rassegna stampa: La Fao- crescono gli affamati del mondo, e la denutrizione uccide 5 milioni di bambini



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traatto da "L'Unità" -09/12/04
La Fao: crescono gli affamati del mondo, e la denutrizione uccide 5 milioni
di bambini
Correva l'anno 1996, terrorismo e teoria della «guerra preventiva» erano in
gestazione, ma non erano ancora diventati una realtà di tutti i giorni.
Decine di capi di stato e di governo, animati da un ingiustificato
ottimismo, lanciarono un obiettivo che oggi appare un clamoroso fiasco:
dimezzare gli affamati del pianeta entro il 2015. Oggi, otto anni dopo,
undici anni prima del presunto traguardo, si viene a sapere che la folla di
coloro che rischiano la morte per fame si è ingrossata. Solo negli ultimi
anni, tra il 2000 ed il 2002, altri 18 milioni di abitanti del pianeta sono
stati esclusi e relegati tra gli affamati. Milioni di bambini muoiono di
fame, uno ogni cinque secondi, 5 milioni in un solo anno, 20 milioni di
neonati nascono sottopeso. Presentando ieri a Roma il rapporto 2004 sulla
situazione mondiale dell'insicurezza alimentare, i dirigenti della Fao,
hanno dovuto allargare le braccia quando alcuni cronisti presenti hanno
chiesto perché, ancora una volta, quando si tocca il tasto della fame e
dello sviluppo, non c'è da essere ottimisti. «La colpa non è tutta della
Fao - ha ribattuto Hartwig de Haen, vice-direttore generale del dipartimento
economico dell'agenzia dell'Onu - noi non siamo un governo mondiale, né un
ministero, offriamo consulenze».

Ma, tra le righe del rapporto, si può leggere un dato che fotografa la
situazione mondiale ed è la riprova del fatto che solo paesi che hanno
saputo o stanno tentando di risolvere crisi o conflitti riescono ad
invertire la marcia, mentre altri, travolti dalla guerra, stanno
sprofondando. Il dato complessivo è altamente negativo: dall'inizio degli
anni novanta vi è stato un modesto calo degli affamati (9 milioni in meno
nei primi anni) ma la tendenza si è successivamente invertita e dall'inizio
dei nuovo millennio ed oggi 852 milioni di persone soffrono la fame.

Non vi è stato dunque alcun progresso significativo né alcun passo in avanti
in direzione dell'obiettivo fissato nel summit romano del 1996 e le
strategie di lotta alla fame si trovano oggi di fronte ad un drammatico
fallimento. In questo quadro sconfortante occorre tuttavia individuare all'
interno dei continenti meno coinvolti dalla globalizzazione, le aree dove la
sofferenza è maggiore ed altre nelle quali lo sviluppo ha mosso
significativi passi, al prezzo tuttavia di migliaia di morti sul lavoro e di
gravi limitazioni nei diritti individuali. In Africa vanno in
controtendenza, hanno cioè ridotto del 25% gli affamati nel corso degli anni
'90, questi paesi: Angola, Benin, Ciad, Repubblica del Congo, Ghana e
Guinea, Lesotho, Malawi, Mauritania, Mozambico, Namibia. Alcuni, come il
Mozambico e l'Angola, sono ex colonie portoghesi uscite da decennali
conflitti tra opposte fazioni, altri, come il Congo, sono ancora sospesi sul
baratro della guerra, ma dispongono di immense risorse naturali e riescono a
produrre ricchezza.

In Asia, tra i paesi che la Fao include nella lista dei 30 che si avviano a
superare la fame, vi sono Cina, Indonesia, Myanmar, Thailandia e Vietnam,
affiancati da alcuni paesi arabi (Siria ed Emirati) che registrano progressi
in campo sociale. Nell'America centrale e meridionale la Fao indica Cile,
Ecuador, Guyana, Uruguay e Haiti tra i paesi che hanno ridotto il numero
delle persona affamate.

Nel complesso tuttavia la tendenza è negativa, ampie regioni dell'Africa,
una parte dell'Asia e dell'America del sud sono escluse dallo sviluppo. La
Fao mette anche l'accento sul fatto che la lotta alla fame, assorbendo
consistenti risorse, riduce i budget a disposizione dei soggetti che si
battono contro le altre emergenze del pianeta, come ad esempio la lotta alla
diffusione dell'Aids, della tubercolosi e della malaria. L'agenzia dell'Onu
calcola in 30 milioni di dollari i «costi diretti» della lotta contro la
fame, molto di più (cinque volte) di quanto si spenda per combattere gravi
emergenze sanitarie. Nel mondo dunque si spende poco e male per ridurre il
numero degli affamati, la Fao ricorda infatti che ogni dollaro investito
dovrebbe produrre 5-20 volte tanto in termini di utili, ma ciò non accade.
Le cause sono certo molto complesse; leggendo il rapporto dell'agenzia dell'
Onu per il cibo e l'agricoltura, si coglie un filo che lega le diverse
valutazioni: sono stati premiati e aiutati maggiormente quei paesi dell'
emisfero sud che, pur tra crisi e difficoltà, hanno raggiunto un certo
livello di stabilità, mentre vengono condannati all'emarginazione quelle
realtà che non riescono ad emanciparsi dalla guerra. La genericità e la
vaghezza di alcune formule contenute nella relazione ed esposte ieri a Roma
(«dare priorità ad azioni che abbiano un impatto immediato») rivelano che
certi obiettivi irrealistici, come quelli del summit del 1996, finiscono per
produrre solo illusioni che suonano come una tragica beffa di fronte ai
problemi del pianeta.
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08.12.2004
«La guerra è un ostacolo alla lotta contro la fame»
di Toni Fontana

 ROMA «La lotta alla fame non ha prodotto i risultati sperati perché il
mondo ha vissuto dei "traumi", crisi interne e conflitti tra stati
allontanano lo sviluppo, mentre i paesi, come il Mozambico, che godono di
una relativa stabilità hanno compiuto passi in avanti». E' l'opinione dell'
ambasciatore Manfredo Incisa di Camerana, vice direttore della Fao.
Ambasciatore, ancora una volta i dati che la Fao diffonde, dimostrano che
solo una piccola parte del pianeta si sta emancipando dalla schiavitù della
fame, mentre ampie parti del mondo, in special modo in Africa, non riescono
a sollevarsi.
«Non vi è stato il cambiamento auspicato anche perché la situazione mondiale
ha registrato "traumi" che causano instabilità e, di conseguenza, la povertà
continua a persistere e, in certi casi, ad estendersi. La Fao fotografa una
situazione che, da un lato, presenta aspetti positivi; alcuni paesi
registrano concreti progressi. Tra questi si possono citare Mozambico,
Angola, Benin, Brasile, Ciad, Cile, Cina ed altri. Nei paesi che godono di
una relativa stabilità politica e sociale è stato possibile portare avanti
programmi a largo raggio soprattutto per quanto riguarda l'agricoltura. Dove
c'è stabilità c'è progresso».
Quali sono invece "i traumi" ai quali si riferisce?
«Vi sono situazioni di crisi e conflitti che condizionano negativamente lo
sviluppo. Noi non entriamo nel dibattito politico, ma sappiamo quali sono
gli ostacoli. Abbiamo constatato che nelle aree interessate da situazioni di
conflitto sono aumentate la povertà e la fame. Mi riferisco a crisi interne
o tra stati. L'altro elemento che ha influito negativamente sono stati i
disastri naturali che accentuano la fragilità di alcuni paesi».
E' possibile indicare le aree di maggiore sofferenza del pianeta?
«Si tratta delle realtà maggiormente interessate dalle crisi, come quella
dei Grandi Laghi africani, e poi la Somalia, la Costa d'Avorio. Ma, al tempo
stesso, alcuni paesi africani registrano significativi progressi, la fasce
di povertà sono state ridotte grazie appunto alla stabilità. Il Mozambico ad
esempio è un paese pacificato, e, pur avendo enormi problemi, anche grazie
alla gestione seria da parte del governo ed ad una cooperazione
internazionale intelligente, sta creando le basi per un vero sviluppo.
Questo è l'esempio che noi vorremmo estendere ad altre realtà».
Il fatto che i risultati nella lotta alla fame non siano soddisfacenti è
dovuto anche alla scarsa generosità dei paesi ricchi?
«A livello internazionale è in atto una riflessione sulla strategia d'
intervento per lo sviluppo. Dopo decenni di interventi caratterizzati da
importanti flussi finanziari e di risorse, abbiamo constatato che i
risultati non coincidevano con gli obiettivi che ci eravamo preposti. Questa
riflessione coinvolge tutto il sistema delle Nazioni Unite. Si è deciso di
rivedere le strategie e di adattare alle realtà. Il Nepad (programma
partenariato tra Africa e paesi sviluppati, ndr) è diventato un elemento
quasi rivoluzionario in quanto sono i paesi africani che hanno preso
coscienza della necessità di fissare nelle loro politiche nazionali, come
priorità assoluta, lo sviluppo. In tal sono diventati i primi responsabili e
la comunità dei donatori ha reagito in modo positivo offrendo aiuto ai
programmi nazionali».
In tal modo si evita che gli aiuti finiscano nelle mani di dirigenti
corrotti?
«Credo di sì, ma come dicevo, la questione essenziale è quella della
stabilità. E poi occorre considerare l'impegno della Ong che noi riteniamo
un attore essenziale. Le Organizzazioni non governative sono per noi un
interlocutore essenziale e nei nostri programmi c'è un posto rilevante per
loro per discutere con il paese beneficiante le forme migliori per rendere
efficace gli'interventi».

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