[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
rassegna stampa: Mister Granarolo e la nuova guerra del latte
- Subject: rassegna stampa: Mister Granarolo e la nuova guerra del latte
- From: "Altragricoltura" <altragrico at italytrading.com>
- Date: Thu, 6 May 2004 11:57:58 +0200
Neanche le aziende agroalimentari nate dalle costole del movimento cooperativo emiliano sfuggono alla logica della concentrazone dei marchi, del gigantismo produttivo, dell'entrata nei giochi di borsa, il tutto giustificato dalla necessità di competere con le multinazionali del settore. E' il caso di Granarolo che approfittando dei crack Parmalat, Cirio, Yomo cerca di posizionarsi al meglio sul mercato nazionale ed internazionale. Granarolo diventa la testa di ponte sul mercato agroalimentare di una cordata di industriali e politici, un aggregato finanziario che parte dal Monte dei Paschi di Siena e passa per Coop e Unipol, con figure come Bersani e Colannino che determinano le strategie della scalata a questo mercato in piena ridefinizione. E' curioso che tutto questo lavorio passi sotto il naso dell'antitrust senza che mai venga rilevato un eccesso di concentrazione, forse è vero il detto che non bisogna disturbare il manovratore quando guida.... e a cura di AltrAgricoltura Nord Est ----------------------------------- tratto da "Panorama" - 16/4/2004 Ecce Yomo, Mister Granarolo e la nuova guerra del latte di Angelo Pergolini Dopo il crac Cirio e il disastro Parmalat, esplode la crisi dello yogurt più famoso d'Italia. Che il presidente della cooperativa emiliana vuole mangiarsi senza spendere un euro. Per competere con le multinazionali del settore a fianco di un nuovo socio: la Banca Intesa. Granarolo nell'Emilia è un paesotto alle porte di Bologna. Ed è probabilmente l'unico posto al mondo in cui i consulenti della McKinsey discutono di strategie industriali sotto una foto di Valentina Tereshkova, prima cosmonauta donna che nel 1963 girò per tre giorni intorno alla Terra dentro una capsula Vostok, e ancora oggi esibisce con fierezza, dalla parete di una sala riunioni, la medaglia di eroe dell'Unione Sovietica e una bottiglia di latte. E agli gnomi della Mediobanca non capita certo da nessun'altra parte di mettere a punto architetture finanziarie davanti a un ritratto di Luigi Longo, successore di Palmiro Togliatti alla guida del Pci nell'agosto del 1964, che osserva un po' perplesso un cartone di latte. Tutto questo può succedere solo a Granarolo nell'Emilia. E più precisamente nella sede della Granarolo spa, azienda che un imprevedibile cocktail di tradizione rossa cooperativa, alta finanza e managerialità internazionale ha fatto diventare il quarto gruppo italiano nel settore alimentare. E che ora si appresta, grazie al sostegno della Mediobanca e all'ausilio della McKinsey, a saltare l'asticella del miliardo tondo di fatturato. Come? Con l'acquisto della Yomo, regina in disgrazia dello yogurt, dai conti drammaticamente in rosso ma titolare di un nome che può valere una fortuna. Perché otto italiani su dieci, secondo una recentissima ricerca, alla richiesta di associare un marchio alla parola yogurt rispondono «Yomo». «Un brand ancora straordinariamente forte, nonostante che l'azienda abbia perso grandissime quote di mercato» commenta Luciano Sita, presidente della Granarolo. L'operazione Yomo (se andrà in porto, perché potrebbero ancora entrare in gioco variabili tanto rilevanti quanto imprevedibili) cade in un momento in cui l'intero settore italiano dell'agroalimentare è in subbuglio. A fare da detonatore, a mettere in agitazione tutto il mercato, sono stati due elementi. Da un lato l'ingresso in campo di gruppi stranieri che dispongono di risorse liquide importanti, come per esempio i francesi Lactalis e Danone o la tedesca Müller. Dall'altro, il crac di due campioni nazionali del calibro