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Operazione Colomba Gaza:POSTO STRANO
- To: Conflitti <conflitti@peacelink.it>
- Subject: Operazione Colomba Gaza:POSTO STRANO
- From: Lorenzo Salvadorini <lorello@chiodofisso.org>
- Date: Fri, 15 Nov 2002 12:16:04 +0100 (CET)
- Organization: Centro di Calcolo - Dipartimento di Informatica di Pisa - Italy
From: Fabri Bellini <ibrizie@hotmail.com>
POSTO STRANO di Fabrizio
La Striscia di Gaza è un posto strano. Ci vivono un milione e duecentomila
palestinesi, ma il 42% del territorio rimane sotto controllo militare
israeliano. Percorrerla per tutta la sua lunghezza trasforma il tuo naturale
senso delle distanze, dove 42 chilometri non sono molti da percorrere in una
giornata. Qui questo concetto è relativo. Delle volte 42 chilometri possono
richiedere poco tempo ma altre volte anche giorni interi. La Striscia è
anche una discesa agli inferi. Un inferno il cui primo girone è Gaza City
con i suoi due campi profughi super affollati, i suoi murales che trasudano
sangue e voglia di vendetta ma anche con la sua società viva, da grande
città. E' il girone dove ci sono gli uffici delle organizzazioni non
governative, il quartier generale dell'UNRWA. Ci sono anche le Autorità, le
rappresentanze diplomatiche. Ci sono i politici di maggior spicco, e i capi
carismatici dei gruppi terroristici come ad esempio lo sceicco Yassin, il
capo di Hamas. A Gaza city c'è anche il mare al quale i pescatori locali,
con pochi mezzi, cercano di strappare poco pesce che magari va sulla tavola
dei ristoranti che servono i pochi ricchi. E' il posto dove la maggior parte
delle delegazioni straniere si ferma perché non è detto che ci sia il tempo
di percorrere i 42 chilometri della Striscia in una sola giornata. Nella
"città" ci sono anche le più grandi e importanti università. Quando si
decide, poi, di andare a sud e proseguire il viaggio nel secondo girone; il
percorso è scontato e stabilito dalle torrette israeliane e dagli accordi
stipulati in un periodo in cui sperare nel futuro era consentito. Il secondo
girone è formato da due villaggi moderni che si guardano e dalla confusione
architettonica dei campo profughi. Il primo villaggio si può vedere solo da
lontano, è circondato da una vasta area resa incolta dall'imposizione
militare il cui braccio è un gregge di bulldozer super corazzati. Questo
villaggio si chiama Netzarim ed è uno dei 18 insediamenti israeliani della
Striscia. Di Netzarim si vedono le torri di difesa, il verde, dato dallo
sfruttamento dell'acqua che viene usata senza limitazione per irrigare le
coltivazioni, il consumo pro capita d'acqua per i coloni della Striscia di
Gaza, infatti, è di 1.000 metri cubi, contro i 172 palestinesi. Un'altra
cosa che si nota sono i tetti rossi delle case abitate dai coloni israeliani
a partire dal1972. Quasi di fronte, separati da un deserto artificiale c'è
la cittadina di Zhara, che significa rosa, costruita con moderni palazzi
circa otto anni fa per accogliere le persone che, tornate dall'esilio, hanno
formato la nervatura centrale dell'Autorità Nazionale Palestinese, ma,
purtroppo, si sono portate dietro anche malcostumi quali corruzione e
cattiva amministrazione. Zhara paga la sua vicinanza con Netzarim proprio
nel suo palazzo più alto che guarda la spianata prospiciente l'insediamento
e che ha le ferite tipiche dei colpi di cannone e di arma da fuoco che hanno
aperto finestre più ampie di quelle previste dall'architetto. Il mare di
fronte a Netzarim guarda la strada che ogni giorno porta migliaia di mezzi
fra cui taxi, autobus, camion, auto private e carretti trascinati da asini
da nord a sud e da sud a nord, dove il concetto di sud è dato dalla chiusura
