rassegna stampa: India - LE DONNE DEL KERALA CONTRO LA COCA COLA



a cura di ALtrAgricoltura Nord Est
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tratto da "Le Monde Diplomatique" - ed. marzo 05
Dossier acqua
"Le donne del Kerala contro la Coca Cola"
(di Vandana Shiva)
Espulsa dal governo indiano nel 1977, la Coca Cola ha rimesso piede nel
paese il 23 ottobre 1993, quando vi si insediava l'altra multinazionale
americana, la Pepsi-Cola. Attualmente le due imprese possiedono novanta
stabilimenti «d'imbottigliamento», che in realtà sono ... «di pompaggio»: 52
appartengono alla Coca Cola e 38 alla Pepsi-Cola. Ognuno di essi estrae da 1
a 1,5 milioni di litri d'acqua al giorno.
Questo genere di bevande gassose presenta rischi certi, derivanti dallo
stesso processo di fabbricazione. Prima di tutto gli stabilimenti
d'imbottigliamento, pompando dalle falde, tolgono ai poveri il diritto
fondamentale a procurarsi acqua potabile. Inoltre, generano rifiuti tossici
che minacciano l'ambiente e la salute pubblica. Infine, producono bevande
notoriamente pericolose per la salute - il parlamento indiano ha costituito
una commissione parlamentare mista incaricata d'indagare sulla presenza di
residui di pesticidi.
Per più di un anno, nel distretto di Palaghat, nel Kerala, alcune donne
delle tribù di Plachimada hanno organizzato sit-in di protesta contro il
prosciugamento delle falde freatiche provocato dalla Coca Cola. «Gli
abitanti - scrive Virender Kumar, giornalista del quotidiano Mathrubhumi -
si caricano sulla testa grandi quantità di acqua potabile, da andare a
cercare sempre più lontano, mentre camion pieni di bevande gassose escono
dallo stabilimento della Coca (1)». Per fare un litro di Coca Cola sono
necessari nove litri di acqua potabile.
Le donne adivasi (2) di Plachimada hanno iniziato ad organizzarsi poco dopo
l'apertura dello stabilimento della Coca Cola la cui produzione doveva
raggiungere, nel marzo 2000, 1.224.000 bottiglie di Coca Cola, Fanta,
Sprite, Limca, Thums up, Kinley Soda e Maaza. Il panchayat locale (3) aveva
concesso alla multinazionale, sotto condizione, l'autorizzazione ad
attingere acqua con l'aiuto di pompe a motore.
Ma la multinazionale, del tutto illegalmente, dopo aver scavato più di sei
pozzi attrezzandoli con pompe elettriche ultra potenti, ha iniziato a
pompare milioni di litri di acqua pura. Il livello delle falde è
drasticamente sceso, passando da 45 a 150 metri di profondità.
Non contenta di rubare acqua alla collettività, la Coca Cola ha inquinato il
poco che ne rimaneva convogliando le acque sporche nei pozzi a secco scavati
nello stabilimento per sotterrare i rifiuti solidi.
Prima, l'impresa depositava i rifiuti in superficie, cosicché nella stagione
delle piogge questi ultimi, disperdendosi fra risaie, canali e pozzi,
costituivano una gravissima minaccia per la salute pubblica.
Oggi non è più così. Ma la contaminazione delle sorgenti di acqua resta un
dato di fatto.
Con le sue procedure, la Coca Cola ha provocato il prosciugamento di 260
pozzi, la cui trivellazione era stata eseguita dalle autorità per sopperire
al bisogno di acqua potabile e all'irrigazione agricola.
In questa regione del Kerala, definita «il granaio di riso» proprio perché
si tratta di un ecosistema ricco e molto ben fornito di acqua, le rese
agricole sono diminuite del 10%. Il colmo è che la Coca Cola ridistribuisce
agli abitanti dei villaggi, sotto forma di concime, i rifiuti tossici
prodotti dal suo stabilimento. I test effettuati hanno infatti dimostrato
che questi concimi hanno un'alta percentuale di cadmio e piombo, due
sostanze cancerogene.
Rappresentati delle tribù e dei contadini hanno denunciato non solo la
contaminazione delle riserve acquifere e delle sorgenti, ma anche le
trivellazioni senza criterio che compromettono gravemente i raccolti; hanno
richiesto, in particolare, la protezione delle tradizionali sorgenti di
acqua potabile, degli stagni e dei vivai di pesci, la manutenzione delle vie
navigabili e dei canali, il razionamento dell'acqua potabile.
Invitata a fornire spiegazioni sul suo operato, la Coca Cola ha rifiutato al
panchayat i chiarimenti richiesti. Di conseguenza, quest'ultimo le ha
notificato la soppressione della licenza di sfruttamento delle acque. Per
tutta risposta, la multinazionale ha cercato di comprarne il presidente,
Anil Krishnan, offrendogli 300 milioni di rupie. Inutilmente.
Tuttavia, mentre il panchayat le ritirava il permesso di sfruttamento, il
governo del Kerala, da parte sua, ha continuato a proteggere l'impresa.