di Cirio e Parmalat. «Due vicende poco edificanti» dice Sita «ma il vero problema è la dimensione delle nostre imprese. Poche sono abbastanza grandi per guardare al futuro e per competere a livello internazionale». Alla Granarolo dal 1992, convinto che la questione della «massa critica» sia un fattore essenziale per sopravvivere e competere, forte di una «redditività sicuramente dignitosa», Sita ha perseguito con costanza una politica di diversificazione e acquisizioni. Fino ad inquadrare nel mirino un marchio storico come la Yomo. In realtà, il cammino della coperativa emiliana numero uno in Italia nel latte fresco, e quello dell'azienda lombarda posseduta dalla famiglia Vesely, si erano già incrociati altre tre volte. La prima fu fra il 1993 e il 1994. Sul piatto c'era la privatizzazione della Sme. La banca d'affari Goldman Sachs mise a punto un progetto per la creazione di un grande polo italiano nel settore alimentare. «Noi eravamo interessati. Proposi alla Yomo un'alleanza» ricorda Sita. «Prima mi dissero che era una bell'idea. Poi che bisognava pensarci bene. Alla fine non se ne fece niente». All'epoca la Granarolo era ancora poca cosa. Yomo invece era una tra le aziende più corteggiate: «Aveva il 32 per cento del mercato dello yogurt, una quota enorme, e i margini allora erano elevatissimi». Insomma, era una fabbrica di soldi. Il secondo appuntamento fu alla fine degli anni Novanta: «L'Arthur Andersenn aveva fatto uno studio sulla razionalizzazione logistica. Il succo era: se Granarolo e Yomo avessero creato una joint venture in questo settore, ne avrebbero tratto formidabili vantaggi». E come andò? «Come la prima volta» dice Sita «Sottoposi il progetto alla famiglia Vesely, di decise che valeva la pena di studiare a fondo la questione. E non si concluse niente». Dopo i due tentativi, falliti, di fidanzamento, Yomo e Granarolo si trovarono nuovamente di fronte tre anni fa. Ma questa volta da avversari. In ballo c'era la privatizzazione della Centrale del latte di Milano. I bolognesi spararono un'offerta iniziale di 80 miliardi di vecchie lire. «Ma in consiglio» rivela Sita «avevamo deciso che si poteva arrivare fino a 100». Contavano di chiudere senza problemi. Inaspettatamente, all'asta si presentò anche la Yomo, che iniziò una serie di rilanci forte di una fidejussione da 160 miliardi concessa da Banca Intesa. «Alla fine la spuntammo: ma dovemmo pagare ben 128 miliardi». Un salasso che a Sita sta ancora sul gozzo: «Sì, è passato troppo poco tempo. E sono ancora arrabbatissimo». Per la Yomo, quella partita persa fu l'inizio della fine. Nel settore dello yogurt subiva l'attacco di concorrenti fortissimi come Danone e Muller: all'inizio del 2002 la quota di mercato era ormai ridotta dal 32 al 17 per cento. Dodici mesi dopo era scesa al 14. Alla fine del 2003 era pari ad appena l'11 per cento. E con le quote di mercato franavano i conti. «Negli ultimi tre anni la Yomo ha bruciato 50 milioni di euro, 20 nel solo 2003». Nel frattempo l'indebitamento del gruppo era arrivato a circa 150 milioni di euro. E la famiglia, per tentare di mantenere il controllo dell'azienda, era stata costretta a cedere in pegno a Banca Intesa il 96 per cento delle azioni in cambio di un ulteriore finanziamento di 20 milioni. Mentre la Yomo si avvitava nella crisi, Granarolo metteva a punto su suggerimento della Mc Kinsey un progetto per entrare in forze nel mercato dello yogurt: 100 milioni d'investimento in tre anni per raggiungere una quota del 12 per cento del settore. Ma quando la famiglia Vesely s'è trovata davanti a un bivio secco, concordato o fallimento, Granarolo ha fatto rotta per la quarta volta verso la Yomo. E ha rivisto, sempre con l'ausilio di Mc Kinsey, i suoi programmi. Il piano è tecnicamente molto complicato. La sostanza semplice. Tramite una cosiddetta newco, o società veicolo, denominata