IL CRIMINE NON PUO' ESSERE DIMENTICATO - GLI AUTORI DEVONO ESSERE PUNITI



IL CRIMINE NON PUO' ESSERE DIMENTICATO - GLI AUTORI DEVONO ESSERE PUNITI

Decimo Anniversario dell'inizio della guerra in Bosnia Erzegovina

Il 6 aprile è stato il decimo anniversario dell'inizio della guerra in
Bosnia Erzegovina. Per conmemorare questo giorno, Donne in Nero di Belgrado
e Donne per le Donne di Sarajevo hanno organizzato un incontro,
"Testimonianze dal massacro di Srebrenica" nel Centro per la
Decontaminazione Culturale a Belgrado. Zumra Sehomirovic e Kada Hodzic del
Movimento delle Madri delle enclave di Srebrenica e Zepa hanno portato le
loro testimonianze. Attiviste di venti città di tutto il paese,
rappresentanti della vita pubblica e culturale e di organizzazioni non
governative hanno partecipato all'iniziativa.

STASA:
Mi rivolgo alle nostre care amiche di Bosnia Erzegovina, nostre sorelle
nella pace, ma non solo nella pace; anche amiche con cui abbiamo stabilito
molti legami in questi anni, Zumra, Kada e Jadranka.
Vi leggerò una frase del libro che ho appena letto, "Giustizia, non
vendetta", di Simon Wiesenthal, pubblicato da Svijetlost, regalatomi dalle
mie amche di Sarajevo, che dice "Non è del tutto bene includere tutto nei
libri perchè i libri, al contrario delle persone, non si possono
interrogare".
In qualche modo, amiche, mi piacerebbe non solo "interrogarvi"; siamo qui
anche per ascoltarvi. Il vostro dolore è risuonato nelle nostre orecchie e
potevamo sentirvi anche se non eravate in grado di  raccontarlo. Che siate
venute qui è molto importante per noi. Quel che tentate di trasmetterci è
della più grande importanza. Da parte nostra vogliamo rispettare la vostra
dignità di persone e donne chiedendovi di decidere di cosa vi piacerebbe
parlare e cosa desiderereste chiederci.
Per tutto ciò, vorrei ringraziarvi a nome delle Donne in Nero, e più
ampiamente, a nome di tutti quei cittadini di Belgrado che ci hanno
appoggiato e con i quali abbiamo tentato di trasformare azioni
intrínsecamente deplorabili in azioni contro la guerra; vorrei ringraziarvi
per aver trovato la forza per venire qui e ascoltare le nostre opinioni e
valutazioni individuali. E, soprattutto, vorrei ringraziarvi per non
considerarci parte della storia collettiva. Questo non è stato facile in
assoluto perchè le nostre attività si sono svolte in una città il cui
regime aveva commesso innumerevoli atrocità ed è stato responsabile del
massacro nella vostra Srebrenica. Pertanto, sappiamo che siamo responsabili
di quel che ognuno di noi ha fatto o non ha fatto. Sappiamo che l'autonomia
morale ci induce ad accettare la responsabilità per ciò che è stato fatto
in nostro nome. E' anche nostro desiderio, in questo senso, riconoscere e
mostrare rispetto per la vostra sofferenza e il vostro strazio. Tuttavia,
non desideriamo sapere semplicemente per alleviare i nostri sensi di colpa,
responsabilità o vergogna, ma perchè giustizia ed onestà ci impongono di
confrontarci con quel che è accaduto. In questo senso, desideriamo
sostenere il vostro desiderio di lavorare insieme per creare la pace. Pace
non solo come assenza di guerra, ma pace come desiderio di confrontarsi con
la responsabilità di quelli di cui siete state testimoni e con cui avete
vissuto.

KADA:
A tutte, benvenute, molto affettuosamente. Come mi sento? Il mio cuore
salta di allegria vedendo quanta gente c'è a Belgrado che comprende me e la
mia sofferenza; che ci comprende, noi della Bosnia, che, per ragioni che
non arrivo a comprendere, siamo stati in qualche modo maledetti e
condannati ad essere vittime.
Siamo stati privati delle persone a noi più care. Io ho perso mio figlio,
mio marito e mio fratello e non ci sono più uomini nella mia famiglia.
Tuttavia, grazie a Dio, mi rimane una figlia che mi ha dato due nipoti e,
in qualche modo, ho di nuovo una ragione per vivere e qualcuno per cui
vivere. Però questo non è tutto; è un sollievo enorme sapere che,
nonostante la terribile tragedia, continuo ad essere circondata da amici
senza il cui appoggio e comprensione sarei rimasta a pezzi.
Sapere che ci sono persone che desiderano ascoltarci e che ci comprendono
mi ha riportato in vita. Nonostante il disastro che ha distrutto tutti noi
- perché quando la politica impone il suo dominio, manda tutto all'aria -
c'è stata gente che ha resistito. Sono state le Donne in Nero con le quali
siamo state in contatto e abbiamo condiviso le nostre idee. Abbiamo saputo
rispettarci le une le altre, ascoltarci tra noi e riconoscere il diritto
alla vita, all'amore, alla bellezza e al lavoro. In realtà, un essere umano
deve avere diritto a tutte queste cose indipendentemente da cosa siamo,
musulmani, serbi, croati, africani o qualsiasi altra cosa. Tutti abbiamo
diritto alla vita e a scegliere il nostro dio in base a quel che sentiamo.