o meno del check point o dalla presenza dell'IDF. Già i bulldozer israeliani
hanno ferito questa strada con incisioni che ne hanno asportato l'asfalto
per alcuni tratti e hanno desertificato tutto quello che sorgeva ai suoi
lati. Questo pezzo di strada e di spiaggia cade formalmente sotto
amministrazione civile militare israeliana anche secondo gli accordi di Oslo
e pare che proprio arrogando questa autorità, le forze di sicurezza
israeliane, costruiranno l'ennesimo check point che formalmente avrà lo
scopo di dare più sicurezza ai 220 abitanti dell'insediamento ma come
risultato pratico avrà quello di intralciare ulteriormente il traffico
palestinese. Scorrendo sulla strada e lasciata alle spalle la vista di
Netzarim e Zhara e dopo aver visto in lontananza i campi rifugiati dell'area
centrale si fa una svolta di novanta gradi e lasciando la vista del mare si
entra nel villaggio di Dheir El Balah che prende il suo nome dai datteri
che qui crescono in abbondanza sulle palme risparmiate dai voraci bulldozer
israeliani. Qui sono molti i volti che guardano da cartelli dipinti a mano e
che rappresentano giovani combattenti morti in scontri a fuoco con gli
israeliani o magari facendosi saltare in qualche posto in Israele spargendo
l'ennesimo sangue innocente di questa guerra che non è guerra. I volti sono
fieri, sono già icone di se stessi e non c'è traccia della smorfia di dolore
o di paura che sicuramente ha solcato i loro volti al momento della morte.
La mano che traccia questi volti è la mano di un pittore "semplice e
popolare" e nel loro realismo questi dipinti mi ricordano gli ex voto appesi
nei nostri santuari. Per me, quando ci passo attraverso, Dheir El Balah
diventa il posto in cui si prende fiato prima di entrare nei gironi del sud,
più faticosi da vivere e da vedere oppure il posto dove, andando verso nord,
un certo sollievo ti assale rivedendo il mare. Dheir El Balah oltre a essere
il posto dei datteri e dei dipinti è anche un campo profughi che ospita le
persone fuggite dal neonato stato di Israele nel '48, lo si capisce dalle
scuole che portano le insegne dell'UNRWA e la bandiera delle Nazioni Unite.
Passato questo villaggio si viene proiettati in un altro deserto che
preannuncia il chek point di Abu Holi. Il check point è un tratto di strada
di poco più di un chilometro che ha ai suoi estremi due torrette militari.
In realtà Abu Holi è un piccolo incrocio molto militarizzato. Le due strade
che si incrociano sono quella palestinese e quella dei coloni israeliani,
che arriva da Israele e dall'insediamento di Kfar Darom (costruito negli
anni '70 con 200 abitanti), per entrare nel blocco di Katif (Gush Katif) che
occupa tutta l'area costiera nelle municipalità di Khan Younis e Rafah,
negando, negli ultimi due anni, l'accesso al mare ai palestinesi. La strada
di Abu Holi è divisa in due da un muro, da una parte passano gli israeliani
e dall'altra i palestinesi. Il passaggio attraverso questo check point non è
sempre scontato, molte volte senza un motivo le forze di sicurezza
israeliane chiudono e allora si formano code e ingorghi chilometrici tutto
in nome della sicurezza di Israele. Quando si formano le code e il check
point è chiuso non sono i "terroristi" a rimetterci ma bensì gli studenti,
i lavoratori, i piccoli e grandi commercianti o chi più semplicemente vuole
andare a vedere il mare. La coda si trasforma in un piccolo mondo pronto
subito a scomparire al via dato dai soldati chiusi dentro la torretta. Ci
sono una miriade venditori di generi di primo conforto, capannelli di
persone che parlano di tutto, poi ci sono i ragazzini pronti a fare da
numero sulle rare macchine private che viaggiano con un solo passeggero.
