Fairtrade risponde alle accuse del Financial Times



Un articolo che vorrebbe mettere in crisi il sistema di certificazione
Fairtrade, denunciandone le inadeguatezze: il Financial Times di sabato 9
settembre titolava, in prima pagina “Lavoratori dell'Ethical coffee pagati
meno del salario minimo”. All'interno, l'inviato del prestigioso quotidiano
britannico in Perù provava, attraverso interviste raccolte tra i lavoratori
stagionali di una non specificata piantagione, che i criteri con cui veniva
lavorato il caffè Fairtrade non erano “equosolidali”: lavoratori stagionali
pagati al di sotto del minimo salariale, caffè non fairtrade venduto come
tale, piantagioni all'interno di aree di tutela ambientale contro i criteri
di rispetto dichiarati dalla stessa certificazione. Accuse gravi e poco
circostanziate, secondo il sistema Fairtrade che raggruppa venti
organizzazioni di certificazione in tutto il mondo e che coinvolge circa 500
organizzazioni di produttori in Asia, Africa ed America Latina. Accuse
riprese anche da alcuni quotidiani italiani a cui risponde oggi Fairtrade
TransFair Italia, il partner italiano di FLO, Coordinamento che raggruppa i
marchi di garanzia presenti in tutto il mondo che si occupa della
certificazione delle aziende e dei produttori che fanno parte del sistema
Fairtrade. E in merito alle accuse espresse risponde il presidente di
Fairtrade TransFair Italia, Adriano Poletti: “Se l'accusa è che il Fairtrade
non paga nemmeno il minimo salariale, chiariamo che gli standard prevedono
di riconoscere ai lavoratori stagionali lo stipendio minimo stabilito dalla
legge locale in cui possono essere compresi anche alcuni benefit, come il
vitto e l'alloggio. I controlli di Fairtrade sono svolti da ispettori
qualificati e formati e si ripetono una volta l'anno con interviste a
campione ai lavoratori che riconoscono come il Fairtrade garantisca loro il
25% in più rispetto ad uno stipendio normale”. La questione centrale è
invece un'altra, secondo Poletti: che non tutta la produzione di queste
cooperative viene venduta al circuito Fairtrade ma solo un 10 – 15% poiché
la richiesta del mercato occidentale e interno non lo consente. La restante
parte viene invece “svenduta” al mercato tradizionale che non riconosce
nemmeno i costi di produzione e quindi si creano disparità di retribuzione
all'interno della stessa cooperativa. Per questo Fairtrade svolge un ruolo
importante di accompagnamento oltre che di controllo cercando di indirizzare
i produttori verso coltivazioni più retribuite, come quelle biologiche,
oppure verso la differenziazione. I produttori vengono controllati
costantemente e supportati nel caso di anomalie. Solo in extremis si
provvede alla cancellazione dei registri. In merito alla vendita di caffè
non equosolidale sotto l'egida del marchio, la risposta di Poletti è ancora
più decisa: “Ad un produttore non conviene assolutamente vendere al di fuori
del nostro circuito un caffè “finto” Fairtrade dal momento che all'esterno
non gli verrebbe riconosciuto un prezzo equo”. Infine sulla questione
ambientale, gli standard Fairtrade sono molto precisi ed impediscono ai
coltivatori di piantumare non solo in aree protette ma anche in terreni
vergini. E questa l'accusa, la meno circostanziata, desta sospetto sullo
scopo dell'articolo: “Sembra quasi che si voglia screditare un sistema
proprio in un paese (l'Inghilterra) in cui questo sembra funzionare meglio e
produrre maggiori risultati. Forse le grandi aziende, nonostante i piccoli
numeri del commercio equo, stanno cominciando a preoccuparsi”.