Non a caso le ha concesso circa 2 milioni di rupie (36.000 euro) a titolo di
sovvenzione alla politica industriale regionale. La Pepsi e la Coca Cola
ricevono aiuti simili in tutti gli stati in cui sono presenti. E questo per
bibite il cui valore nutrizionale è nullo rispetto a quello delle bevande
indiane tradizionali (nimbu pani, lassi, panna, sattu...) L'industria delle
bibite gassose utilizza sempre più lo sciroppo di mais ad alto tenore di
fruttosio. Non solo questo edulcorante è nefasto per la salute ma lo stesso
mais viene coltivato per produrre industrialmente alimenti per il bestiame.
Una grande quantità di mais viene quindi sottratta al consumo alimentare,
privando alla fine i poveri di un prodotto di base essenziale e a buon
mercato.
Per di più, la sostituzione di dolcificanti estratti dalla canna da
zucchero, come il gur e il khandsari, danneggia i contadini ai quali questi
prodotti garantivano redditi e mezzi di sussistenza.
In sintesi, la Coca Cola e la Pepsi-Cola provocano, sulla catena alimentare
e sull'economia, un impatto pesante che non si limita al contenuto delle
bottiglie.
Nel 2003, le autorità sanitarie del distretto hanno informato gli abitanti
di Plachimada che l'acqua, ormai inquinata, non poteva essere usata per
scopi alimentari. Le donne erano state le prime a denunciare questa
«pirateria idrica» nel corso di un dharna (sit-in) di fronte ai cancelli
della multinazionale.
Nato per iniziativa delle donne adivasi, il movimento ha attivato, non solo
a livello nazionale, ma mondiale, un crescendo di solidarietà.
Incalzato dall'espandersi del movimento e dalla siccità che ha ulteriormente
aggravato la crisi idrica, finalmente, il 17 febbraio 2004, il capo del
governo del Kerala ha ordinato la chiusura dello stabilimento della Coca
Cola. Le alleanze arcobaleno, nate inizialmente tra le donne della regione,
hanno finito con il coinvolgere tutto il panchayat.
Non solo, quello di Perumatty (nel Kerala), ha presentato, in nome del
pubblico interesse, un'istanza contro la multinazionale presso il tribunale
supremo del Kerala.
Il 16 dicembre 2003, il giudice Balakrishnana Nair ha ordinato alla Coca
Cola di smettere di pompare illegalmente dalla falda di Plachimada.
Le motivazioni della sentenza valgono quanto il verdetto stesso.
Il magistrato ha infatti voluto precisare: «La dottrina della pubblica
sicurezza si basa innanzi tutto sul principio per cui alcune risorse come
l'aria, l'acqua del mare, le foreste abbiano, per l'insieme della
popolazione, un'importanza così grande che sarebbe totalmente ingiustificato
farne oggetto di proprietà privata. Le suddette risorse sono un dono della
natura e dovrebbero essere messe a disposizione di tutti in modo gratuito,
indipendentemente dalla posizione sociale.
Poiché tale dottrina impone al governo di proteggere queste risorse, in modo
che l'insieme della collettività possa usufruirne, nessuno può autorizzarne
l'utilizzo da parte di privati o a fini commerciali [...]. Tutti i cittadini
senza eccezione sono i beneficiari delle coste, dei corsi d'acqua,
dell'aria, delle foreste, delle terre fragili da un punto di vista
ecologico. In quanto amministratore, lo stato, per legge, ha il dovere di
proteggere le risorse naturale [le quali] non possono essere trasferite alla
proprietà privata».
In sintesi: l'acqua è un bene pubblico. Lo stato e le sue diverse
amministrazioni hanno il dovere di proteggere le falde freatiche da uno
sfruttamento eccessivo, e la loro inazione in materia è una violazione al
diritto alla vita garantito dall'articolo 21 della Costituzione indiana. La
Corte suprema ha sempre affermato che il diritto di usufruire di un'acqua e
di un'aria non inquinate fa parte integrante del diritto alla vita stabilito
dal suddetto articolo.
In altre parole, anche in assenza di una legge che regoli specificamente
l'utilizzazione delle falde freatiche, il panchayat e lo stato sono tenuti
ad opporsi allo sfruttamento intensivo di queste riserve sotterranee.
E il diritto di proprietà della Coca Cola non si estende alle falde situate
sotto le terre che le appartengono. Nessuno ha il diritto di appropriarsi
della maggior parte dell'acqua, e il governo non ha alcun potere di
autorizzare un terzo privato ad estrarne tali quantità.
Da qui i due ordini emessi dal tribunale: entro un mese la Coca Cola dovrà
progressivamente smettere di pompare acqua per suo uso; passato questo
termine, il panchayat e lo stato garantiranno l'applicazione della sentenza.
La rivolta delle donne, che sono il cuore e l'anima del movimento, è stata
ripresa da giuristi, parlamentari, scienziati e scrittori...