Attraverso Abu Holi, infatti, è vietato passare da soli su di una macchina,
i soldati temono attacchi suicidi. Una volta proiettati fuori da questo
budello stradale fra due torrette, io mi sento un po' a casa, siamo infatti
a Qararah che è la nostra casa da almeno cinque mesi. Anche Qararah ha un
posto nella rassegna delle disgrazie della Striscia, è incastrato a nord
dalla strada dei coloni, chiamata Kussufim Street, a ovest, dal blocco di
Katif e a est dal confine con Israele dove per tutta la sua lunghezza si
estende una fascia di sicurezza di circa 500 m non coltivabile. L'unica via
d'uscita è verso sud in direzione della città di Khan Younis. Per "motivi di
sicurezza" 47 case sono state abbattute negli ultimi due anni; sorgevano
troppo vicine alla Kussufim Street e per lo stesso motivo tutte le parti
del villaggio che sorgono nelle vicinanze della strada e dell'insediamento
sono sotto coprifuoco dal tramonto all'alba. Khan Younis è una città
disordinata che ha molte ferite date dalla vicinanza con le difese
israeliane. Il campo profughi della città ha una strada ampia che lo
attraversa e che in passato andava diretta al mare, ora si ferma di fronte
ad una sbarra gialla che segna l'inizio del "regno di Katif" dove ci abitano
circa 4400 coloni dei 5940 di tutta la Striscia (dati agosto '99). Il campo
e la zona sono dette Tufah (mela) e le case che hanno la vista al mare e al
muro che protegge l'insediamento sono "mangiate" dalle armi automatiche che
a volte rispondono a provocazioni palestinesi ma molte volte sparano fuoco
senza motivo solo per paura e per far paura. Anche qui ci sono circa
settanta case che non esistono più. Le torrette sono molte e i soldati sono
puntini invisibili in lontananza. Sono a guardia di questa porta che
permette, sfiorando gli insediamenti israeliani, di entrare nei villaggi che
formano la zona detta Mawasi, la casa di circa 4500 palestinesi. La vita di
questa gente è una vita dove, il poter rientrare a casa la sera oppure
aspettare anche giorni davanti ad una sbarra gialla, dipende da una carta
magnetica in cui il nome diventa un codice a barre, da ordini militari o
semplicemente dall'umore dei soldati che sono di guardia. Spesso aspettiamo
assieme a loro anche se non capiscono le nostre flebili parole di conforto
espresse in una lingua straniera. Spesso ci si sente impotenti. Un altro
posto dove l'impotenza ti stringe lo stomaco, a Khan Younis, assomiglia ai
palazzoni della Sarajevo assediata. Namsawi, infatti, guarda le torrette che
difendono il blocco di Katif ed è un quartiere di case popolari costruito
con i soldi degli aiuti austriaci ma che si è venuto a trovare in un posto
di scontro. Anche qui la rabbia delle armi ha in parte modificato i disegni
degli architetti. Namsawi è il posto dove arrivano quelli che hanno già
perso la loro casa, chi ha Rafah, chi a Tufah e qualcuno anche a Qararah.
