(Fwd) N.E. Balcani #778 - Balcani



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N.E. BALCANI #778 - BALCANI
15 aprile 2004


L’EUROPA PROMESSA: I BALCANI E L'ALLARGAMENTO DELL'UE
di Predrag Matvejevic

**”Notizie Est” ringrazia l’autore per avere messo gentilmente a 
disposizione il suo testo**

[RIASSUNTO: Questo saggio contiene tre parti e tre vari approcci, 
contigui e complementari. Inizia con una riflessione sui nuovi paesi 
che stanno per entrare nell’Unione europea nel maggio 2004, sui 
problemi che pone la loro adesione: accettazioni, esitazioni, 
reticenze, incompatibilità. In questo capitolo l’autore cerca di 
definire “una Europa auspicabile” e presenta allo stesso tempo le 
alternative della Russia: “come una vera democrazia o come una 
semplice democratura”.

L’altra parte “approda nei Balcani” seguendo un punto di vista 
geopolitico e anche “geopoetico”: rilievi della penisola, terremoti, 
popolazioni, varie origini, storie diverse o opposte. Vi sono 
accentuate le contraddizioni di uno spazio “disseminato dalle 
vestigia degli imperi sovranazionali e dai resti dei nuovo Stati, 
nati dalle idee di nazione del XIX secolo e dalle ideologie 
internazionaliste del ‘socialismo reale’ del XX secolo, eredità di 
due guerre mondiali e di una guerra fredda, vicissitudini dell’Europa 
dell’ Est e di quelle dell’ Ovest”.

Nella parte successiva l’autore esamina “un caso emblematico: il 
Kosovo”: come questo territorio si presenta da un punto di vista 
storico e nel contesto della situazione attuale. Il lavoro si 
conclude con una riflessione sul futuro possibile dei Balcani in una 
nuova Europa.]


ALCUNE CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
Ultimamente ho visitato la gran parte dei nuovi candidati 
all'adesione all'Unione europea, sia quelli che entreranno per primi 
che quelli che ne faranno parte in una seconda fase.

Con l'avvicinarsi del «gran giorno», un certo realismo ha sostituito 
le prime illusioni e, comunque, si puo osservare che le reazioni 
decisamente antieuropee sono sempre più deboli o limitate. Esse 
rimangono confinate solo in ciò che resta di una certa sinistra, 
legata in qualche modo al passato, come pure negli ambienti 
nazionalisti o ultraconservatori come, ad esempio, la «Lega delle 
famiglie polacche» o altre organizzazioni decisamente minoritarie.

Nel grande calderone della marea proeuropea, d'altra parte, emergono 
apprensioni tutto sommato auspicabili e positive. La volontà di 
«uscirne a qualunque costo», di liberarsi del passato e del suo 
fardello, si accompagna a quella di «entrarvi a qualunque costo» e di 
diventare infine membri di un'Europa unita. Evidentemente vi è in 
tale atteggiamento anche precipitazione, improvvisazione, mancanza di 
riflessione e molto altro.
Il primo gruppo di candidati senza dubbio porrà meno problemi del 
secondo, ma, molto probabilmente, sufficienti perche i ritardatari 
vedano prolungata la loro attesa nel lungo termine.

D'altra parte, i tempi della riconversione e dello sviluppo, 
necessari per liberarasi dalle conseguenze del "socialismo reale'' 
non sono stati e non saranno brevi, prova ne sia che un paese come la 
Slovenia, che spesso si cita come buon modello di transizione, ha 
avuto bisogno di più di sette anni per ritornare solo ad essere … la 
Slovenia del 1990. Anche gli ingenti aiuti erogati dalla Germania 
occidentale alla sua sfortunata sorella dell'Est fanno emergere 
perfettamente quale sia la dimensione dei mezzi necessari per queste 
trasformazioni strutturali. Così sia i lavori preparatori che 
l'adesione dei candidati, mostreranno probabilmente, lacune di 
dimensione differente e in alcuni paesi e nei prossimi anni ci 
troveremo forse di fronte a difficoltà impreviste e inattese, di cui 
fin d'ora dovremmo essere consapevoli.

