rassegna stampa: "PRODOTTI TIPICI? LA GDO VUOLE SOLO FOLKLORE"



a cura di AltrAgricoltura Nord Est
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tratto da "La Sicilia"  1 dicembre 2004
"PRODOTTI TIPICI? LA GDO VUOLE SOLO FOLKLORE"
Difficile rapporto con la grande distribuzione. «Negli scaffali merce da
Spagna, Grecia, Marocco, Egitto e Turchia. I nostri prodotti relegati
nell'angolo».
Bronte.  Un giro più o meno veloce tra pianura e montagna, tra Piana e Etna.
Un giro che basta a farsi più che un'idea del perché puoi produrre tutto il
buono del mondo e non lo troverai che raramente sui banconi dei
supermercati.
Qui come a Treviso, a Catania come a Torino. Perché son cose troppo buone,
verrebbe voglia di dire senza esagerare, e produrle costa. Per finire su
quei benedetti banconi, che rappresentano il finale della filiera
commerciale «dal produttore al consumatore», tante cose dovrebbero accadere,
alcuni miracoli, il trionfo del gusto, di una nuova economia in cui i costi
non penalizzino la qualità.
Perché se va avanti così si rischia di diventar matti come questo saggio e
simpatico signore di Bronte, Giuseppe Anastasi, che dal '72 ha messo in
piedi un'azienda che produce un pistacchio straordinario.
Dietro a cui, appunto, si diventa matti.
«Perché continuo a battermi per commercializzarlo e venderlo - attacca
diretto Anastasi - ma è sempre più difficile. E' vero, non si trova nei
supermercati, perchè i grandi distributori lo cercano solo per le occasioni
folkloristiche. Il mese del prodotto siciliano: ed ecco che spunta il
pistacchio. Poi più nulla».
Si dispera Anastasi, perché per tutto il resto dell'anno il pistacchio che
troviamo sui banconi viene dal lontano Iran. Dalla Turchia.
Perché?
«Perché il nostro, alla fine, costa al chilo 12.50 euro, cui bisogna
aggiungere i costi di confezionamento, mentre quello iraniano sgusciato si
ferma a 7.50 euro, quello turco al massimo arriva a 10».
Così il pistacchio è in crisi.
Perché non finisce nelle mani del piccolo consumatore, ma nemmeno lo cercano
più i produttori di affettati. Nella mortadella c'è pistacchio iraniano.
E nei gelati?
La stessa cosa. Forse meno buono, sicuramente più economico.
Del resto una giornata di lavoro di un operaio del pistacchio da noi costa
una quarantina di euro.
In Turchia non arriva a 5. Ma c'è qualcosa di più curioso.
«Sono venuti da me alcuni produttori iraniani - racconta Anastasi - e mi
hanno detto che con un milione riescono a pagare un'intera famiglia che
lavora per loro. Un milione l'anno».
Da piangere. Così Anastasi si consola rileggendo l'e-mail della signora di
Genova che chiede d'aver inviati 200 grammi di pistacchio, «se è davvero un
afrodisiaco». O quella di una principessa di Capri, che ne ha bisogno «per
preparare dolci speciali per un party».
E se il pistacchio va male, il Pecorino "pipato" non sta meglio. Pur essendo
altrettanto originale e unico, buono e irripetibile.
Giuseppe Arcidiacono, produttore di Mascali con la sua famiglia, spiega a
malincuore.
«Il nostro pecorino è troppo prodotto di nicchia per finire sui banconi dei
supermercati. In un anno ne produciamo 10 mila chili, ma il problema non è
la quantità. Noi lo vendiamo a 7.70 euro al chilo, dopo averlo comprato dal
produttore a 4,00/4,50. Nel frattempo paghiamo il costo di 8 mesi di
stagionatura, un calo-peso del 20%. Così diventa antieconomico cercare di
entrare nella grande distribuzione, ai prezzi che vorrebbero queste catene.
Ci appoggiamo alla piccola distribuzione, salumerie che cercano anche la
qualità».
Qualità, qualità.
Della frutta.
Ti sposti di pochi chilometri in linea d'aria, e trovi a Zafferana l'azienda
di Santo Coco che produce Mele Cola e Gelato Cola in contrada Cassone. Tutta
roba genuina, per di più biologica.
«Non è una produzione elevata - si rammarica Coco - anche perché ormai
operiamo su modesti appezzamenti che non danno molto reddito. Ed è pure
difficile trovare manodopera da queste parti. La concorrenza maggiore ce la
fa il Trentino, ovviamente, ma è roba diversa, trattata e irrigata in modo
differente. Solo che loro stanno nei circuiti grandi di vendita, noi non ci
possiamo arrivare».
Non ci arriva il pistacchio.
Non ci arriva il pecorino.
E nemmeno i «puma» dell'Etna. E va bene, diciamo.
Ma gli agrumi? Niente.
E perché? Da quattro anni stanno cercando di dare una risposta a questo
interrogativo dal Consorzio Euroagrumi di Biancavilla.
«Siamo attaccati - spiega Salvatore Rapisarda, presidente del Consorzio -
dalle produzioni di Spagna, Grecia, Marocco, Egitto. E dai cinesi, che sono
diventati i secondi produttori mondiali, superati gli Usa e vicini ai
brasiliani. Vanno tutti meglio di noi, ormai. L'Ue controlla poco la
provenienza di certe arance spagnole (i siciliani dicono che «troppe che
hablano espanol» verrebbero da Uruguay, Argentina e Algeria), ma stiamo
indietro anche ai prodotti spagnoli ufficiali, perché lì si versa il 50% in
meno di tasse rispetto all'Italia».
Così Euroagrumi ha creato un suo piccolo canale distributivo.
«Si tratta di piccolissimi punti vendita localizzati nel nord-est, tra
Emilia, Veneto e Trentino. Lì esiste il rapporto diretto
produttore-consumatore. E i prezzi sono quelli giusti. Ma è un'iniziativa
che non può da sola risolvere nemmeno una piccola parte del problema.
Dobbiamo batterci ed imporre questa linea. Trasparenza nei prezzi e basta
super provvigioni ai mediatori. Ma c'è un altro problema sempre più grave:
se la grande distribuzione, infatti, batterà sempre più, come sta facendo,
la pista dell'acquisto all'asta ai prezzi più bassi, allora per noi sarà
davvero notte fonda».
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