI
    INGANNI DEL
    COMMERCIO «ETICO»
                                    Caffè solidale, invece è una truffa
                                    di Carla Reschia

                                     BASTA digitare in rete
    < http://www.fairtrade.org.uk>www.fairtrade.org.uk
    <http://www.fairtrade.org.uk>, indirizzo internet
    dell'organizzazione leader del commercio equo e solidale, per
    avvertire che
    un mondo diverso non è solo possibile, ma già c'è. Come dimostra la
    galleria fotografica del sito, che pare un reportage del National
    Geographic. Africa, Asia e Sud America come non le avete mai viste.
    Colori
    smaglianti, piantagioni modello, volti sorridenti, cortili lindi,
    casette
    colorate, signore in sari che raccolgono foglioline di thè come fossero
    orchidee, contadini che nemmeno l'uomo Del Monte. Per scorgere il
    serpente
    che, invisibile, inevitabile, si arrotola in ogni paradiso
    terrestre, si
    consiglia invece la lettura del Financial Times. Si scopre così che
    l'ottimo caffè etico scelto anche da grandi catene multinazionali in
    vena
    di correttezza come Mc Donald e Starbucks è molto, troppo amaro. Lo
    racconta Hal Weitzman in un dettagliato reportage dal Perù, principale
    fornitore del caffè Fairtrade. Primo: i lavoratori impiegati dalle
    associazioni che aderiscono alla fondazione sono pagati al di sotto del
    minimo legale. Secondo: caffè di origine ignota viene contrabbandato
    per
    certificato e venduto come tale. Terzo: una parte del caffè «equo e
    solidale» cresce in aree protette, o che almeno dovrebbero esserlo,
    come le
    foreste pluviali. Alla faccia dell'ambiente. Lo ha scoperto, grazie
    alle
    immagini satellitari, una ong canadese. Tutto ciò, osserva
    sobriamente il
    quotidiano, «getta il dubbio sul processo di certificazione usato da
    Fairtrade e marchi similari». A dir poco. Come conferma un
    produttore di
    caffè solidale, «nessun certificatore può garantire che sarà comprato il
    100% della produzione di una cooperativa, quindi come è possibile
    assicurare che ogni confezione soddisferà gli standard?» Il
    problema, in
    termini puramente economici, appare piccolo perché il caffè
    «politicamente
    corretto» rappresenta meno del 2% del commercio mondiale del
    settore. Ma è
    una nicchia che tira, in espansione costante. E che non riguarda
    solo il
    caffè, ma anche zucchero, cioccolato, banane, miele, riso, fiori,
    cosmetici, birra, vino e persino gli immancabili palloni da calcio.
    Basta
    tornare a dare un'occhiata al sito www.fairtrade alla voce
    «merchandise».
    C'è persino una bananona di plastica, pure lei, chissà come,
    Fairtrade, al
    modico prezzo di 10 dollari. Il fatto è che il marchio «equo e
    solidale» -
    così come quello gemello di «prodotto biologico» - per un numero
    crescente
    di acquirenti occidentali sta diventando il viatico per consumare senza
    sentirsi troppo in colpa. Senza farsi andare tutto di traverso al
    pensiero
    che si sta rovinando ciò che resta dell'Amazzonia, o facendo
    sciogliere il
    Polo Nord e/o affamando poveracci già sull'orlo della miseria. Non a
    caso,
    dai piccoli negozi alternativi la moda si sta estendendo a grandi
    aziende
    lontanissime dalla filosofia no profit, mentre i governi fanno a
    gara nel
    favorire imprese tanto virtuose con sgravi fiscali e agevolazioni
    assortite. Ultimo, non secondario dettaglio: i prodotti equi costano più
    dei loro omologhi «scorretti». Perché sono più onerosi all'origine, non
    nascono da uno sfruttamento, è la vulgata militante. Ma se all'origine
    costano uguale, o meno, e sfruttano lo stesso, compresa la buona fede di
    chi acquista, allora si chiama truffa. Ad esempio, quattro delle cinque
    piccole imprese certificate Fairtrade visitate dall'inviato del
    Financial
    Times in Perù, pagano ai lavoranti a giornata 10 sol, circa tre dollari
    (solo una arriva a 12) per un orario no-stop dalle 6 del mattino
    alle 16,30
    del pomeriggio. Là dove la tariffa minima è di 11,20 sol. In molti
    casi, si
    precisa, non sono inganni perpetrati coscientemente, ma di un
    circolo poco
    virtuoso di inadeguatezza. «I coltivatori pagano meno perché non ce la
    fanno. Sono loro per primi a guadagnare meno di ciò che è stimato per
    legge», osserva un certificatore. Ammettendo l'impossibilità di
    controlli
    che vadano tanto in profondità e nel dettaglio da eliminare il
    problema.
    C'è chi poi invoca - anche qui - la perversione insita nelle leggi di
    mercato: all'inizio, quando davvero erano prodotti di nicchia, il
    meccanismo funzionava. Da quando tutti vogliono il «caffè etico» il
    sistema
    è impazzito e per soddisfare la domanda si fa di tutto. Compreso il
    vecchio
    trucco di far passare per «etico» caffè qualsiasi comprato chissà
    dove da
    chissà chi. Resta il fatto che, fra tanta etica, alla fine qualcuno si
    trova a pagare più del dovuto qualcosa che non è quello che dovrebbe
    essere. Danneggiando se stesso senza aver portato beneficio ad altri.
    Secondo l'economista Carlo Cipolla è la definizione migliore di
    stupido.

    --
    Mailing list Consumo Critico dell'associazione PeaceLink.
    Per CANCELLAZIONI: http://www.peacelink.it/mailing_admin.html
    Se non riesci, scrivi a nicoletta at peacelink.org
    <mailto:nicoletta at peacelink.org>
    inserendo "cancella" nel Soggetto.
    Si sottintende l'accettazione della Policy Generale:
    http://www.peacelink.it/associazione/html/policy_generale.html