Mancato attacco all'Iran (ed altro ancora)



Maurizio Blondet
11/04/2007
Goodbye Iran!
Anzitutto un grazie a tutti i lettori che mi hanno augurato buona Pasqua, e a cui non potrò rispondere.
In quei giorni ero in vacanza, precariamente collegato ad un internet di esasperante lentezza: sono rimasto in arretrato con la corrispondenza e con le notizie.
Di queste, devo recuperarne almeno una: il 6 aprile non s’è verificato l’attacco americano all’Iran, annunciato dai servizi russi e da me riportato.
Qualche lettore continua a chiedermi come mai ho sbagliato previsione…
Ci sono lettori, anche gentili, che continuano ad equivocare la natura del nostro lavoro. (1)
Che non è quello dell’indovino e del cartomante, ma - più modestamente - del segnalatore di eventi geopolitici che possono essere premonitori.
Spero di non dovermi ripetere.
Quanto al «perché» l’attacco non sia avvenuto, la risposta è: l’accorta gestione iraniana della prigionia dei 15 marines britannici catturati, e la loro liberazione insperatamente rapida, ha cambiato del tutto i termini del problema.
L'attacco, dopo, non è stato più possibile.
Ancora una volta, non sto consultando la sfera di cristallo.
Consulto una fonte aperta a tutti: il Guardian del 7 aprile. (2)
Questo giornale rivela testualmente quanto segue:
«Come il Guardian ha appreso, gli USA s’erano offerti di intraprendere azioni militari come risposta alla cattura e detenzione dei 15 marines britannici da parte dell’Iran, fra cui il sorvolo minaccioso delle posizioni delle Guardie della Rivoluzione in Iran.
Nei primissimi giorni, quando i diplomatici britannici non avevano notizie da Teheran su come e dove si trovassero i prigionieri, il Pentagono ha chiesto  alla sua controparte inglese: cosa volete che facciamo?Ed hanno offerto una serie di opzioni militari, lista che rimane ‘top secret’ dato il rischio crescente di guerra tra USA e Iran. Ma una delle offerte era di lanciare aerei da combattimento americani in pattugliamenti aggressivi sopra le basi delle Guardie Rivoluzionarie in Iran
».

Ed ecco com’è finita: «I britannici hanno declinato l’offerta, ed hanno detto che il modo con cui gli USA potevano contribuire a calmare la situazione era di tenersene fuori. Anzi, Londra ha chiesto agli USA di abbassare il livello delle esercitazioni militari che erano già in corso nel Golfo.
Tre giorni prima della cattura dei 15 britannici, infatti, una seconda portaerei con la sua squadra navale era arrivata nell’area, in base agli ordini del presidente Bush impartiti a gennaio, con lo scopo di accentuare la pressione sull’Iran a proposito del suo programma nucleare e delle sue presunte operazioni all’interno dell’Iraq contro le forze della coalizione
».
«Su richiesta dei britannici, i due gruppi navali portaerei americani, un totale di 40 navi oltre alle forze aeree, hanno modificato le loro esercitazioni per renderle meno aggressive. Il governo britannico ha chiesto anche all’amministrazione USA, da mister Bush in giù, di essere cauti nell’uso della retorica, che infatti è stata relativamente moderata durante la vicenda».
E già il 31 marzo lo stesso Guardian notava che, «benchè i catturati siano britannici e non americani, i neocon ardono di fare dichiarazioni in TV», ovviamente esplosive.
Ma ne sono stati trattenuti «dalla richiesta del governo inglese di starne fuori. I britannici temono che dichiarazioni del presidente George Bush o di neoconservatori del tipo di John Bolton  sarebbero controproducenti, provocando l’escalation della crisi… Tony Blair è ben conscio delle linee di conflitto a Washington e ne terrà conto durante la crisi». (3)

Occorre elaborare su cosa ciò significa?