E' un diritto umano fondamentale.
Nom mi dilungherò oltre. La guerra è realmente qualcosa che genera orrore e
Dio voglia che non tocchi mai più a nessuno. Personalmente sarei incapace
di tornare a vivere tutto quel che ho passato.
Nessuno sapeva di noi quando eravamo a Srebrenica. Nonostante fossimo
bersaglio di spari, assassinati e torturati in tutte le forme possibili e
che non desidero ricordare. Quelli di noi che siamo riusciti a sopravvivere
resteremo profondamente e dolorosamente colpiti per sempre. Tuttavia, in
qualche modo, io mi sento orgogliosa di poter discernere quando le persone
sono davvero autentiche; quando si comportann con ragionevolezza. Credo che
questo mi darà la forza necessaria per unirmi a loro nella lotta contro la
malvagità perché non torni a prevalere di nuovo. Di fatto posso assicurarvi
che la guerra non porta nient'altro che miseria, povertà e sofferenza. E
certamente non possiamo dimenticare la sofferenza. Quel che dobbiamo fare è
costruire un futuro migliore, per i miei due nipoti, per i vostri figli e
per le generazioni che verranno.
In qualche modo, mi sento confusa ma, anche, felice di stare qui tra tutti
voi, perché mi è stata data l'opportunità di parlare di tutto quel che ho
passato e, specialmente, perché mi avete restituito la fiducia nelle
persone. Grazie per questo.

ZUMRA:
Sono Zumra Sehomirovic di Srebrenica. Molti di voi mi conoscono e molti no.
Questa è la mia seconda visita qui e posso dire che mi sento davvero bene
qui e che mi piacerebbe salutare tutti voi.
Dopo Novi Sad questa è la seconda volta che vengo in Jugoslavia, a Belgrado
questa volta e, in qualche modo, con voi mi sento come se fossi tra la mia
gente.
Sono sempre stata forte e orgogliosa, credetemi. Però negli ultimi dieci
anni la mia vita ha avuto una svolta negativa. Tuttavia, essere circondata
da gente che mi offre il suo affetto e speranza per un futuro migliore mi
ha aiutato a ritrovare il mio orgoglio.
Nell'aprile del 1992 quando cominciò la guerra in Bosnia Erzegovina, il
caso ha voluto che mi trovassi nella mia città natale e improvvisamente mi
sono trovata immersa in un vortice in cui sono rimasta presa fino ad oggi.
Sono riuscita ad andare avanti e a restare a galla con la speranza che un
giorno potrò risollevarmi.
Gli inizi della guerra mi hanno sorpresa impreparata. Non ero cosciente da
chi dovessi aspettarmi di essere attaccata, da dove sarebbe venuta la
minaccia, chi mi avrebbe privato delle cose più preziose e care della  mia
vita. Chi in definitiva stava per togliermi la vita, la vita che avevo
diritto di vivere. E credetemi, sono stata privata di tutto  durante la
guerra. Appena iniziata la guerra siamo stati assediati, isolati e abbiamo
vissuto così per tre anni e mezzo in un enclave di 60.000 persone. Persone
che non solo erano abitanti di Srebrenica, ma anche molti rifugiati di
località da Zvornik fino a Visegrad, fuggiti a Srebrenica cercando rifugio.
Dall'inizio della guerra semplicemente abbiamo lottato per sopravvivere.
Non eravamo in una zona agricola, non avevamo terra, non avevamo orti né
campi  coltivati. Ci guadagnavamo la vita. La nostra città aveva
un'industria solida e sviluppata, tutti eravamo occupati, avevamo un
lavoro. Avevamo anche una stazione balneare - Guber, famosa per le sue
acque ferruginose che curano molte infermità -; la comunità quindi aveva
delle entrate di cui la popolazione  beneficiava .
Subito, dopo l'arrivo di una gran valanga di gente, gli alimenti
cominciarono a scarseggiare. Noi, i residenti di Srebrenica, abbiamo
condiviso quel che avevamo con quelle persone e tutti noi siamo rimasti
senza cibo. Abbiamo dovuto arrangiarci, andando a Bratunac, al villaggio di
Volavica, dove la gente aveva cibo perché è una zona agrícola e la
popolazione aveva alimenti immagazzinati. Così i contadini si trovavano
fino a 80 o 100 persone nei loro poderi a cercare cibo: mais, grano,
fagioli, quel che avevano. Così andò avanti finché ci fu cibo. Quando
quelle provviste finirono, la gente rastrellava i campi raccogliendo maiz
verde, e quello salvò le loro vite. Mia zia, che era scappata da Zaluzje,
diceva che lei aveva dovuto andare a raccogliere erbe per poter nutrire  la
famiglia.
La vita in città era molto difficile. Alla fine del 92 e all'inizio del 93,
la gente moriva di fame. I primi ad andarsene furono i bambini e gli
anziani. Ci nutrivamo dei germogli dei noccioli; grattuggiavamo la
corteccia e facevamo pane; mangiavamo corteccia di nocciolo che era quasi
impossibile digerire. La gente non poteva resistere e morivano uno dopo
l'altro. Morivano letteralmente di fame. Bambini affamati andavano di porta
in porta, con occhi come piatti, facendo una semplice domanda: C'è un po'
di pane?. Nessun bambino chiedeva mai dolci o cioccolata, solo pane.