Nel complicato processo di adesione i problemi culturali sono stati 
posti raramente in evidenza. D'altra parte, si vive in un'epoca in 
cui l'intellighenzia dell'Europa occidentale, dopo gli errori che le 
sono stati a torto o a ragione imputati, sembra cerchi di evitare 
impegni troppo diretti o espliciti, mentre quella dell'Est non 
sembrerebbe essersi ancora completamente ripresa da ciò che le è 
successo. 

Né l'una né l'altra appaiono, al momento, avere una presenza 
importante in questo processo e, a dir il vero, non sembrano nemmeno 
determinate ad averlo. Viaggiando nelle regioni dell'Europa orientale 
ho potuto comunque raccogliere idee sui diversi modi in cui l'Unione 
è vista dall'"altra Europa". 
Il ventaglio delle opinioni spazia dalla convinzione che l'Europa del 
futuro dovrebbe essere meno eurocentrica di quella del passato, più 
aperta agli altri dell'Europa colonialista, meno egoista dell'Europa 
delle nazioni, più consapevole di se stessa e meno incline 
all'americanizzazione. Inoltre, si è convinti che sarebbe utopico 
prevedere che essa divenga, in tempi ragionevoli, più culturale che 
commerciale, meno comunitaria che cosmopolita, più comprensiva che 
arrogante, meno orgogliosa che accogliente, più l'Europa dei 
cittadini che si tendono la mano e meno l'"Europa delle patrie" che 
si sono tanto combattute l'un l'altra e, in fin dei conti, più 
socialista dal volto umano (secondo il senso che alcuni dissidenti 
dell'ex Europa dell'Est davano in passato al termine) e meno 
capitalista senza volto. 

La sorte dell'Est Europeo non dipende più, come nel passato, 
dal'influenza dell'Unione Sovietica. La Russia, nonostante cerchi 
ancora di impersonare il ruolo di grande potenza (e riesca, entro 
certi limiti, ad esserlo), non è evidentemente il colosso del passato 
ma i legami sempre presenti, specialmente nell'area balcanica, ne 
fanno un interlocutore da non sottovalutare.

Come potrebbe materializzarsi questo suo ruolo, molto dipende dalla 
sua evoluzione interna. Si possono ipotizzare diverse Russie del 
domani. Sarà essa una vera democrazia o una semplice "democratura"? 
Tradizionale o moderna? "Santa" o profana? Ortodossa o scismatica? 
Più bianca che "rossa" o viceversa? Meno slavofila che occidentalista 
o viceversa? Tanto asiatica quanto europea o il contrario dell'una e 
dell'altra? Una Russia che "la ragione non è in grado di comprendere 
appieno e nella quale possiamo solamente credere" (come diceva 
magnificamente il poeta Tjutchev nel XIX secolo), oppure quella 
"robusta e dal grosso fondoschiena" (tolstozadaja) cantata da 
Aleksander Blok durante la Rivoluzione? "Con Cristo" o "senza la 
croce"? Semplicemente russa (russiskaja) o "di tutte le Russie" 
(vserossiskaja)? Qualunque cosa diventi, dovrà fare i conti con tutto 
ciò che l'ex Unione Sovietica le ha lasciato e tutto ciò di cui l'ha 
privata.
Noi, nati all'Est e formati nell'altra Europa, dobbiamo dar voce a 
questi ed altri interrogativi di fronte a tanti comportamenti 
conservatori, atteggiamenti tradizionalisti, mancanza di trasparenza 
o mentalità retrograda nella maniera di governare che riemergono in 
tanti paesi allo tempo stesso europei eppure tagliati fuori 
dall'Europa. E ciò soprattutto dove l'assenza di tradizioni 
democratiche appare evidente, laddove i diritti dell'uomo continuano 
ad essere violati e lo Stato di diritto è lungi dall'esser 
instaurato. 