Il movimento si è esteso ad altre regioni, dove la Coca e la Pepsi pompano
le riserve acquifere a danno degli abitanti. A Jaipur, la capitale del
Rajahstan, dopo l'apertura, nel 1999, dello stabilimento della Coca Cola, il
livello delle falde è passato da dodici metri di profondità a trentasette
metri e cinquanta. A Mehdiganj, una località a venti chilometri dalla città
santa di Varanasi (Bénarès), è sceso di dodici metri e i campi coltivati
attorno allo stabilimento sono ormai inquinati. A Singhchancher, un
villaggio del distretto di Ballia (nell'est dell'Utar Pradesh), lo
stabilimento della Coca Cola ha inquinato definitivamente acque e terre.
Ovunque la protesta si organizza.
Ma va sottolineato che, nella maggior parte dei casi, le autorità pubbliche
reagiscono con violenza alle manifestazioni. A Jaipur, per esempio, il
militante pacifista Siddharaj Dodda è stato arrestato nell'ottobre 2004 per
aver partecipato ad una marcia che chiedeva la chiusura dello stabilimento.
Catene umane intorno agli stabilimenti Al prosciugamento dei pozzi si
aggiungono i rischi di contaminazione da pesticidi. Il tribunale supremo del
Rajahstan ha proibito la vendita delle bibite prodotte da Coca e Pepsi,
perché queste ultime si sono rifiutate di fornire la lista dettagliata dei
componenti, quando alcune analisi hanno dimostrato la presenza di pesticidi
pericolosi per la salute (4). Le due multinazionali hanno presentato ricorso
alla Corte suprema dell'India, ma questa ha rifiutato l'appello e ha
convalidato la richiesta del tribunale del Rajahstan, ordinando la
pubblicazione della composizione precisa dei prodotti fabbricati dalla Pepsi
e dalla Coca. A tutt'oggi, queste bevande sono proibite nella regione.
Uno studio, condotto nel 1999 da All India Coordinated Research Project on
Pesticide Residue (Aicrp), ha dimostrato che il 60% dei prodotti alimentari
venduti sul mercato è contaminato da pesticidi e che il 14% ne contiene dosi
superiori alla quantità massima autorizzata.
Una tale constatazione rimette in discussione il mito secondo cui le
multinazionali privilegerebbero la sicurezza e l'affidabilità, il che le
renderebbe degne di una fiducia rifiutata al settore pubblico e alle
autorità locali! Questo pregiudizio elitario contro l'amministrazione
pubblica di beni e servizi ha contribuito a fare accettare la
privatizzazione dell'acqua. In India, come altrove nel mondo, il ricorso ai
privati impedisce di fornire acqua di qualità a un prezzo abbordabile.
Il 20 gennaio 2005, in tutta l'India, attorno agli stabilimento della Coca
Cola e della Pepsi-Cola, sono state organizzate delle catene umane.
Tribunali popolari hanno notificato agli «idro-pirati» l'ordine di lasciare
il paese. Il caso di Plachimada dimostra che il potere del popolo può avere
la meglio su quello delle imprese private. I movimenti per la difesa delle
acque, peraltro, si spingono ben oltre.
Vogliono parlare anche delle dighe, e del grande progetto di collegamento
fluviale i cui piani, che prevedono la deviazione del corso di tutti i fiumi
della penisola indiana, suscitano un'opposizione crescente (5). Denunciano
le privatizzazioni incentivate dalla Banca mondiale e la privatizzazione
della fornitura di acqua a Delhi (6). Bisogna infatti sottolineare che il
saccheggio non potrebbe aver luogo senza l'aiuto di stati centralizzatori e
corporativi.
La battaglia contro il furto dell'acqua non riguarda solo l'India.
L'eccessivo sfruttamento delle falde freatiche, i grandi progetti di
deviazione dei corsi d'acqua pregiudicano la conservazione della Terra nel
suo complesso. Per avere un'idea della posta in gioco, bisogna sapere che se
ogni punto del pianeta ricevesse la stessa quantità di precipitazioni, con
la stessa frequenza e secondo lo stesso schema, ovunque troveremmo le stesse
piante e le stesse specie animali. Il pianeta è fatto di diversità. Il ciclo
idrologico dei pianeti è una democrazia dell'acqua - un sistema di
distribuzione al servizio di tutte le specie viventi. Dove non c'è
democrazia dell'acqua, non ci può essere vita democratica.
note:
(1) Virenda Kumar, «lettera aperta al capo del governo», Mathrubhumi,
Thiruvananthapuram (Kerala), 10 marzo 2003.
(2) NdT: il termine Adivasi designa le tribù autoctone nelle quali non
esiste un sistema di caste.
(3) Il consiglio che esercita l'autorità nel villaggio.
VANDANA SHIVA
(4) Le bevande contenevano diversi pesticidi tra i quali il Ddt.
La commissione del governo ha concluso che questi residui erano «nei limiti
normativi» accettati in India... Nelle bottiglie di Coca o di Pepsi
consumate negli Stati uniti o in Europa non si trova alcuna traccia di
pesticidi.
(5) Arundhati Roy, The Cost of Living, Modern Library, 1999.
(6) Per il ritrattamento delle acque, il cantiere è stato affidato a
Degremont, filiale del gruppo Suez. A Delhi, negli ultimi anni il prezzo
dell'acqua è aumentato di dieci volte.
(Traduzione di G. P.)
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