Eravamo accerchiati da tutti i lati. C'era un carroarmato su ogni montagna
che circondava Srebrenica e tutti i cannoni erano puntati sulla città.
Eravamo bombardati ogni giorno, e ogni colpo andava a centro. Credetemi,
non c'era tempo per piangere i morti a Srebrenica, perché ti potevano
uccidere in qualsiasi momento. Si dimenticava subito chi era stato ucciso
due o tre ore prima perché c'erano nuove perdite in ogni momento. Ho
lottato per sopravvivere con grande difficoltà, però in qualche modo mi
sono arrangiata per nutrire la mia famiglia. Disgraziatamente, mio figlio
fu ferito il 13 ottobre del 92, e quella fu un'esperienza spaventosa. Non
avevo cibo, e lo dimisero dall'ospedale al terzo giorno perché le
condizioni lì erano raccapriccianti. L'ospedale si trovava in uno stato
deplorevole. Si praticavano amputazioni di braccia e gambe con seghe
comuni, perché non c'erano strumenti chirurgici. Avevamo solo un reparto di
medicina interna, non c'era un reparto di chirurgia, e le ferite si
curavano nel modo più primitivo. Dopo due giorni in ospedale abbiamo
portato nostro figlio a casa, perchè non sopportavamo di vederlo in quelle
condizioni, e il dottore venne a casa a  dargli i punti. Era una ferita
aperta, tanto grande da contenere la mia mano. Quando il dottore cominciò a
fare il suo lavoro, mio figlio gridava così forte che ho pensato che le
tegole del tetto sarebbero esplose. Poi, inzuppato di sudore, prese un
cuscino del sofà e se lo mise in bocca. Ancora non riesco a spiegarmi come
ha fatto. E fu così che riuscì a cavarsela.
Però in gennaio mio figlio si ammalò di epatite e praticamente non avevo
più cibo. Voi potete immaginare come mi sentivo con lui malato e senza un
po' di zucchero né un pugno di farina, senza parlare delle altre cose di
cui una persona malata ha bisogno.
La guerra nel suo insieme era stato molto diffícile. Però devo dirvi che io
ero una lavoratrice tessile e lavoravo per una fabbrica. Era una fabbrica
di ricamo fine di Zvornik. Avevo un laboratorio nella nostra città dove
facevamo lavori per il mercato europeo. Durante la guerra siamo riusciti a
salvare i macchinari e a lavorare sotto il fuoco incrociato. Cucivamo
berretti e indumenti per neonati. Era rimasta un po' di tela nel
laboratorio e, fino alla fine del 93, abbiamo ricevuto della tela
dall'ACNUR, così abbiamo potuto fare pantaloni e camicie per i nostri figli
perché avessero qualcosa da mettersi.
I primi aiuti umanitari sono arrivati il 7 marzo del 93. Gli aerei
nordamericani hanno lanciato dei pacchi con razioni alimentari che
permisero un vero cambiamento di dieta l'8 marzo. Era la prima volta che
avevamo cibo decente sulle nostre tavole. Per tre anni e mezzo siamo stati
senza sale e già questo di per sè è stato duro. Quando gli stranieri ci
chiedono com'era allora, noi dciamo loro di fare pane senza sale e cucinare
fagioli senza sale, e così sapranno come era per noi.
Nonostante tutto, eravamo riusciti a sopravvivere a tutte queste difficoltà
e verso il 93, quando Srebrenica fu proclamata zona protetta, siamo stati
posti sotto la protezione dell'ONU. E questo fu possibile grazie alle donne
di Srebrenica, che si organizzarono e fermarono Philippe Morillon. Se non
fosse stato così, Srebrenica non sarebbe stata smilitarizzata. Le donne di
Srebrenica sorvegliarono il generale Morillon giorno e notte in turni
organizzati, impedendo che se ne andasse, perché allora Srebrenica sarebbe
stata immediatamente distrutta. Fu allora che avvenne il disarmo. Le poche
armi che aveva la cittadinanza, fucili da caccia, e alcuni fatti a mano che
mi è capitato di vedere - lunghi 60 o 70 centímetri, certamente molto
rudimentali - ci furono confiscate, distrutte e fummo posti sotto
protezione. Ma sebbene fossimo protetti, eravamo di nuovo bersagliati e
bombardati dalla Serbia. Ci bombardavano aerei che i serbo-bosniaci non
possedevano. Devo dire che solo l'Esercito Nazionale Jugoslavo (JNA) aveva
i MIG. I bosniaci non li avevano. Sono stati i MIG a bombardarci, da Tara,
da Pnikve, vicino a Kadinjaka, dal territorio jugoslavo. Non siamo stati
bombardati dalla Bosnia ma dalla Jugoslavia.
Hanno continuato a colpirci ogni giorno e la gente cadeva morta in ogni
momento. Un giorno di agosto del 93, davanti ad una scuola secondaria, nel
pomeriggio, dei giovani si erano riuniti in un campo di footbol per un
torneo tra gente di Zvornik e Srebrenica, perchè c'erano rifugiati di
Zvornik e di Vlasenica, e di altri luoghi. Mentre giocavano, i cetnici
spararono quattro colpi di mortaio dalla montagna e 86 personas furono
assassinate sul posto. C'erano fiumi di sangue da tutte le parti e corpi
straziati, teste e gambe e braccia che non si potevano ricomporre.
