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Fairtrade risponde alle accuse del Financial Times
- Subject: Fairtrade risponde alle accuse del Financial Times
- From: "Francesco Castracane" <f.castracane at alice.it>
- Date: Sat, 16 Sep 2006 23:53:40 +0200
Un articolo che vorrebbe mettere in crisi il sistema di certificazione Fairtrade, denunciandone le inadeguatezze: il Financial Times di sabato 9 settembre titolava, in prima pagina “Lavoratori dell'Ethical coffee pagati meno del salario minimo”. All'interno, l'inviato del prestigioso quotidiano britannico in Perù provava, attraverso interviste raccolte tra i lavoratori stagionali di una non specificata piantagione, che i criteri con cui veniva lavorato il caffè Fairtrade non erano “equosolidali”: lavoratori stagionali pagati al di sotto del minimo salariale, caffè non fairtrade venduto come tale, piantagioni all'interno di aree di tutela ambientale contro i criteri di rispetto dichiarati dalla stessa certificazione. Accuse gravi e poco circostanziate, secondo il sistema Fairtrade che raggruppa venti organizzazioni di certificazione in tutto il mondo e che coinvolge circa 500 organizzazioni di produttori in Asia, Africa ed America Latina. Accuse riprese anche da alcuni quotidiani italiani a cui risponde oggi Fairtrade TransFair Italia, il partner italiano di FLO, Coordinamento che raggruppa i marchi di garanzia presenti in tutto il mondo che si occupa della certificazione delle aziende e dei produttori che fanno parte del sistema Fairtrade. E in merito alle accuse espresse risponde il presidente di Fairtrade TransFair Italia, Adriano Poletti: “Se l'accusa è che il Fairtrade non paga nemmeno il minimo salariale, chiariamo che gli standard prevedono di riconoscere ai lavoratori stagionali lo stipendio minimo stabilito dalla legge locale in cui possono essere compresi anche alcuni benefit, come il vitto e l'alloggio. I controlli di Fairtrade sono svolti da ispettori qualificati e formati e si ripetono una volta l'anno con interviste a campione ai lavoratori che riconoscono come il Fairtrade garantisca loro il 25% in più rispetto ad uno stipendio normale”. La questione centrale è invece un'altra, secondo Poletti: che non tutta la produzione di queste cooperative viene venduta al circuito Fairtrade ma solo un 10 – 15% poiché la richiesta del mercato occidentale e interno non lo consente. La restante parte viene invece “svenduta” al mercato tradizionale che non riconosce nemmeno i costi di produzione e quindi si creano disparità di retribuzione all'interno della stessa cooperativa. Per questo Fairtrade svolge un ruolo importante di accompagnamento oltre che di controllo cercando di indirizzare i produttori verso coltivazioni più retribuite, come quelle biologiche, oppure verso la differenziazione. I produttori vengono controllati costantemente e supportati nel caso di anomalie. Solo in extremis si provvede alla cancellazione dei registri. In merito alla vendita di caffè non equosolidale sotto l'egida del marchio, la risposta di Poletti è ancora più decisa: “Ad un produttore non conviene assolutamente vendere al di fuori del nostro circuito un caffè “finto” Fairtrade dal momento che all'esterno non gli verrebbe riconosciuto un prezzo equo”. Infine sulla questione ambientale, gli standard Fairtrade sono molto precisi ed impediscono ai coltivatori di piantumare non solo in aree protette ma anche in terreni vergini. E questa l'accusa, la meno circostanziata, desta sospetto sullo scopo dell'articolo: “Sembra quasi che si voglia screditare un sistema proprio in un paese (l'Inghilterra) in cui questo sembra funzionare meglio e produrre maggiori risultati. Forse le grandi aziende, nonostante i piccoli numeri del commercio equo, stanno cominciando a preoccuparsi”.
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