I BALCANI IN CONTROLUCE

Chi approda nei Balcani non tarda a rendersi conto delle loro 
contraddizioni. Sono una penisola vera e propria o un grosso blocco 
del Continente immerso nel bacino mediterraneo? L’una e l’altra cosa 
alternativamente o, a seconda del luogo, sia l’una sia l’altro? Sono 
tanti i mari che lambiscono queste coste – l’Adriatico, lo Ionio, 
l’Egeo con, ai suoi confini, quello che viene chiamato il Mar Nero e 
quello, più piccolo, il Mar di Marmara. Il litorale non è tutto 
marittimo. L’entroterra è per la maggior parte montagnoso. Nessuno 
dei cinque mari che lo circondano aveva dato il nome a questi spazi, 
ma piuttosto i rilievi del loro interno: per gli antichi geografi 
erano Haemus e catena mundi, per gli Slavi «Vecchio Monte» (Stara 
planina) che i Turchi hanno tradotto nella loro lingua con Balcani.

In passato, i Balcani si chiamavano anche Penisola Illirica, Greca, 
Bizantina e, più di recente, «Turchia europea»: ciò rivela, fra 
l’altro, le diverse appropriazioni o appartenenze di questi 
territori. A differenza delle cugine appenninica e iberica, separate 
dal Continente da catene montuose, come le Alpi e i Pirenei, la 
Penisola Balcanica non offre, di fronte all’Europa centrale, una 
barriera difficile da superare.

Per vari geografi e storici sarebbero i fiumi Danubio, Sava e Kupa a 
delimitare la frontiera dei Balcani verso il Nord e l’Ovest. Lungo la 
costa, invece, i confini (soprattutto nei mappamondi più antichi) 
vengono posti nel golfo del Quarnero o addirittura in quello di 
Trieste. Dall’altro lato, a Est, la linea che potremmo tracciare 
passerebbe probabilmente attraverso la Dobrugia e si fermerebbe non 
lontano dal misterioso delta denubiano. Del resto queste 
delimitazioni sono relative e spesso arbitrarie e quelli che le 
propongono o le ratificano raramente concordano gli uni con gli altri 
ed il tracciato dei confini sulle antiche carte varia da un’epoca 
all'altra.

I Balcani vengono spesso identificati a oriente, nell’Europa, in 
funzione dell’angolazione dalla quale li si osserva e dal punto di 
vista che si adotta. E’ stato detto e ripetuto più volte che, vista 
dal centro del nostro Continente, questa “zona turbolenta” comincia 
già a Monaco di Baviera o a Vienna (si riporta la famosa battuta di 
Metternich che riguardava una Vienna più balcanica che 
mitteleuropea); gli abitanti di queste due città spostano questa 
“frontiera incerta” verso Lubiana e Zagabria (lo scrittore croato 
Miroslav Krleža la faceva partire dal prestigioso Hôtel de 
l’Esplanade al centro di questa città); mentre gli Sloveni o gli 
stessi Croati la spingono ben più a est, verso Belgrado o Sarajevo.

La questione della molteplicità e della diversità demografica è tanto 
vecchia quanto gli stessi Balcani. Ha suscitato l’interesse e acceso 
la passione sia di illustri saggi sia di ciarlatani. Si evoca spesso 
una curiosa ricerca fatta dal canonico di Sebenico che si faceva 
chiamare con un nome latino, Georgius Sisgoreus, e con un altro, 
croato, Juraj Šišgori‡. Vissuto all’epoca del Rinascimento, cantando 
la gloria di Venezia e al tempo stesso raccogliendo le opere popolari 
slave, questo erudito aveva tentato di fare il censimento delle 
popolazioni o delle tribù balcaniche, richiamandosi alle 
testimonianze degli antichi storici e geografi, enumerando strani ed 
esotici predecessori: Encheli (Encheleae) Himani, Peuceci 
(Peuceciae), secondo Callimaco; Soreti, Serapilli, Iasi, Andiseti o 
Sandiseti (Sandisetes), Colaphiani (Calophani) e Breuci, secondo 
Plinio; Norici, Antintani, Ardei (Ardiei), Pallarii e Giapodi 
(Japodes), poi Tribali, Daysi (Daysii), Istriani (Histri), Liburni, 
Dalmati (Dalmatae); Cureti o Croati (Curetes)», eccetera. A questa 
nomenclatura si aggiungono altri popoli Slavi, come pure le antiche 
popolazioni romaniche da loro cacciate. E si continua con gli Illiri 
e i Traci, antenati degli Albanesi; i Sarmati e i Geti (Getae), 
popolazioni “feroci e irsute”, stando alla descrizione che ne fa 
Ovidio durante il suo esilio in quei luoghi; ed in seguito i Goti, i 
Celti ed anche anche i Franchi che vi fecero più di un’incursione. 
Ma, sopratutto, i Balcani furono abitati dagli antichi Greci, nostri 
maestri, non dimenticando però i Pellasghi, che li precedettero, e 
persino i Peceneghi, i Gheghi, i Manii, i Morlacchi o Valacchi Neri 
(Mauri Volcae) e tanti altri che non sono citati in questo scritto 
per mancanza di spazio o forse per una sorta di negligenza, voluta o 
involontaria, atteggiamento non raro nei Balcani.