Questo può risultare un po' pesante, però sento la necessità di dirvi quel
che ci è accaduto. Ogni bombardamento provocava una paura tremenda, bastava
il semplice rumore degli aerei. Quando i MIG ci attaccavano, a sorpresa
c'erano anche delle altre bombe di cui non avevo sentito parlare prima. E
spesso siamo stati bombardati da piccoli aerei che si utilizzano in
agricoltura. Le loro bombe erano caricate con chiodi e piccoli pezzi di
ferro, e quando esplodevano, scoppiavano in aria. Quelli che venivano
colpiti, non potevano sopravvivere. Questo può sembrare incredíbile, ma io
conosco gente che con un graffio di 5 millímetri non è sopravvissuta.
Dovevano essere impregnati di qualche sostanza tossica e non eravamo
attrezzati per curare quel tipo di ferite. Bene, tutto questo è accaduto
andando avanti fino al 95.
Nel maggio del 95, circolava la voce che dovevamo essere attaccati da
truppe di Uzice o di Valjevo o Novi Sad, e noi ci chiedevamo cosa
c'entravano le truppe di Novi Sad con Srebrenica. Sembrava un po' strano,
però, effettivamente, l'11 luglio dovemmo fuggire dalla nostra città.
Eravamo stati attaccati da truppe di Novi Sad, Valjevo e Uzice
simultaneamente, e anche dalle truppe di Drina e Bosnia Erzegovina. Così,
l'enclave di 60.000 persone era stata attaccata da una tale quantità di
effettivi con il proposito di eliminarla nel modo più crudele; in effetti
più di 10.000 persone furono uccise. Quell'11 luglio alle 3 in punto,
lasciai la mia casa. Me ne andavo aspettando notizie e quella fu l'ultima
che sentii in casa, perché, purtroppo, non sono ancora tornata. Vivo come
rifugiata in un'altra città, però nella mia Bosnia Erzegovina. Riuscii a
sentire le notizie con difficoltà quando dovetti lasciare la mia casa. Mio
marito ed io avevamo solo le nostre giacche.
Però non vi ho detto che mio figlio se n'era andato da Srebrenica a
settembre del 94, quando era andato a Zepa a comprare provviste. Il ragazzo
mi ingannò. Lo aveva progettato con alcuni amici e non mi aveva nemmeno
informato. Sei giorni dopo ho saputo che mio figlio era passato nel
territorio libero di Tuzla, grazie a Dio. Riuscì a sopravvivere.
Mentre lasciavamo la nostra casa mio marito ed io, solo portando i nostri
vestiti, egli disse: "Sai, dobbiamo tornare e seppellire sotto la legna il
poco cibo che abbiamo lasciato, perché la gente entrerà nella nostra casa e
porterà via le ultime provviste che restano". Era una torrida giornata di
luglio, estremamente dura per noi. Tornammo e seppellimmo sotto la legna 10
chili di farina, due litri d'olio, un chilo di zucchero e un pugno di sale.
Non pensavamo che non saremmo tornati, che saremmo stati lontani tanto
tempo. Dovevamo andarcene, perché le prime orde di cetnici stavano entrando
nella città sparando. C'erano tanti spari che anche ora, quando i miei
ricordi tornano a quel giorno, mi sembra che il cielo fosse in fiamme, per
non parlare della terra. Mentre andavamo per la strada cadevano proiettili
da dietro, ed ogni volta che un proiettile colpiva l'asfalto, sscintillava
davanti ai miei occhi, però, in qualche modo, abbiamo avuto fortuna e siamo
passati.
Arrivammo a Potocari, perchè le truppe dell'ONU, i soldati del battaglione
olandese, ci avevano detto di andare nella loro base, dove saremmo stati in
salvo, come ci dissero. Il viaggio a Potocari fu diffícile, sotto una
pioggia di fuoco di mortaio, che riuscii ad attraversare uscendone viva.
Non dimenticherò mai il mio incontro con quelle deboli anziane davanti al
pronto soccorso del centro díurno. Una dozzina di donne anziane giacevano
su materassi di gommapiuma; semplicemente, le avevano messe lì perché
ovviamente nessuno aveva tempo per riunirle o portarle da qualche parte,
così stavano abbandonate e senza speranza, ed io non potevo aiutarle.
Scendendo per la strada, arrivai alla mia fabbrica, il laboratorio di
ricamo, dove c'era un gruppo di persone anziane sedute sul marciapiede
tentando di allontanarsi un po' andando carponi. A circa cinquanta metri da
lì c'era un veicolo da trasporto e mio marito chiese a un soldato olandese
di tornare indietro e raccoglierli. Riuscì a farsi capire e a convincerli a
portarli a Potocari.
Camminando per quel lungo tratto di 5 kilometri di strada in quel torrido
giorno di luglio, vedevamo da tutte le parti mucchi di vestiti, scarpe e
altre cose abbandonate sulla strada perché la gente non poteva proseguire
con dei carichi. A Potocari, ci imabattemmo in un gruppo di gente
esasperata che non sapeva né dove andava né cosa stava facendo lì. Andavano
avanti a chiedersi l'un l'altro quando erano arrivati, dov'erano certe
persone, se le avevano viste e dove erano andate. Passai due notti a
Potocari all'aria aperta. Di giorno faceva molto caldo, ma di notte faceva
molto freddo.