Gli appartamenti abitati sono ormai solo quelli che stanno dalla parte
opposta rispetto alle torrette israeliane e le storie che si sentono
raccontare sono quelle della rabbia di chi si rende conto di vivere sotto
tiro. Mohamed di dodici anni abita a Namsawi, qualche mese fa un proiettile
si è conficcato nella sua giovane gamba e da lì, i pochi chirurghi della
Striscia, non riescono ad estrarla. Mohamed si muove a fatica e per questo
non va più a scuola, sua madre soffre di problemi psicologici da quando,
l'anno scorso una granata è entrata nel loro appartamento attraverso una
finestra; suo padre è disoccupato, tutti dormono assieme nella stanza più
riparata dell'appartamento e i suoi molti fratelli piangono la notte quando
sentono sparare. La famiglia di Mohamed è originaria di Rafah da dove è
partita circa un anno e mezzo fa dopo che la loro casa è stata abbattuta per
"motivi di sicurezza". Molte famiglie, più di duecento, hanno perso la loro
casa a Rafah negli ultimi due anni. Rafah è l'ultimo e peggiore girone
dell'inferno chiamato Striscia di Gaza. Per arrivare alla cittadina che
sorge a vicino al confine egiziano non si corre sulla strada principale,
quella è chiusa da anni perché passa attraverso all'insediamento di Morag
(costruito nel '72 con 150 abitanti), si percorre, infatti, una strada che
aggira l'ostacolo e che lambisce l'aeroporto internazionale di Gaza,
costruito con fondi UE, amputato della sua pista e del radar dagli aerei e
dai buldozer israeliani circa due anni fa. Rafah è una città ferita dai
buldozer che hanno trasformato molte case, che sorgevano a ridosso del
confine con l'Egitto, in sabbia. Qui lo scontro è forte, gli israeliani
tengono il controllo della frontiera dove tutti i giorni centinaia di
persone si accalcano per uscire dalla prigione che ormai è diventata la
Striscia di Gaza. I poliziotti palestinesi di frontiera fanno poco più che i
portinai e il passaggio è deciso sempre dall'ufficiale israeliano. Le
frontiere sono sotto controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo anche
se quest'anno avrebbero dovuto passare direttamente sotto il totale
controllo dell'Autorità Nazionale Palestinese. A Rafah sono molte le spie e
gli informatori israeliani e anche i gruppi palestinesi armati sono molto
attivi. Abitare a Rafah nei quartieri vicino alla frontiera significa anche
alzarsi nel cuore della notte con i soldati che ti intimano lo sgombero
lasciandoti solo poche ore per prendere la tua vita ed andartene. Poi dopo
qualche tempo faticherai anche a capire dove sorgeva la tua casa. La vita a
Rafah vale poco, ne è la prova il fatto avvenuto il 17 ottobre scorso,
quando un tank israeliano, in pieno giorno, in risposta ad una presunta
provocazione palestinese ha sparato almeno tre colpi di cannone sul
quartiere detto "blocco O" uccidendo sette civili e ferendone almeno
settanta. Tra le vittime non c'erano terroristi ma c'era Shatma, di otto
anni, che dormiva nel suo letto. A Rafah ci sono i tunnel e anche questo
ricorda la Sarajevo assediata. Anche qui come a Sarajevo dal tunnel passano
armi, qui vanno a finire nelle mani dei gruppi armati che stupidamente e con
la disperazione negli occhi cercano di fare guerra contro gli israeliani in
una maniera che non potrà mai portare la libertà a questo popolo sofferente.
Sono ormai arrivato al quarantaduesimo chilometro e l'angoscia mi stringe la
gola, ma non c'è solo disperazione in questo grande ghetto che si chiama
Striscia di Gaza. La speranza vuole dire il sorriso dei bambini, il volto
riconoscente di una donna che vive in tenda dopo l'abbattimento della sua
casa e che ti ringrazia perché tu le sei amico e che ti invita a cena anche
se è poco il cibo che ha a disposizione. La speranza è un gruppo di persone
che pensa che ci sia un modo diverso dall'andare in Israele ed usare il
proprio corpo come bomba per opporsi a questa ingiustizia quotidiana. Questa
gente lavora con la società civile e con i bambini. C'è chi, come Hussam,
dirige un centro per aiutare i bambini con problemi di apprendimento e che
crede che insegnare loro che hanno dei diritti e che c'è una seconda via sia
la strada per portarli lontano dai gruppi fondamentalisti che predicano
l'odio. La speranza c'è in chi si sforza di non odiare anche se tutti i
giorni vede di Israele solo la faccia violenta e coloniale. La speranza è
una parola che qui in Medio Oriente la gente ha ormai paura a pronunciare:
Pace.
"Chi e sa di che siamo capaci tutti
Vanificato il limite oramai
Vanificato il limite
Sotto occhi lontani indifferenti e bui"
CSI - Memorie di una testa tagliata
www.operazionecolomba.org