Lo spazio balcanico è disseminato dalle vestigia degli imperi 
sovranazionali che vi dominarono e dai resti dei nuovi Stati, nati 
dalle idee di nazione del XIX secolo e dalle ideologie 
internazionaliste del “socialismo reale” del XX secolo; eredità di 
due guerre mondiali e di una guerra fredda; vicissitudini dell’Europa 
dell’Est e di quella dell’Ovest. In definitiva, vi ritroviamo 
relazioni ambivalenti fra Paesi sviluppati e in via di sviluppo; 
tangenti e trasversali Est-Ovest e Nord-Sud; legami e fratture fra il 
Mediterraneo e l’Europa; l’Unione europea e “l’altra Europa”. Tante 
divisioni e faglie, linee di demarcazione o di frontiera, materiali e 
spirituali, politiche, sociali, culturali e altre ancora. Alcune 
parti di questo territorio recano marchi e ferite, inflitti sia dalla 
storia che da un passato al quale non è stato dato di essere 
realmente storico. 

Ogni volontà di allargarsi a scapito dell’altro si è rivelata in fin 
dei conti illusoria, e nell'allargarsi della follia nazionalista non 
c’è stato alcun spazio per una «grande Serbia», un’«Albania 
allargata», una Croazia comprendente la Bosnia-Erzegovina o una 
Bulgaria che si appropria della Macedonia. La penisola è troppo 
ristretta per tali manie di grandezza e risulta essere molto scomoda 
per simili ambizioni. Le sue frontiere sono già fissate, al suo 
interno e all’esterno. I giochi sono ormai fatti.

Alle differenze etniche e linguistiche vanno anche sommate diversità 
immaginarie e mitologiche. Ognuno pretende di avere radici più 
profonde dell’altro, ragioni più convincenti per impadronirsi dei 
territori vicini: fondate su stati e poteri che affondano nelle 
nebbie del passato. Gli avvenimenti reali e le loro rappresentazioni 
fittizie si sostituiscono così gli uni alle altre, la storia e il 
mito si confondono, le rivendicazioni trovano fondamento tanto su 
ambedue e, talvolta, contemporaneamente su entrambe. Gli argomenti 
che si invocano e le “prove” che vengono fornite sono considerati 
irrefutabili o addirittura „sacri“: si prevalica in nome del diritto 
storico; oppure si rivendica in nome del diritto naturale, con la 
pretesa degli uni di detenere la verità della storia e degli altri di 
possedere il diritto assoluto. I Balcani ne sono stati vittime 
innumeri volte, molto spesso per loro stessa colpa.

La storiografia tradizionale si è concentrata sopratutto sui popoli 
che “arrivano” e “si installano” nell'area piuttosto che su quelli 
che si sono amalgamati con le popolazioni autoctone. Le dispute o gli 
scontri che ne derivano assumono maggiore intensità e anche maggiore 
ambiguità proprio nel momento in cui questi popoli nazione 
rivendicano l'attribuzione di entità statale (Stato nazionale), per 
recuperare i ritardi passati e fare parte del consesso mondiale.

Altre divergenze, meno evidenti, si mescolano a questi processi di 
lunga durata. Una delle fratture più profonde e ancora permanente 
rimane quella provocata dallo scisma cristiano del 1054, che divise 
Chiese e fedi religiose, imperi e poteri, stili e scritture. 