La prima notte avevamo qualche speranza che saremmo rimasti lì solo un  po'
di tempo prima di tornare alle nostre case. Il secondo giorno, era martedì,
i cetnici entrarono e cominciarono a chiamare per nome alcune persone e a
portarsele via. Fu allora che portarono via due fratelli di Kada e i due
figli del nostro Habib, della famiglia Tepic, tutta gente che conoscevo e
con cui avevamo vissuto. Di nuovo, alcune persone si fecero strada verso
l'interno e lessero dei nomi da una lista, e quelle persone non tornarono
mai. Dopo averli presi, altri uomini in divisa cercavano di farsi strada
tra di noi. Tutti portavano le divise dei soldati olandesi e tutti avevano
i caschi con il símbolo dell'ONU. Allora ci fu subito un gran vociare, un
clamore agitato. "Cosa diavolo stanno facendo questi soldati olandesi, si
stanno portando via i nostri figli, perché li vogliono, che ce li
restituiscano!". Se incontravano una ragazza giovane, questa doveva andare
con loro. Era incredíbile: ci avevano invitato alla loro base per
proteggerci, e ora ci facevano questo! Certo, la verità è che i cetnici
avevano disarmato i soldati olandesi, avevano indossato le loro divise e si
mescolavano tra la gente per commettere atrocità. Portavano via uomini,
portavano via ragazze e cominciarono ad assassinare e a pugnalare già al
secondo giorno.
La seconda notte a Potocari fu la più dura. Non riesco a trovare le parole
per descrivere quelle grida, i gemiti e la miseria che si diffondeva tra la
gente; nessuno che non ci sia passato può capirlo. Erano  grugniti orrendi,
lamenti e urla che le parole non possono esprimere o descrivere. I film
horror sono ben lontani da quella realtà.
E devo dire che non sono riuscita a dormire molto ultimamente, e che vedo
nella mia mente questo film, e dico a me stessa: Dio mio, continuo a
parlare della sofferenza umana, ma devo anche ricordare quella degli
animali. Il gemere del bestiame legato e il nitrire dei cavalli affamati e
assetati risuonavano durante le sorde ore della notte. Credetemi, è stata
una tragedia per entrambi, persone ed animali.

KADA:
Lasciamo Zumra riposare un po'. Avrei voluto risparmiarvi di ascoltare la
sua terribile storia, ma quella notte a Potocari - credetemi - ho creduto
che fosse la fine del mondo. Sentivamo la gente che moriva. Una donna si
lamentava: "Loro hanno pugnalato mio figlio, i soldati delle Nazioni Unite
(UNPROFOR) hanno pugnalato mio figlio."
Questo non si può descrivere. All'alba mio marito era uscito un po'. Si
erano portati via mio fratello quel pomeriggio. Dissi a mio marito:
"Andiamocene da qui, anche se ci pugnalano, non posso più sopportare questa
situazione." Si stava costruendo una barricata. Alllora arrivò un camion.
La gente era ammucchiata in modo tale che non c'era spazio per muoversi.
Nonostante ciò, il camion si diresse verso la folla. Cosa successe a quelli
che finirono sotto le ruote? Se qualcuno sveniva non poteva nemmeno cadere
per terra da quanto eravamo stretti. Il calore soffocanteŠ senza acquaŠ. la
gente che piangevaŠ Circa 20 donne partorirono prematuramente, in quella
confusione. Non potevamo cercare aiuti da nessuna parte. Allora apparvero i
veicoli per il trasporto. Ci fu un po' di sollievo perché si saliva sugli
autobus pe andare da qualche parte. Un gruppo di persone, ricordo che erano
vestiti di nero, puntarono un'arma alla nuca di mio marito. Lo guardai
brevemente mentre se lo portavano via. Sparì prima che io potessi
pronunciare una parola.
Così salii sull'autobus senza parole e con la mente svuotata. Avevo smesso
di pensare. Non avevo nessun desiderio di vivere, nulla. L'autobus correva
e correva. L'autista mise una cassetta e la musica cominciò. Questo, in
qualche modo, mi svegliò. Provai rabbia, ed egli si guardò attorno e capì
che la musica era l'ultima cosa che volevamo. Aprì un pacchetto di Malboro
e lo passò nel corridoio. Aveva un accento particolare, doveva essere della
Serbia. Tutti gli autobus appartenevano a "Strela" di Valjevo, "7 Luglio"
di Sabac, "Lasta" e "Trasporto" di Zvornik. Tutte quelle ditte erano
coinvolte in quel tipo di trasporti. In ogni modo, quell'uomo si comportò
davvero come un essere umano; c'era una nota di compassione in lui. Si
girò, i bambini stavano piangendo e disse che si sarebbe fermato per
cercare dell'acqua, ed effettivamente si fermò lungo la strada. Prese
dell'acqua e disse: "Datela ai bambinie e abbiate cura di loro, sono tutto
quello che vi rimane!"
Avevamo già superato Bratunac e ci dirigevamo verso il centro della città.
