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Lettera di padre Zanotelli al commercio equo
LETTERA DI PADRE ZANOTELLI AL COMMERCIO EQUO
lunedì 18 novembre 2002
Verona 11/11/2002
Carissimi jambo!
E' da tempo che volevo condividere con voi la mia riflessione sul
commercio equo e solidale, che nasce da lontano, da quando, agli inizi
degli anni ' 90, avevo inviato una lettera aperta a tutti voi a questo
riguardo. Nasce anche dal confronto serrato e prolungato negli anni con
Transfair, che ha portato alla richiesta di togliere il mio nome da
quella organizzazione; una decisone, questa, che ha molto offeso
Transfair, i cui dirigenti sostengono che alcune centrali di importazione
non si comportano in maniera molto differente da loro. Nasce infine da
lunghe ed appassionate conversazioni con tanti responsabili del commercio
equo, nonché dalla mia esperienza diretta con lo stesso a
Korogocho.
Tutto questo mi ha portato a maturare una serie di riflessioni.
Noi parliamo di commercio equo, ma siamo proprio sicuri che i nostri
prezzi siano equi? I produttori di Korogocho, per esempio, guadagnano il
minimo per poter sopravvivere. Eppure so che è stato chiesto alla
cooperativa Bega Kwa Bega di Korogocho di abbassare i prezzi. Vogliamo
ridurli a prezzi da fame?
Lo stesso presidente di CTM, al suo passaggio a Korogocho, si è sentito
rivolgere queste medesime domande, che ha inserito nella sua lettera
"Dov'è il commercio equo e solidale". Sono domande che rivolgo
a tutti voi.
Per questo mi preoccupa che il commercio equo stia lentamente entrando
nei parametri del mercato (scelta di edifici costosi e/o di grande
visibilità, consulenze di marketing etc.). Non si rischia così di entrare
nel giro del business a spese dei più poveri del pianeta? Non si rischia
anche di marginalizzare il grande perno del volontariato?
Dopo 12 anni vissuti a Korogocho, emblema di un continente
"sbolognato" e violentato, mi domando se anche il commercio
equo stia mettendo l'Africa in disparte a favore degli altri continenti.
Forse perché è più difficile >lavorare con l'Africa? O è solo
un'impressione mia?
Questo mi porta ad una altra domanda: il commercio equo è veramente in
appoggio alle strutture più povere? State almeno sostenendo seriamente
quei progetti in ambienti molto difficili, ma che proprio per questo ne
avrebbero ancor più bisogno?
La mia impressione è che questo non avvenga.
E siamo sicuri che il sostegno finanziario dato ai progetti vada
veramente a loro favore?
E la scelta fatta da alcune botteghe e centrali di entrare nella grande
distribuzione è la via migliore per aiutare i poveri? E se fosse invece
un' altra maniera con cui il mercato cerca di cooptare questa perla che è
il commercio equo e solidale?
Ho paura che il commercio equo abbia finito di sognare e di pensare alla
grande.
Ogni bottega, oltre che vendere, dovrebbe essere un luogo di ritrovo, di
riflessione, di analisi, di cambiamento di stili di vita. Dovrebbe
recuperare il senso della comunità, del far festa, dell'interculturalità,
del danzare la vita. Dovrebbe essere un luogo di resistenza al sistema.
Per questo ritengo fondamentale la riflessione di S. Latouche quando
afferma che "il pericolo della maggior parte delle iniziative
alternative volontarie infatti è quello di rinchiudersi nella fortezza
che ha permesso loro di nascere e di svilupparsi". La conseguenza di
questo è che "riuscire ad imporre i prodotti del commercio equo
negli scaffali dei supermercati a fianco dei prodotti non equi non è un
obiettivo in sé e va iscritto più in una strategia di fortezza.. E' più
importante assicurarsi del carattere equo della totalità del processo dal
trasporto alla commercializzazione, cosa che esclude in prima battuta il
supermercato ed allarga il tessuto organizzativo". Sono parole dure
di Latouche, ma non meno duro è il nostro Tonino Perna:
"La sfida del commercio equo consiste non nel far entrare nel
circuito della moda i prodotti del Sud del mondo ma far diventare un
bisogno la scelta etica del consumatore. Ciò significa che è necessario
pensare più in termini di innovazione sociale che di innovazione di
prodotto".
Per questo ritengo fondamentale che il commercio equo trovi la capacità
di uscire dai propri circuiti e fare rete con quelle realtà locali che
tentano la creazione di spazi economici locali con mercati locali,
orientati al bisogno, sostenibili dal versante ecologico e che promuovono
il lavoro. Per questo l'eccessivo strutturarsi del commercio equo
potrebbe ucciderlo come movimento. Ritengo infatti importante
sottolineare che il commercio equo non è una catena commerciale, né una
associazione (men che meno una mega associazione) ma un movimento
popolare. Guai a noi se tradiamo questa intuizione originale!!!
"Si tratta dunque - afferma di nuovo Serge Latouche - di coordinare
la protesta sociale con la protesta ecologica, con la solidarietà verso
gli esclusi del nord e del sud con tutte le iniziative associative per
articolare resistenza e dissidenza. E per sboccare alla fine in una
società autonoma. E' così che all'inverso di Penelope si ritesse di notte
il tessuto sociale che la mondializzazione disfa durante il
giorno."
Dopo quelle splendide giornate di Firenze, queste parole diventano ancora
più pregnanti.
Il commercio equo e solidale è una perla preziosa. Non buttiamola via!
Buon lavoro!
Sijambo.
Alex
(fonte Unimondo http://www.unimondo.org/)