Nel fossato che si è creato fra Bisanzio e la Latinità, all’interno 
del Cristianesimo cattolico e ortodosso, si è inserito l’Islam. 
L’Europa e il Mediterraneo si sono staccati e sono esplosi in seno ai 
Balcani. Nei conflitti, qui nati e ripetuti la fede risultava per lo 
più assente , ma non lo era la discordia religiosa. 

Nel corso dei secoli, questa specie di differenziazione ha creato una 
divisione continua fra i credenti, la divisione si è trasformata in 
opposizione, e l’opposizione in intolleranza; generando ostilità e 
odio, che sono diventati spesso la causa di violenze e di conflitti. 
Così, da una fase all’altra, si può seguire l’evoluzione di questi 
dissensi originari. Essi implicano contenuti reali, disseminati nel 
tempo e nello spazio, separati dalla loro matrice religiosa. 
Inscritti nell’immaginario collettivo, si prestano a varie forme di 
manipolazione. I “signori della guerra” ne hanno fatto abbondante 
uso, in particolare nel corso degli ultimi conflitti in Bosnia, in 
Kosovo, in Croazia, conflitti in gran parte non assimilabili alle 
guerre di religione, nell’accezione generale del termine.

La stessa balcanizzazione è legata a questi fatti che non sono sempre 
visibili a occhio nudo. La maggior parte delle popolazioni di questa 
regione non ha conosciuto autentiche tradizioni laiche. Ma non si 
tratta unicamente di una mancanza di laicità rispetto alla fede; si 
osserva un analogo atteggiamento anche nei confronti di un’idea 
nazionale concepita in senso religioso e, al tempo stesso, di 
un’ideologia (non solo nazionale) praticata in quanto religione. Si 
può infine spesso osservare la trasformazione di alcuni aspetti della 
cultura nazionale in un’ideologia della nazione. 

La letteratura, a sua volta, si riduce a una “letteratura nazionale” 
in senso stretto. Le energie, sia individuali che collettive, vengono 
così assimilate al mero nazionalismo. Questi fenomeni sono 
riscontrabili anche al di là dei Balcani, lungo tutte le coste 
mediterranee e altrove.

Non soltanto nei Balcani la storia viene scritta per lo più come 
storia nazionale e viene spesso osservata attraverso griglie di 
lettura troppo particolari, folcloristiche o epiche. Anche una 
sconfitta o una ferita possono essere promosse al rango di 
«avvenimenti fondanti» o assumere proporzioni smisurate a livello di 
coscienza o di immaginario, nel corso dei secoli. 


UN CASO EMBLEMATICO: IL KOSOVO

Le vicende del Kosovo, al di là dell'attualità del problema, possono 
costituire un «condensato» della interazione dei differenti elementi 
cui abbiamo accennato. Le questioni riguardanti il suo passato, la 
sua appartenenza o il suo status attuale vengono poste in termini 
molto diversi dagli storici o dai politici che appartengono alle 
nazioni che vi coabitano e da coloro la cui origine non è né serba né 
albanese. Le loro argomentazioni, anche quando partono dagli stessi 
dati, conducono generalmente a conclusioni diverse. Questo esempio, e 
la lezione che se ne può trarre per la storia dei Balcani, meritano 
un approfondimento.

Il passato geologico e la preistoria non pongono problemi: 
anticamente il Kosovo era un grande lago di cui il paesaggio conserva 
ancora tracce; il fiume Ibar ha portato le sue acque verso il Mar 
Nero, l’affluente Lepenac verso il Mar Egeo, lasciando attorno ai 
loro letti rocce svettanti e, al centro, vallate verdeggianti. 