Vedevamo i nostri uomini prigionieri da tutte le parti, con le mani legate,
alcuni di loro nudi dalla cintola in su. Diissi a me stessa: "Sì,
riconoscerò mio figlio, e mio fratello Mustafá che è andato verso i boschi,
e li riconoscerò, no, no, non possono essere qui, torneranno". Arrivammo a
Tuzla. Passò un mese e un altro e un altro, e chiedevo ad ogni passante:
"Ha visto il mio Samir da qualche parte?" Nessuno lo aveva visto. Come se
fosse sparito dalla faccia della terra. Non tornò più. Queste sono ferite
immense.
In qualsiasi modo, dico, non permettiamo che nessuno soffra di nuovo. Non
permettiamo che nessuna madre debba piangere mai! Quel che è successo è
ormai passato e non si può rimediare. Però credetemi, fu puro terrore!
Accada quel che accada, nessuno si merita un castigo così terribile. E che
cosa avevamo fatto? Vivevamo come buona gente. Così io mi sentivo. Non
avrei mai pensato che un uomo o un gruppo ci avrebbe diviso in due e
avrebbe fatto in modo che ci assassinassimo gli uni con gli altri! Fu un
disastro totale!.Dio proibisca che niente di simile torni a succedere mai!
E se Dio vuole, se c'è gente saggia, non accadrà mai più. E' qualcosa che
non dovrebbe mai accadere a nessuno. E potremmo andare avanti giorni e
giorni raccontando dettagli. Ma non sarò mai capace di esprimere con parole
tutto quel che ho provato e passato. E' incredíbile pensare che un essere
umano possa vivere cose del genere! Però noi umani siamo forti. Non vi
potete immaginare quanto forte una può essere! Durante la guerra ho fatto
19 viaggi per cercare cibo. Viaggiavo per la montagna per due giorni.
Quante volte moriva un gruppo a causa delle mine. Però continuavamo ad
andare in qualsiasi modo. La lotta per il cibo, spesso morti di fame, è
impressionante! E' una lotta disperata. Non vi potete immaginare le
proporzioni di questa lotta! Sudando, inzuppata sotto la pioggia,
camminando penosamente nella neve, irrigidita dal freddo, ero orgogliosa di
portare a casa due o tre chili di mais! La mia famiglia sarebbe
sopravvissuta, come mi sarei sentita orgogliosa. Quando non c'era
elettricità durante la guerra, fabbricavamo dei minigeneratori e
producevamo elettricità, ascoltavamo la radio e vedevamo anche la
televisione ogni tanto; facevamo dei caricatori e caricavamo le pile. La
gente lottava contro le difficoltà; siamo gente creativa, però, Dio, che
questo non accada mai più!
Nessuno vinse in quella guerra. Dovreste vedere com'è dura per i serbi
nella Repubblica Srpska. C'è  una povertà totale. E a Srebrenica non c'è
niente. Non possono mettere in funzione il sistema di approvigionamento
dell'acqua. E che acqua buona avevamo! Ora ci sono solo male erbe. La gente
è in uno stato pietoso, desolata e amareggiata. E' devastante. Nessuno ha
vinto. Tutti abbiamo perso. Tutto quel che era buono è stato distrutto e a
nessuno è rimasto nulla. Tutti abbiamo subito saccheggi, ci hanno dato
fuoco, ci hanno spogliato con la forza, tranne pochi militaristi. E se
questo per loro va bene, se li rende felici, lasciamoli stare.

ZUMRA:
Il secondo giorno, il Generale Mladic venne a Potocari. Si mise proprio lì,
vicino a me, esultante di allegria per aver espulso la gente dalle loro
case. Carezzò sulla testa alcuni bambini e ci disse, quelle furono
eattamente le sue parole, che nessuno dovveva preoccuparsi, che nessuno
doveva spaventarsi, che tutte le donne e i bambini sarebbero stati
trasferiti a Tuzla, e che avrebbero separato tutti gli uomini e li
avrebbero portati a Pale, dove sarebbero stati scambiati con soldati suoi
catturati a Sarajevo. E quei bambini che aveva accarezzato venivano a
prenderseli, nel luogo della partenza, il 12 e il 13 luglio. Quei bambini
non sono più ricomparsi! Come la promessa che ci fece a Potocari.
Così tracorsi la seconda notte attendendo in agonia, e arrivò l'alba del 13
luglio. Mentre ero seduta in mezzo alla moltitudine, verso le 11 del
mattino, una donna lì vicino partorì, e non avevamo dove adagiare il
neonato, perché tutti eravamo partiti a mani vuote. A mala pena avevamo
trovato  un pezzo di tela per avvolgere il bambino, quando un uomo anziano
morì e alcuni bambini cominciarono a chiamarci gridando. Gridavano a mio
marito perché un suo parente si era impiccato. Aveva tre figlie e aveva
paura che le prendessero e abusassero di loro in sua presenza, e si impiccò
perché non voleva vivere per vedere questo.
Nello stesso tempo, la gente nasceva e moriva, era portata via ed era
pugnalata, ed io ero seduta in mezzo a quel vortice dove la vita si fermava
in un batter di ciglia, e l'agitazione, il clamore e le grida di dolore
continuavano e continuavano.