L’alleato storico e il più fedele dell’Amministrazione Bush, quello che lo ha seguito senza condizioni nelle sue avventure belliciste, s’è rifiutato di trasformare la cattura dei suoi 15 marines nel pretesto per l’attacco all’Iran.
E Blair l’ha fatto con insolita energia e a tutti i livelli («da Bush in giù»), tenendo specialmente a freno i neocon «tipo John Bolton».
E da tutti esigendo di «restarne fuori»: «stay out of it», in inglese, è una locuzione piuttosto perentoria.
Evidentemente, Londra ha minacciato la rottura, su questo caso, della «relazione speciale» che la unisce a Washington.
Anzi, si può dire - senza sfera di cristallo - che i rapporti siano ancora gelidi, dato che Blair, nel suo discorso pronunciato con evidente sollievo nel felice scioglimento della vicenda, ha ostentatamente evitato di ringraziare nominativamente gli Stati Uniti.
«Voglio ringraziare», ha detto, «i nostri alleati in Europa, i nostri alleati nel consiglio di Sicurezza per il loro appoggio, ed anche i nostri amici e alleati nella regione che hanno fatto la loro parte [allusione a mediazioni saudite, egiziane e giordane]. Siamo grati a tutti loro, come siamo grati al Foreign Office, al ministero della Difesa e al personale di Downing Street per il lavoro fatto».
E poi: «Al popolo dell’Iran dico semplicemente questo: noi non vi vogliamo alcun male. Rispettiamo l’Iran in quanto antica nazione con una grande e degna storia. E i disaccordi che abbiamo con il vostro governo, li risolveremo pacificamente con il dialogo».
E’ un rovesciamento totale delle posizioni inglesi: non più bastone, ma trattativa.
L’Inghilterra non si lascia più guidare dagli interessi israeliani: perché, come ho detto, la gestione iraniana dei 15 ostaggi è uno scacco epocale soprattutto per la politica cui Israele ha voluto trascinare l’intero Occidente, la politica del «non parliamo coi terroristi», del «non c’è niente da trattare, solo la crociata da combattere».
Ed ora, provate ad immaginare ciò che questo ha significato per la Casa Bianca di Bush, Cheney e neocon dietro le quinte.

La coscienza improvvisa che nessuno, nemmeno Londra, avrebbe giustificato i bombardamenti sull’Iran, significava che non avrebbero ottenuto dal Consiglio di Sicurezza una risoluzione legittimante  all’attacco preventivo.
Che solo Israele lo voleva e lo vuole.
E inoltre anche l’opinione pubblica americana non crede più al presidente.
Mentre si scioglieva il problema dei marines britannici, Nancy Pelosi era in Siria a parlare con Assad: chiaro segnale per la Casa Bianca, di non poter più confidare nella tacita complicità dei democratici.
Persino Condoleeza Rice sta provando la strada della trattativa.
E a Ryad, al vertice saudita inter-arabo, gli USA sono stati marginalizzati in modo evidente (un altro «Stay out of it»).
E bisogna tener presente un fatto mai notato prima: che ormai ben dieci stati della federazione USA hanno già varato una richiesta di impeachment per Bush e Cheney.
Il pericolo, per costoro, è reale.
Una terza guerra, dopo le due disastrose, può finire molto male per i due e i loro neocon di riferimento.
E’ svanito lo spirito dell’11 settembre, quello creato col mega-attentato di «al Qaeda».
E lo ha dimostrato la fine miserevole che ha fatto l’annuncio di un imminente video in cui sarebbe apparso di nuovo, redivivo dopo anni di assenza mediatica, nientemeno che Osama bin Laden in persona.
L'annuncio - attenti alla data - è stato fatto il 4 aprile.
E’ stato fatto dal CENTCOM (ossia dal Comando Centrale USA), che ha citato un non meglio identificato sito «jihadista».
Il comunicato dice «L’informazione indica che Al-Sahab Media Establishment, l’organo specializzato nel diffondere i discorsi dei capi di Al Qaeda, ha appena finito di produrre un video che contiene un discorso di bin Laden all’intera nazione islamica».
Non è il caso di ripetere che cosa sia «Al Sahab», e come editi con cura veramente occidentale i discorsi dei capi di Al Qaeda, con tanto di traduzione simultanea in perfetto inglese a cura di «Azzam al-Amriki», Azzam l’americano, un presunto statunitense passato al nemico.
La cosa più straordinaria è che CENTCOM, senza aver ancora visionato l’esplosivo documento,  era già in grado di anticipare il discorso di bin Laden redivivo: in esso, bin Laden in persona (proprio lui) se la prende con Hamas «perché ha capitolato»; e con il vertice arabo di Ryad - dove il re saudita ha convocato gli Stati dell’area, nessuno escluso, per un progetto di stabilizzazione dell’Iraq.
E infine una esaltazione del «Califfato islamico» prossimo venturo che proprio lui, il vero Osama bin Laden - diffidate delle imitazioni - riuscirà a instaurare.