Nel Medio Evo incontriamo il nome di Kosovo polje che significa 
«campo dei merli» (campus turdorum). Gli antenati degli Albanesi, 
Illiri o Traci, l'anno abitato dalla fine del terzo millennio a.C. 
Nel II secolo della nostra era Tolomeo segnala, fra le montagne 
dell’antica Dardania e della Macedonia, la presenza degli Albanoi. 
Nel VI-VII secolo d.C. gli Slavi (serbi) sono arrivati in questa 
regione, allora percorsa anche dai Valacchi (in parte discendenti dei 
coloni romani) e da altre popolazioni nomadi che attraversavano i 
Balcani. Tra il XII e il XVI secolo questo spazio è diventato il 
“cuore” del regno mediovevale serbo: lo Stato di Rascia (Raška – 
antico nome della Serbia) e, dopo aver conquistato alcune terre 
bizantine, vi si insedia nel 1180 lo zar Dušan, detto “Il Potente” 
(Silni), che stabilisce la sua residenza a Prizren; l’arcivescovo e, 
in seguito, il patriarca si insediano a Pe‡ e vi costruiscono il 
monastero di Gra?anica. Il re Stefano Uros II (1282-1321) si proclama 
“Re della Serbia, di Dioclea (l’odierno Montenegro), d’Albania e 
della costa” – il che prova anche che gli Albanesi vivevano nella 
stessa regione, mescolati agli altri sudditi del regno.

Questa é la situazione che precede la battaglia di Kosovo del 1389, 
nella quale i Serbi, nonostante l’aiuto offerto loro da alcuni vicini 
balcanici (fra i quali figurava anche un certo numero di Albanesi), 
subirono una grandiosa disfatta contro la potente armata ottomana. 
“Non avendo davanti agli occhi il ricordo di un passato glorioso” 
(utilizzo, all’occorrenza, le ricerche dello storico francese Georges 
Castellan, esperto di questioni balcaniche – e, fortunatamente, nato 
lontano da questa zona ), gli albanesi abbracciarono più facilmente 
la fede dei vincitori e “fornirono al Sultano un numero imponente di 
servitori devoti”. Quanto ai Serbi, furono costretti a effettuare una 
“Grande migrazione” (Velika seoba) senza abbandonare affatto la 
regione.

Nel 1690 l’esercito austriaco penetrò fino a Pe‡, distribuendo un 
proclama a “Serbi, Albanesi, Mesi, Bulgari, Illiri, Macedoni e Rasci” 
per invitarli a sollevarsi contro gli Ottomani. In questa vicenda i 
Serbi ricoprirono un ruolo importante, trascinati dal patriarca 
Arsenio III Œrnojevi‡. Gli insorti dovettero però ripiegare ed 
emigrare (le fonti, che si possono ritenere obiettive, parlano 
all’incirca di 70-80 mila persone), beneficiando dell’asilo concesso 
loro da Leopoldo I nei suoi Stati. Così il loro numero nel Kosovo 
diminuì una volta di più, e in maniera abbastanza consistente. Nel 
1903, il Consolato austro-ungarico di Prizren effettuò – non si sa 
come – il censimento della popolazione dal quale emergeva che essa 
risulta composta per il 45% da Serbi e per il 55% da Albanesi. Si 
trattava probabilmente di una cifra approssimativa. 

Alla fine delle guerre balcaniche, lo Stato serbo occupò la regione 
nel 1912 e, dopo la Prima guerra mondiale, attuò una riforma agraria 
togliendo agli antichi proprietari turchi le loro terre, 
distribuendole ai nuovi colonizzatori serbi e montenegrini a scapito 
degli abitanti albanesi che vivevano lì poveri e indifesi. 

Dopo la Seconda guerra mondiale la popolazione albanese registrò il 
tasso di crescita più elevato in Europa e , arricchita dal lavoro 
all’estero dopo l’apertura delle frontiere da parte della ex 
Jugoslavia, spinse i Serbi del Kosovo a un lento e inesorabile esodo 
cosicchè, prima dell’inizio dell'ultimo conflitto in Kosovo e della 
mostruosa “pulizia etnica” messa in atto dalle milizie di Miloševi‡, 
la regione annoverava il 90% di Albanesi contro il 10% di Serbi. Per 
l'oggi non si dispone di dati affidabili riguardanti la composizione 
etnica della regione.

La situazione si presta, come si vede, a interpretazioni molto 
diverse, a seconda del punto di vista di chi la osserva e ne trae le 
conclusioni. In questo contesto, un tema risulta particolarmente 
penoso e difficile da affrontare: quello della crudeltà, di cui ci 
hanno dato di recente una testimonianza le immagini riprese dal vivo. 
Alcuni si rifiutano di parlarne per non offendere una popolazione la 
cui maggioranza non ne è affatto responsabile; altri, originari di 
questi Paesi, preferiscono tacere perché se ne vergognano. Vorrei 
affrontare questo triste discorso partendo da una delle scene più 
atroci della letteratura del nostro secolo.

Uno dei primi capitoli de “Il ponte sulla Drina” (1945), l’opera di 
Ivo Andri‡ (scrittore di origine croata e bosniaca, serbo di adozione 
e iugoslavo di vocazione, premio Nobel per la Letteratura nel 1961), 
descrive spietatamente l’impalamento di un serbo ribelle sotto 
l’impero ottomano: «Un palo di quercia lungo circa tre metri, 
ricoperto di ferro battuto, con una punta sottile e aguzza»; un uomo 
vivo, «infilzato a questo palo come un agnello allo spiedo, solo che 
la punta non gli usciva dalla bocca, ma dalla schiena, – e non erano 
stati lesi in modo grave né l’intestino, né il cuore, né i polmoni». 
Occorre un’operazione grandemente professionale e sofisticata per 
evitare le lesioni degli organi vitali; occorrono diversi strumenti – 
una decina di martelli e martelletti con cui spingere a poco a poco 
il palo nel corpo. La vittima deve sopravvivere così alcuni giorni: 
«gonfia, impettita e nuda fino alla cintola», «fissata tra due travi» 
sputando «una schiuma bianca», gridando e ringhiando. È la sorte che 
aspetta al ribelle.

Possiamo immaginare nel corso dei secoli migliaia di queste vittime 
lungo le strade fangose dei Balcani. La sofferenza incarnata dalla 
sorte, il male interiorizzato in questo modo e la rivolta o la 
vendetta che suscitano, tutto ciò non è “conservato” o “decantato” 
solo all’interno del corpo o nel fondo della memoria, ma anche da 
qualche altra parte: non sappiamo esattamente né dove né come! Un 
giorno le circostanze risvegliano questi stati torbidi e 
traumatizzanti, li attivano sotto forma di resistenza o di 
aggressione, di sacrificio o di crudeltà.

A scuola ci hanno insegnato che, proprio grazie ai supplizi subiti 
dai nostri avi, Vienna non è mai stata conquistata dalle «orde 
asiatiche», così come Venezia o Trieste e che senza questi sacrifici 
non ci sarebbero stati il Rinascimento in Italia e nemmeno la 
prosperità della Mitteleuropa. «L’abbiamo pagata con il nostro 
sangue». Abbiamo contribuito così a «salvare l’Europa e la sua 
civiltà». 

Più a nord, sarebbero stati “i nostri fratelli russi” a frapporre uno 
scudo analogo, ancora più resistente, alle crudeli invasioni dei 
popoli delle steppe al di là degli Urali, proteggendo così i Paesi 
che sarebbero diventati la parte più progredita del Continente. Mi 
ricordo che quando ero adolescente seguivo questo insegnamento e 
accettavo – ahimè! – con un certo orgoglio alcune delle sue 
argomentazioni.


NUOVA EUROPA E BALCANI: QUALE FUTURO?

In questo quadro storico e politico vanno inserite le nuove 
contraddizioni dei Balcani, area in cui un passato lontano e molti 
avvenimenti recenti hanno inferto ferite che continuano a sanguinare. 
Le esperienze acquisite sotto i regimi imposti dal “comunismo 
staliniano” occultano un’altra eredità dolorosa. Accanto ad alcuni 
tentativi positivi di ”edificazione socialista”: industrializzazione, 
aumento della produzione, sicurezza sociale diffusa, occupazione e 
scolarità più accessibili, alfabetizzazione, eccetera, un alto numero 
di fallimenti aggrava irrimediabilmente il bilancio: l’Albania di 
Enver Hoxha, la Romania di Nicolae Ceausescu, la Bulgaria di Todor 
Živkov, persino la Iugoslavia di Tito, ieri senz'altro più prospera 
degli altri «Paesi dell’Est», che non ha resistito ai regolamenti di 
conti nazionalisti.... E il fenomeno va ben oltre, da un paese 
all'altro: equivoci tra Serbia e Montenegro, conflitti tra kosovari 
albanesi tesi tra Grecia e Turchia, rapporti ambigui tra Bulgaria e 
Macedonia, questione ungherese in Transilvania, rumena in Moldavia, 
greca e turca in Cipro, macedone in Grecia, serba in Croazia, turca 
in Bulgaria, più di due milioni di esiliati o «sfollati». Mille 
maniere diverse di assumere e vivere un'»identità post-comunista», di 
porre e di risolvere l'eterna «questione nazionale» e quella delle 
minoranze, oppure di rivedere frontiere considerate «ingiuste» e «mal 
tracciate», di subire o rifiutare la famosa «balcanizzazione» che, 
come il Destino nelle tragedie nate sotto i cieli di questa penisola, 
continua a separare anche ciò che sembrava indiviso e indivisibile.