Arrivammo a circa 20 metri di distanza dal luogo dove pensavamo di dover
arrivare, questa volta una dietro l'altra. Camion targati Sabac partivano
già da Srebrenica caricati col bottino del saccheggio delle nostre case da
cui avevano preso quel che gli serviva, mentre continuavano a minacciarci
di pugnalarci ed ucciderci e ci insultavano lungo tutta la fila, dicendoci
che eravamo donne di un certo tipo. Arrivammo in un luog dal quale pensavo
che sarei partita con mio marito. [Qui manca una parte, dove Zumra dice che
non dimenticherà mai il peso della mano di suo marito sulla sua spalla
sinistra che era come se fosse entrato dentro di leiŠ Stavano portandolo
via e non riusciva a pronunciare una parola, ed ora si pente di non aver
almeno tentato di far qualcosa.] Di fronte a noi, a dieci metri, stavano
separando un bambino di nove anni da sua madre, mentre lei lottava con loro
come una leonessa tentando di liberarlo dai loro artigli.
Arrivai a Potocari in camion. A Bratunac, le donne ci lanciavano pietre. Il
camion era coperto da un telo impermeabile. A quelli che erano in autobus,
forse è andata meglio. Almeno non sono stati presi a pietrate. La gente
rompeva bottiglie e ci lanciava colli di bottiglie, alcuni furono colpiti
alla testa ed il sangue usciva a fiotti, e non c'era nessuno per curare le
ferite, così che il sangue, in quel caldo, semplicemente zampillava attorno.
Arrivammo a Kravica dove i cetnici ci aspettavano, fermarono il camion e si
diressero verso di noi ubriachi, con i capelli arruffati e impugnando
grandi coltelli, minacciandoci che, se non avessimo raccolto 5.000 marchi
tedeschi in un'ora, ci avrebbero tagliato i genitali e ci avrebbero fatto
cose orribili prima di ucciderci. Ci dissero che se non fossimo riuscite a
raccogliere quel denaro, che guardassimo di là e avremmo visto cosa già
avevano fatto ai nostri uomini catturati lungo tutta la strada, nei boschi
che si stendevano da Srebrenica in direzione di Tuzla. Su una collina
potemmo vedere due o tre centinaia di uomini seduti, con le mani dietro
alla nuca, disarmati, circondati da soldati armati fino ai denti. E ci
dicevano che se non avessimo dato il denaro li avrebbero uccisi. Purtroppo
non avevamo denaro. Volevano prendersi due ragazze giovani, ma questo
provocò tali proteste e  grida che se ne andarono; e noi proseguimmo.
Trovammo lo stesso tipo di problemi a Vlasenica dove fummo di nuovo prese a
pietrate. Una volta a Tisce, proseguimmo a piedi per 9 kilometri, e dovemmo
trascinare e portare sulle spalle le persone più anziane, che non
riuscivano più a camminare.
La strada tra Tisce e Starici, zona "tampone", era coperta di erba, e
questo mi sembrò molto poco normale. L'erba era cresciuta sull'asfalto! Ero
perplessa, perché non avevo mai camminato su una strada asfaltata che
sembrava un prato.
Aveva piovuto abbondantemente e il fiume era cresciuto; sembrava un cattivo
presagio e la gente era esasperata. Arrivammo a Tuzla e ci sistemarono a
Dubrave, in tende  che erano già montate. Ci aspettavano già, sapevano che
saremmo arrivati. Stemmo lì 10-15 giorni, e poi ci disperdemmo; alcune
avevano familiari con cui potevano stare, altre se ne andarono dal paese;
l'accampamento scomparve e quelle di noi che rimasero a Tuzla si
organizzarono e cominciarono a cecare i loro 10.000 uomini scomparsi. In
realtà, non sapevamo che erano scomparsi, pensavamo che fossero vivi da
qualche parte! La prima volta, organizzammo e realizzammo una protesta
davanti alla Croce Rossa Internazionale. Era una protesta pacifica: facemmo
un appello alle organizzazioni internazionali, all'ONU e a tutti gli altri.
Cercavamo una risposta alla domanda: cosa ne era stato dei nostri uomini
che erano stati fatti prigionieri? Passarono tre mesi, e non c'era nessun
tipo di risposta. Cercavamo la verità, niente altro. Nessuno prese in
considerazione la nostra protesta pacifica, nessuno si degnò di venire da
noi. E fu allora che esplose la nostra rabbia, indignate lanciammo pietre
contro la Croce Rossa Internazionale. Dissero che eravamo bestie impazzite,
che comunicare con noi era impossibile perchè eravamo gente selvaggia. E
così ci presentarono al mondo. In generale, così le donne di Srebrenica
sono state presentate nei media, e nessuno sentì la necessità di parlare
con noi. Semplicemente arrivarono alla conclusione che appartenevamo a
qualche tipo di persone senza tetto. A Tuzla ci chiesero se avevamo visto
la televisione qualche volta, se avevamo la macchina e se lavoravamo. Non
credevano che avessimo macchine, case e lavoro. E davvero, la vita che
facevamo a Srebrenica prima della guerra era realmente buona. Ora viviamo a
Sarajevo, però per niente al mondo cambieremmo la vita di prima con questa
a Sarajevo. Vivevamo in una piccola città di provincia, dove tutti si
conoscevano, come una grande famiglia. Vivevamo in armonia; celebravamo le
festività dei santi ortodossi e le feste musulmane, e compleanni e
matrimoni e non c'era nessuna divisione; eravamo una comunità.