Yogolat, la Granarolo garantirà il concordato della Yomo, assicurando il pagamento al 100 per cento dei crediti prilegiati (ad esempio quelli dei fornitori di latte) e al 40 per cento dei cosiddetti chirografari (come le banche). Se la proposta di concordato verrà accettata dal tribunale competente (quello di Pavia) la Granarolo prenderà in affitto gli stabilimenti della Yomo. E al termine della procedura concluderà l'acquisto. Quanto costerà l'operazione Yomo? «Mah» sospira Sita «è difficile dirlo adesso. Diciamo che l'impegno sarà fra i 60 e gli 80 milioni di euro». Che Granarolo in cassa non ha. Sceglierà la via del debito? «Assolutamente no. Ci teniamo a mantenere un buon rapporto fra debito e patrimonio». E allora? «Questo è uno dei segreti dell'operazione» commenta sornione il presidente della Granarolo. In pratica succederà questo: i quattrini necessari verranno da un aumento di capitale della società emiliana che verrà sottoscritto da Banca Intesa. In questo modo Granarolo otterà il controllo della Yomo «senza sborsare un euro o quasi». mentre la banca guidata da Corrado Passera, che è esposta complessivamente per 55 milioni di euro nei confronti della Yomo, si troverà in portafoglio il 17-20 per cento della Granarolo al posto del 96 per cento della Yomo. Un pacco di azioni che, in caso di fallimento, avrebbe dovuto buttare nel cestino. «Una operazione splendida dal punto di vista finanziario» dice Sita stropicciandosi le mani. Già. Ma dal punto di vista industriale come se ne esce?«Il nostro piano prevede il raggiungimento del pareggio entro tre anni. E per quanto riguarda i mezzi finanziari per la ristrutturazione della Yomo, noi avevamo già previsto di spendere 100 milioni per entrare nel settore dello yogurt. Dunque...». Valentina Tereschkova, dalla foto, approva. --------------------------------------------------------------- SETTEMILA NANI CONTRO GLI STRANIERI In mano alle multinazionali estere già 131 marchi del made in Italy, alcuni settori strategici e una buona fetta della distribuzione L'industria alimentare italiana è molto grande (fattura 103 miliardi di euro) ma è estremamente polverizzata: ne fanno parte oltre 7 mila aziende. Risultato? Un'inesorabile avanzata dei gruppi stranieri che hanno dimensioni e forza per acquistare le aziende italiane. Come rivela un'indagine svolta dalla società di consulenza Icm Advisors, la presenza delle società estere è già molto consistente nella grande distribuzione: le catene francesi Auchan e Carrefour e i tedeschi della Metro insidiano Coop, Esselunga, Conad. E questo rischia di penalizzare i produttori locali a vantaggio delle multinazionali. Oggi i marchi italiani controllati da aziende straniere sono almeno 11, tra cui molti nomi storici: Surgela, Algida, Locatelli, Invernizzi, Levissima, Recoaro, Fiuggi, Ferrarelle. In alcuni settori la presenza degli stranieri è fortissima: come nei surgelati (valore complessivo di 1,9 miliardi di euro), dove i gruppi esteri hanno ormai una quota del 65 per cento; nei gelati (1 miliardo di valore) con il 68 per cento; nelle bevande analcoliche (2 miliardi), con il 70 per cento; nella birra (1,1 miliardi), con il 60 per cento. Non sono messi meglio i settori formaggi (2,2 miliardi) e acque minerali (1,3 miliardi), dove gruppi esteri controllano, rispettivamente, il 60 e il 54 per cento del mercato. A questo fenomeno si aggiunge il problema della contraffazione dei marchi made in Italy, che vale almeno 2,6 miliardi di euro. ------------------------------------------- N.B. se volete essere cancellati da questa lista scrivete a altragricoltura at italytrading.com
- Prev by Date: rating etico fondi banca popolare etica
- Next by Date: R: No sponsor multinazionali
- Previous by thread: rating etico fondi banca popolare etica
- Next by thread: R: No sponsor multinazionali
- Indice: