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Le dichiarazioni etiche delle multinazionali non servono ariscattare la globalizzazione selvaggia. Duecento aziende in tutta Europarispondono allo sfruttamento del Sud del mondo con il commercio equo esolidale



Ufficio stampa TransFair Italia
Benedetta Frare
Tel. 348.8243386



COMUNICATO STAMPA



Le dichiarazioni etiche delle multinazionali non servono a riscattare la
globalizzazione selvaggia. Duecento aziende in tutta Europa rispondono allo
sfruttamento del Sud del mondo con il commercio equo e solidale

In occasione del G8, accanto alle notizie sui presunti "terroristi" del
popolo di Seattle, si moltiplicano gli articoli, direttamente o
indirettamente riferiti ai comportamenti della multinazionali: che in
quest'ultimo periodo si stanno prodigando nella sottoscrizione di codici di
condotta, indici e parametri "etici", di controllo fornitori o di riduzione
dell'impatto ambientale. Aziende che dicono di voler inseguire anche lo
sviluppo sociale perché offrono in beneficenza parte degli utili. L'ultimo,
il servizio che un quotidiano italiano ha dedicato a una multinazionale
convertita al sociale, la cui nuova mission è diventata: "vogliamo creare
il benessere di tutti i consumatori, sia del Nord che del Sud del mondo".
Peccato che, in questi servizi sulle multinazionali buone (guarda caso,
proprio in vista del G8 e delle manifestazioni dei movimenti che si battono
contro le distorsioni della globalizzazione), manchi un elemento
fondamentale che, probabilmente, in questa bufera di buonismo, viene
inevitabilmente a perdersi. In questi articoli infatti, l'accento viene
posto sul prodotto (queste aziende non producono armi, non producono
sostanze nocive per l'uomo o per l'ambiente), ma non sul processo: cioè sul
lavoro di quelle migliaia di persone invisibili che dai massimi sistemi dei
codici di auto condotta non sono toccati, semplicemente, non si parla. In
sostanza, le multinazionali dell'etica, parlano dei prodotti ma non delle
condizioni in cui sono lavorati; non parlano dei salari con cui sono pagati
i lavoratori nelle catene di sfruttamento dell'appalto del subappalto; non
parlano di condizioni sindacali minime garantite, compreso un ambiente
dignitoso. Processi molto lunghi e complessi da cambiare, troppo lenti per
un sistema in cui anche le dichiarazioni etiche possono far parte del
marketing: il consumatore vuole prodotti più puliti? Ecco che l'azienda
dichiara di non inquinare l'ambiente. Il consumatore non vuole vedere le
scarpe cucite dai bambini? E la multinazionale dello sport dichiara di non
impiegare minori nei propri laboratori. Il consumatore si tranquillizza,
fino al prossimo allarme sociale.Dichiarare e far controllare da terzi che
invece i propri lavoratori vengono pagati in maniera "equa", significa in
parte sconfessare i criteri su cui si fonda il proprio profitto. Si prenda
ad esempiolo sfruttamento del lavoro: lì dove posso comprare il mio
pacchetto di caffè a 1500 lire, venderlo sul mercato al doppio e pagarlo al
contadino che lo lavora 300 lire. Un mercato selvaggio, quello del caffè,
di cui proprio la stessa multinazionale di cui parlava il
servizio,autoproclamatasi paladina delle aziende "pulite", èuno dei quattro
colossi a livello mondiale, ovvero una delle quattro potenze che decide
quanto e come deve venire acquistato il caffè.

C'è un altro cammino di "conversione" lento e difficile che in silenzio,
senza tanti articoli, e fuori dall'attenzione che il G8 sta provocando, un
gruppo di piccole e medie aziende che hanno scelto il marchio di commercio
equo e solidale stanno percorrendo. Perché il marchio TransFair è un
marchio che impegna non solo in formali dichiarazioni di valore: impegna a
comprare direttamente dai piccoli produttori di Africa, Asia e America
Latina; impegna ad anticipare il pagamento della merce, per favorire gli
investimenti; impegna a rapporti contrattuali di medio periodo perché
questi piccoli produttori hanno bisogno di poter contare su entrate sicure;
impegna chi compra a pagare il "giusto" e il giusto non è solo quello che
serve a retribuire dignitosamente chi, nelle piantagioni di cacao, caffè,
tè o tra i filari di arance suda ogni giorno, ma anche per generare
benessere sociale e garantire i servizi di uno Stato che non c'è. Far
indossare quel marchio a un determinato prodotto, nasconde dunque una serie
di fatti che, a piccoli passi e senza faraonici investimenti, stanno
cambiando il modo di fare la spesa di milioni di consumatori in tutta
Europa e il comportamento, il modo di "fare mercato", di decine di aziende.
In cinque anni, dal 1995 al 2000, le aziende che hanno scelto il commercio
equo e solidale in Italia sono cresciute da due a ventidue; e in tutta
Europa sono 200 le imprese che hanno scelto il prodotto equo per il suo
alto valore sociale, senza altre dichiarazioni di intenti ma costruendo il
loro lavoro accanto a quello di migliaia di produttori del Sud del mondo.

Con invito alla pubblicazione


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