Si fanno divisioni senza che resti molto da dividere. Abbiamo creduto 
di conquistare il presente e non riusciamo a gestire il passato. In 
molti di questi paesi, è stato necessario difendere un patrimonio 
nazionale. Oggi, in parecchi casi, occorre difendersi da questo 
stesso patrimonio. Cosa che vale anche per la memoria: dovevamo 
salvaguardarla, e adesso sembra punire gli stessi che l'hanno 
salvata. Tanti eredi restano così senza eredità.

Al di fuori e al di là di questa panoplia è necessario però anche 
rovesciare la medaglia e citare una ricchissima produzione letteraria 
e artistica, autentici tesori che queste terre hanno dato all'Europa 
nonostante le condizioni di cui si è parlato. Si possono fare i nomi 
di Andri‡ e di Krleža (quest’ultimo, pur nato a Zagabria, non ha mai 
perso di vista la realtà balcanica). Il romanziere serbo Miloš 
Crnjanski merita un posto accanto a loro, come pure lo scomparso 
Danilo Kiš, mio amico, “ibrido” ebreo e montenegrino, iugoslavo ed 
europeo a tutti gli effetti. I greci Nikos Kazantzakis con la sua 
prosa, Seféris o Rítsos con la loro poesia si rivelano degni della 
grande eredità ellenica. L’Albania ci ha dato un romanziere geniale, 
Ismail Kadare, che figura fra i più importanti autori contemporanei 
europei. Ivan Vazov e Georgi Karaslavov hanno aperto la strada 
maestra al romanzo bulgaro che altri, prosatori e poeti, hanno saputo 
percorrere dopo di loro. I poeti macedoni Aco Šopov e Blaže Koneski 
hanno contribuito con le loro opere a codificare la lingua della loro 
nazione. Grazie alla sua opera e al suo esempio, il “gigante turco” 
Jachar Kemal è letto e apprezzato in egual misura sulle due coste del 
Bosforo. La letteratura rumena ha varcato le proprie frontiere, 
consacrando, fra gli altri, alcuni grandi autori di lingua francese: 
Panaït Istrati, “meteco” greco-rumeno, Tzara, Ionesco, Cioran... 
Interrompo qui questo elenco che, nei limiti di questo scritto, non 
può evitare di restare incompleto, di parte, se non addirittura 
parziale.

Anche questo sono i Balcani, “questo spazio che produce più storia di 
quanta possa consumarne” ( W. Churchill), per gli uni la “vetrina” 
del nostro Continente, per gli altri il suo “termometro”: la “culla 
d’Europa” o la sua “polveriera”.

L'allargamento dell'Unione Europea avviene in una situazione in cui 
numerosi problemi della stessa Unione non riescono a risolversi. 
Quest’ultima stenta a formulare la sua propria Costituzione e a 
renderla accettabile a tutti i suoi membri, attuali e futuri. I 
Balcani rimangono ancora lontano dalle scelte europee, dai processi 
di integrazione stabiliti sulla base di accordi in vigore.

Le nuove frontiere, talvolta implicite, continuano a crearsi: un 
fossato fra l’Europa continentale e il Sud euro-mediterraneo, un 
abisso fra il Nord e il Sud del Mediterraneo, una posizione 
indefinita dei Balcani - e nei confronti dei Balcani stessi. A tale 
proposito ogni conclusione dovrebbe guardarsi delle ipotesi 
congetturali o contingenti.

Si tratta di un lavoro che spetta alla storia. 

(traduzione italiana di Giacomo Scotti)

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