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Per tre volte Angelica
La tristezza di Knin ti rimane dentro.
Il vuoto ti avvolge.
Francesco Lauria
http://francescolauria.blog.tiscali.it
Per tre volte Angelica
postato da Osservatorio Balcani
Per tre volte Angelica
(26/08/2003) Nei villaggi vicino a Knin, Croazia, non sono pochi i serbi
rientrati a vivere nelle proprie case. Non temono più per la loro incolumità e
molta della tensione che vi era negli anni successivi all’Operazione Tempesta,
grazie alla quale l’esercito croato nel 1995 riconquistò i territori delle
Krajne sino ad allora controllati dai serbi, è stata finalmente sciolta. Sono
però rientrati quasi esclusivamente gli anziani. I loro figli e nipoti hanno
scelto di rimanere in Serbia o all’estero. Perché nella regione di Knin non vi
è ancora alcuna prospettiva di lavoro. Negli ultimi anni ritornano solo per
qualche settimana, d’estate. E’ l’unico momento in cui le famiglie si
riuniscono e la solitudine durata l’intero inverno s’interrompe. In questo
breve racconto tre immagini di tre incontri, avvenuti nei villaggi attorno a
Knin. Tre incontri con tre donne, tutte e tre con lo stesso nome, Anelka.
Anziane rientrate nel 1997 e nel 1998 dopo aver dovuto abbandonare le proprie
case
nell’estate del 1995. Tutte e tre straziate dalla voglia di rimanere nei
luoghi dove hanno vissuto gran parte della vita e dalla solitudine e distanza
dai propri cari che questa scelta ha implicato.
Anelka. Angelica. Per tre volte.
“Aspetto la terra, che mi accolga”. Il passo è attento ma affaticato.
Dondolante. Lungo una strada sterrata erta e piena di sassi. Anelka apre il
cancello poi lo richiude dietro a sé. Il battente fissato con un filo di ferro.
Poi cammina lungo tutta la lunghezza di una casa a due piani, su di un
marciapiede di cemento che la stringe tutt’intorno. “Mi sono rotta un’anca ,
cadendo, da allora dondolo”. Anelka. Dal giardino di fronte alla sua casa
s’allunga un sentierino di terra battuta. S’alza di qualche metro, poi un altro
cancello. Per evitare che le bestie entrino nell’orto. Poi due edifici bassi,
muri in pietra, quasi a secco. All’interno una cura oramai del passato, pian
piano dominata dall’umidità e dalla fatica degli anni. “Mucche è da un po’ che
non ne ho più, però ho alcune galline ed una capra”. Anelka si piega ed
accarezza un cane alla catena. Poi si sofferma, chinata, e con il braccio obeso
trattiene la catena. Per farmi passare. Ritorniamo di fronte alla casa. Al
fianco
dell’orto un letto, con un testiera in metallo. Tra pomodori e cetrioli. A
garantire un po’ di intimità le piante oramai alte di granoturco. Anelka
s’accoccola lì quando di notte il caldo si fa insopportabile. “Ma per me non
resta che la terra. Aspetto e spero sia il prima possibile”. Anelka ha posato
la sua fatica su di un muretto. Mi mostra le foto dei figli e dei nipoti. Tutti
in Australia. Non li vede da quando sono partiti, alcuni anni fa. Li sente a
volte per telefono, sino a quando, come dice lei, “andrò finalmente
sottoterra”.
“Mi chiamo Anelka”. Un nome che è come un sorso d’acqua, limpida. Il corpo si
ritrae leggermente, in modo delicato. Un corpo minuto, coperto di nero.
Asciugato come la terra carsica. Solo gli occhi azzurri rimangono fonti che
ancora traspirano attimi di seduzione. La cucina di qualche manciata di metri
quadrati, dove Anelka è seduta, è bianca. Le tende alla finestra ed alla porta
sono troppo leggere per trattenere fuori il sole. S’apre su di una terrazza in
cemento armato. Scale ripide senza ringhiera scendono in un cortile interno che
racchiude tra le sue mura l’odore del letame. Sulla terrazza un tavolino in
legno laccato d’azzurro, alcuni secchi d’acqua e dei vasi di fiori. Al fianco
dei fiori la nipote di Anelka. Con i suoi stessi occhi e la pelle piena. Abita
con la madre a Belgrado. Hanno abbandonato Golubic quando è arrivata la guerra.
Anelka è così rimasta da sola e trascorre l’inverno aspettando i venti giorni
pieni di sole, aspettando d’accarezzare quella pelle piena.
Accarezzare. Anelka stringe a sé la nipote. “Lei è i miei occhi”. Le smuove
dolcemente i capelli.
Una strada diritta. Due corsie che interrompono lo sguardo ed il paesaggio. Da
una parte il cielo, vigneti bassi e pietre. Dall’altra finestre vuote che
guardano l’azzurro sbiadito dalla calura. Alcuni edifici disposti a ferro di
cavallo. Dalla loro rovina è stato risparmiato un albero. Sotto, su di una
panchina siedono tre anziani. Anelka è tra di loro. Fissa la linea che separa
vigne e cielo. “Questa non è la mia casa. Abito qualche via più in là. Posso
rientrare solo durante l’estate perché nessuno me l’ha mai ricostruita”. Anelka
mi parla e con la coda dell’occhio osserva la sua amica e Daniele che la
fotografa. Sorride. Fa finta di niente ma è un po’ gelosa. Tra le mani ha un
paio di occhiali da vista, li indossa e poi apre una busta. Un foglio scritto
con caratteri cirillici. Legge per poi riporre in fretta tutto in grembo.
“Durante l’inverno ritorno in Serbia dove mia figlia è riparata dopo
l’Operazione Tempesta. Ma vorrei poter rimanere qui. Lo farò quanto mi
risistemeranno
la casa”. La coda dell’occhio ancora su Daniele e poi sull’amica che si
ricopre con le mani il viso. Un po’ per la vergogna, un po’ per giocare a
nascondino. “Ti fotografano perché sei a casa tua” le dice Anelka “quando sarò
a casa mia fotograferanno pure me”. Strappa un lembo di carta dalla busta,
indossa nuovamente gli occhiali. E scrive in caratteri maiuscoli. ANELKA. E poi
il suo indirizzo. Tre vie più in là.
Per tre volte Anelka.
D.S
RiferimentiOsservatorio Balcani
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