E quel che accadde allora, credetemi, non lo so!.Le cose semplicemente
accaddero!
Dopo la firma dell'accordo di Dayton nel 1995, il cantone di Sarajevo
rimase deserto, perché i serbi insistevano che dovevano vivere in un loro
stato, così raccolsero tutte le loro cose, dissotterrarono anche i loro
morti, presero tutto e si stabilirono in proprietà bosniache per cominciare
una nuova vita. Arrivammo da Tuzla. Nessuno ci aveva invitato, ma nessuno
ci cacciò allora quando arrivammo nel cantone di Sarajevo. Io occupai un
appartamento serbo, uno studio di 40 metri quadrati. Non c'erano né
finestre né porte, mancavano il gabinetto e i rubinetti; c'era solo il
pavimento e due vetri di finestra. Era pieno di immondizie. Pulii e
aggiustai tutto e da allora vivo lì.
A Sarajevo, ci organizzammo di nuovo e formammo l'Associazione per la
Localizzazione degli Scomparsi. E' stato anche istituito un Memorial
Center, con aria condizionata, perché sia sopportabile entrare e guardare.
Purtroppo il processo di identificazione è lento; poche persone sono state
identificate con nomi e cognomi e solo 5.600 sono stati esumate, estratte
da fosse comuni. Tutti i corpi esumati sono stati fotografati, ed anche i
vestiti e gli oggetti che  possono appartenere loro, tutto è stato lavato,
esposto e pubblicato su libri affinché le famiglie possano riconoscere
qualcosa. Si stanno facendo analisi del sangue alle famiglie degli
scomparsi per analizzare il DNA, supponendo che questo faciliti
l'identificazione.
Si stanno commettendo nuovi crimini  in relazione ai resti postumi. Si
stanno riaprendo tutte le fosse comuni dove furono seppelliti i bosniaci e
si stanno spostando i corpi per nascondere le reali dimensioni del crimine,
cosicché invece di trovare 500 corpi in una fossa comune se ne trovano 20 o
30. L'anno scorso fummo a Cancari e Kamenica vicino a Zvornik. Questa zona
è stata letteralmente triturata - è come carne sminuzzata - non si può
distinguere nulla. Sono sicura che non si saprà mai chi fu sepolto lì, che
mai si scopriranno i loro nomi. Ci siamo impegnate a far seppellire le
ossa. Sapete che le Donne in  Nero sono state presenti alla commemorazione
dei cinque anni della caduta di Srebrenica. E' stata iniziata la
costruzione di una tomba comune, però non siamo riuscite a seppellire un
solo corpo lì. Speriamo che per il settimo anniversario, possiamo almeno
cominciare le sepolture.
La nostra lotta è immensa. Per noi la guerra non è ancora finita, perché
siamo ancora persone sfollate e rifugiate nel nostro stesso paese, e non
siamo tornate alle nostre case dopo sei anni e mezzo. I criminali di guerra
continuano ad andare liberi e per noi la guerra continua. Soprattutto,
secondo l'accordo di Dayton, tutti hanno diritto alla loro proprietà, e i
serbi ora stanno lottando per le loro nella federazione. Io non ho piacere
di stare in questo appartamento serbo e non ho piantato nemmeno un chiodo
perché appartiene ad un'altra persona, però devo vivere da qualche parte.
Purtroppo ci minacciano di cacciarci. Ora devo lasciare l'appartamento,
devo andarmene di lì nonostante due famiglie serbe di Donji Vakuf vivano
nella mia casa di tre piani a Srebrenica, dove non posso tornare. Non so
dove andrò, e due mesi fa ho avuto un nipote, che rischia di vivere in una
tenda.
Un essere umano non è fatto di legno. A volte sento la necessità di parlare
di quel che ci hanno fatto. Per quanto siamo stati saccheggiati e distrutti
vergognosamente, il mio messaggio è che Srebrenica non deve ripetersi in
nessun luogo del mondo e contro nessuno, assolutamente.

STASA:
Sì, credo di potervi ringraziare, a nome di tutti i presenti, per la vostra
forza e il vostro coraggio e per aver avuto abbastanza fiducia in noi da
essere capaci di raccontarci tutto quel che ci avete raccontato.
Mentre parlavate mi sono ricordata di quel che le madri di Plaza di Mayo mi
hanno detto una volta, parlando della popolazione argentina, che era stata
complice ed erede della giunta militare. Mi hanno detto: "Stasa, abbiamo
detto loro: non si può giustificare dicendo che non lo sapevamo. Abbiamo
detto loro: Se non lo sapevate allora, lo sapete ora! Vi parliamo con il
nostro dolore."
E devo dirvi che quelle di noi presenti qui oggi, abbiamo voluto sapere e
abbiamo saputo. E voglio anche dirvi che le nostre amiche di molte città
della Serbia sono qui presenti e insieme tentiamo di aumentare il numero di
quanti vogliono sapere. Non sappiamo fino a che punto i risultati saranno
visibili.
Però insieme siamo più forti!
Se siete d'accordo, andiamo a parlare con  le nostre amiche fuori, in giardino.


Relazione realizzata dalle Donne in Nero.
Belgrado, 2 giugno, 2002