SUSSIDI UE ALL'AGRICOLTURA: TOGLIERE IL PANE AGLI AFFAMATI



Ogni anno l’Europa, per sostenere i propri agricoltori, spende circa 50 miliardi di euro.
Chi li prende?
Al principe Alberto di Monaco ne vanno 300 mila, alla regina d'Inghilterra 546 mila, a Philip Morris 1,5 milioni, alla Shell 660 mila, a Van Drie 745 mila, a Nestlé 11 milioni, a Tate&Lyle 127 milioni...


Ogni anno gli Stati Uniti concedono ai loro agricoltori sovvenzioni per 20 miliardi di dollari, un po' più del reddito nazionale del Kenia, un quarto del reddito nazionale egiziano.
Di questi, due miliardi circa vanno a un centinaio di produttori di cotone, grandi aziende agricole che grazie al sussidio fanno lauti profitti.

Senza questi aiuti le esportazioni americane di cotone si dimezzerebbero e la produzione mondiale si sposterebbe verso Egitto e India, due Paesi il cui cotone è in media di qualità migliore di quello americano.

In Europa molti credono che lo scopo della nostra politica agricola sia proteggere i piccoli coltivatori - e così contribuire a preservare l'ambiente, una civiltà preziosa, la tradizione delle piccole comunità.
È falso.

Ogni anno l’Europa  spende, per sostenere i propri agricoltori, circa 50 miliardi di euro, un po’ più del reddito nazionale della Repubblica Slovacca.

Il principe Alberto di Monaco riceve 300 mila euro l'anno per la sua fattoria in Francia, la regina d'Inghilterra 546 mila (nel 2003).
In Olanda i tre maggiori beneficiari degli aiuti agricoli sono grandi multinazionali: Philip Morris (1,5 milioni nel 2003), Royal Dutch Shell (660 mila), Van Drie (745 mila).
In Gran Bretagna Nestlé ha ricevuto nel 2004 11 milioni di euro; Tate&Lyle, la più grande azienda europea di raffinazione dello zucchero di canna, 127 milioni.
Altro che piccoli coltivatori e allevatori!

E sono stati proprio gli inglesi a opporsi a una regola che avrebbe favorito i piccoli coltivatori limitando i grandi sussidi.

All’origine del recente fallimento dei negoziati di Ginevra sul commercio internazionale vi sono due interessi coincidenti.

Nei Paesi ricchi - Europa, Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud - la miopia politica, che non trova il coraggio di tagliare i sussidi a pochi agricoltori privilegiati; in alcuni Paesi emergenti - Brasile e India in particolare - l'illusione che proteggere le proprie industrie con i dazi aiuti la crescita.

Dobbiamo preoccuparci di questo fallimento?
Io non penso che senza questi accordi l'integrazione del mondo si fermerà, ma andrà avanti portandosi appresso due gravi distorsioni.
Innanzitutto i consumatori dei Paesi ricchi continueranno a sovvenzionare, senza che nessuno glielo abbia chiesto, le rendite degli agricoltori.

Se un referendum ci chiedesse: «Siete disposti a pagare un po' più tasse per salvaguardare la bellezza della campagna toscana e gli ulivi della Puglia?», è probabile che molti italiani risponderebbero sì.

Ma
lo si dovrebbe chiedere esplicitamente, anziché gestire la politica agricola a Bruxelles in un modo incomprensibile per la maggior parte di noi.

In secondo luogo, il fallimento di Ginevra indebolisce l'Organizzazione mondiale del commercio (Omc), l'arbitro delle regole sugli scambi internazionali.

Per comprendere quanto sia importante una Omc forte, basta ricordare il 2003, quando i giudici di Ginevra imposero al presidente George W. Bush di cancellare i dazi sulle importazioni di acciaio, con cui aveva cercato di guadagnare i voti dei siderurgici americani.

Nel dibattito italiano sulla liberalizzazione del commercio stupisce - come ha ricordato sul Sole 24 Ore Riccardo Faini, il consigliere economico del ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa – il silenzio dei nostri industriali.

Tuttavia dai negoziati di Ginevra essi avrebbero potuto trarre grandi benefici.
I dazi con cui Cina, India e Brasile proteggono ad esempio le loro imprese tessili ostacolano le nostre esportazioni e ci precludono mercati dove il numero di consumatori che
potrebbero acquistare prodotti italiani di alta gamma è in rapido aumento.

Gli imprenditori francesi hanno chiesto pubblicamente di non sacrificare gli interessi dell'industria per salvaguardare quelli dell'agricoltura.
Dalla Confindustria invece un sorprendente disinteresse.

Ma è imbarazzante battersi contro gli aiuti agricoli quando ogni anno i nostri imprenditori (a cominciare dagli editori di giornali) ricevono dallo Stato contributi pari a circa il 2% del Pil.


Francesco Giavazzi*

* Laureato in ingegneria al Politecnico di Milano nel 1972. Insegna economia politica all'Università Bocconi, della quale è stato pro-rettore alla ricerca tra il 2000 e il 2002.
Tra il 1992 e il 1994 è stato dirigente generale del Ministero del Tesoro, responsabile per la ricerca economica, la gestione del debito pubblico e le privatizzazioni.
Fa parte del Gruppo dei consulenti economici del Presidente della Commissione europea e collabora con il Corriere della sera e con Project Syndicate, un archivio on-line di articoli scritti da economisti di vari paesi.
I suoi editoriali e altro possono essere letti sul sito dell'Igier della Bocconi

(Corriere della Sera, 30 luglio 2006)