Insomma, il bin Laden redivivo dopo lunga assenza riecheggia disappunti israeliani (Hamas è pronto a trattare, i sauditi parlano con gli iraniani), e la solita propaganda sionista: l’Islam è un pericolo non per noi ebrei, ma per tutto il mondo…
Ebbene: questo video ha fatto flop.
Al punto che la Sahab Media Establishment, alias CENTCOM, ha rinunciato a diffonderlo.
Strano: era uno scoop incredibile, dopo tanti anni di assenza dalle scene del primo attore del «Male».
Sarebbe stato un decente contorno propagandistico alla terza «guerra al terrorismo», stavolta contro l’Iran, se fosse scoppiata il 6 aprile.
Ma non serviva più.

Maurizio Blondet


Note
1)
 Altri mi hanno attaccato in un blog, e c’è qualche affezionato che mi ha chiesto di replicare. Replicare a cosa, esattamente, di un lunghissimo sproloquio scritto con astio, e palesi volontari fraintendimenti di frasi mie? So che questo tipo di cose succedono su internet, e sono il sale di certi blog. Mi esimano i lettori dal partecipare a questo genere di giochi, come mi hanno già esentato dal rispondere, diciamo ad un Attivissimo. C’è chi partecipa agli eventi in corso come ad un campionato di calcio, sunniti contro sciiti ad esempio, e fa il tifo per l’una o l’altra parte. Noi non guardiamo una partita di calcio, ma una tragedia mondiale, senza precedenti, che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Per quanto qualcuno possa credere altrimenti, non siamo «per» l’Iran come «ammiratori» della Shia, né per l’Iraq coi suoi sunniti in lotta. Siamo per qualunque Stato o nazione venga invaso e aggredito senza motivo, e in base a menzogne. Saremmo dalla parte degli aggrediti anche se fossero confuciani o luterani. Ci vuole tanto a capirlo? La nostra posizione, per giunta, è per essenza «occidentale»: parliamo a nome dei principii di un Occidente che sono stati traditi e usurpati dalla superpotenza e dal suo falso-agnello suggeritore. L’aggressione all’Afghanistan e all’Iran, come ha notato William Pfaff, è una lesione allo spirito di Westfalia, il trattato che nel 1648 pose fine alla guerra dei trent’anni e instaurò lo «jus publicum aeropaeum». Secondo Westfalia, gli stati e i loro governanti (monarchi, allora) sono «legittimi», e legittimati ad unirsi con contratti e trattati; nello spirito di Westfalia, anche la guerra diventa una istituzione, governata da norme che ne limitano la ferocia e rendono il nemico «legittimo», ossia adeguato a stipulare la pace al termine del conflitto. In questo senso, i regimi afghano, iracheno e iraniano sono legittimi. Il fatto che possano essere sgradevoli o non democratici non riguarda la politica estera, ma la loro politica interna. Fare la guerra a regimi «non-democratici» con la scusa di «portare la democrazia»  è un trucco della superpotenza che, per di più, si ammanta di «virtù» nel senso robespierriano del termine. Prevengo l’obiezione di troppi «virtuosi»: ma allora, dobbiamo lasciare che interi popoli languiscano sotto il tallone talebano o fondamentalista, senza «democrazia»? Il fatto è che la lista dei Paesi non democratici è lunga. Un intervento consigliato dalla «virtù» dovrebbe configurarsi come una guerra perpetua contro Cina, Corea del Nord, Sudan, Pakistan, Russia (c’è chi lo vorrebbe), eccetera, eccetera. Perché l’Afghanistan e l’Iraq prima della Cina? Forse perché erano creduti più deboli? Forse perché oltre alla «democrazia» c’era da instaurare un regime petrolifero? O eliminare nemici di Israele? In mancanza di un criterio meno incerto, occorre attenersi allo spirito di Westfalia. Che l’America, usurpatrice del nome di Occidente, ha violato. Questa è la visione che ci guida nei nostri giudizi. Le tifoserie calcistico-religiose non ci interessano.
2) Ewen MacAskill, Julian Borger, Michael Howard, John Hooper, «Americans offered aggressive patrols in Iran airspace», Guardian, 7 aprile 2007.
3) «The american dimension», Guardian, 31 marzo 2007. Editoriale.


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