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La situazione in Jugoslavia... (1)
- Subject: La situazione in Jugoslavia... (1)
- From: andrea <andreamartocchia at libero.it>
- Date: Mon, 10 Dec 2001 14:06:53 -0500
- Sender: martok at libero.it
... al di la' della censura dei media e della campagna fobico-ossessiva contro Milosevic: ============================================================== Subject: Mariella Cataldo - Appunti di viaggio della delegazione dell'associazione Most za Beograd (6) Date: Sun, 2 Dec 2001 23:47:03 +0100 From: "most za Beograd" <most.za.beograd at libero.it> Most za Beograd - Un ponte per Belgrado in terra di Bari Associazione culturale di solidarietà con la popolazione jugoslava via Abbrescia 97, 70121 BARI - CF:93242490725 - tel/fax 0805562663 e-mail: most.za.beograd at libero.it conto corrente postale n. 13087754 Mariella Cataldo Le foglie morte di Belgrado Appunti di viaggio della delegazione dell'associazione Most za Beograd 31 ottobre 2001. Alle 12 e 45 saluto Belgrado mentre sorvolo i suoi campi rigati dalle coltivazioni triennali o quadriennali. All'aeroporto ci attende l'autista del pullmino della Zastava che ci porterà a Kragujevac attraverso un'autostrada rappezzata. Lungo tutto il percorso, Claudio, il medico di Napoli che ha "adottato" ben quattro bambini, rivela insospettabili capacità di intavolare con l'autista, in un serbo-napoletano vocal-gestuale, una conversazione che trova il suo acme nella comune conoscenza - a me e ad Andrea, ahimé, ignota - dei nomi dei calciatori delle squadre di calcio italiane, a partire, va da sé, da quelli jugoslavi. Paola sembra invece intenta ad evitare che il prezioso dono - un computer portatile! - che la sua amica Brigitta le ha affidato per la quattordicenne Jasna subisca eccessivi contraccolpi di qualche buca impietosa. Mentre circumnavighiamo la periferia di Belgrado coi suoi palazzi di cemento, tra cui si intravede qualche cupola a cipolla, lungo la strada ci salutano tante casette bianche in prati verdi e tante foglie gialle di tiglio e aceri in un agonizzante autunno balcanico. Quando varchiamo il portoncino della sede del sindacato Samostalni, ci accolgono un pesante odore di fritto dal ristorante sottostante ed una raggiante Rajka, e Srba, giovane segretario del sindacato e poi l'esuberante Milja, che è stata licenziata e collabora ora al progetto di adozioni a distanza come volontaria Ci sembra di tornare a casa! Saluti, abbracci, feste. Un bicchierino di rakija e anche due, per festeggiare l'incontro con vecchi amici. Bisogna mettere a punto subito il programma, intensissimo, degli incontri di questi giorni, e preparare la busta con i soldi per ognuna delle 215 famiglie. Andrea è ben lieto di liberarsi dei 31.900 marchi che gli gonfiavano le tasche, Srba e Claudio vanno in banca a cambiare i biglietti da 1000 marchi in tagli più piccoli, mentre noi rimaniamo a parlare con Rajka, che ci racconta di cose che purtroppo in gran parte conosciamo già: 15.000 lavoratori licenziati, nessuna seria prospettiva di ripresa della produzione, la Zastava scorporata in diverse imprese per minare la compattezza dei lavoratori, che, nonostante tutto, in tutta la Serbia hanno scioperato il 18 ottobre contro la "Carta del lavoro" proposta dal nuovo governo che prevede "libertà di licenziamento"... Oggi, 31 ottobre, comincia per i bambini serbi la veronauka (l'insegnamento della religione serbo-ortodossa nelle scuole) con cui il "laico" Djindjic ha voluto bruciare sul tempo il "religioso" Kostunica. Segno dei nuovi tempi - e nuovo non sempre vuol dire migliore: nella Jugoslavia di Tito e nella "piccola Jugoslavia" (Serbia e Montenegro) governata dai socialisti (fino al 5 ottobre 2000) la scuola era laica, a garanzia della multietnicità e convivenza con pari dignità di tutti i popoli che abitavano questo paese. Nel Parco della memoria - dedicato alla terribile esecuzione nazista di 7000 persone in un sol giorno - mi sveglia all'alba una folata di vento tra gli alberi; danzano per l'aria in una sinfonia d'autunno centinaia di foglie morte come grandi fiocchi di neve gialla ed io rimango incantata a respirare a pieni polmoni l'aria del mio "ritorno a casa", con la finestra aperta a due gradi sottozero. Con Srba attraversiamo il quartiere zigano con casette e appartamenti e orticelli di crisantemi; Paola intravede anche i caprioli. Qui, gli zigani sono perfettamente integrati nella società e non sono emarginati come da noi. Tante vecchie "Seicento" (che la Zastava costruiva sul modello FIAT). La televisione è sempre accesa, anche a casa di Dusan, dove il papà, che non ha voluto tagliare l'albero di fico per sistemare la casa, ci dice: "La vita è come se si fosse fermata dieci anni fa, ora la nostra vita ce la mangiamo così, la sprechiamo, cercando di arrangiarci per sopravvivere, ma questa non è vita, non è la vita alla quale pure abbiamo diritto". Dalibor, uno dei bambini adottati a distanza da Claudio, è figlio di profughi. Nella stanza fa caldo, con la cucina a legna già accesa (ci viene forte il sospetto che sia così in attesa di freddolosi ospiti italiani). Il papà ci racconta la sua fuga dal Kosovo. Lì ben prima del '99, in molte zone, la vita per i serbi era diventata invivibile. In Kosovo era importante conoscere la lingua albanese, ma lui non la conosceva e non ha saputo mimetizzarsi ed è dovuto scappare. Scappò con il trattore, senza armi, nel '92. Poco dopo ritornò per riprendersi alcune cose che aveva lasciato nella sua casa e portare anche suo zio fuori dal Kosovo. Si nascose sotto il trattore quando attraversò una strada disabitata e sentì gli spari. Riuscì a riprendere il frigorifero, un po' di farina, ma lasciò lì tutte le provviste dell'inverno: fagioli, carote, e le mucche. Dopo la guerra del '99, la terribile "guerra umanitaria" della NATO, provò forte il desiderio di rivedere, senza fermarsi, il luogo dov'era la sua casa. Lo accompagnarono gli uomini della KFOR. Non c'era traccia di casa, c'era solo la terra spianata. Aveva un bosco che valeva 10.000 marchi e che suo nonno voleva tenere per il matrimonio di Dalibor; ora hanno perso tutto. Ora, a chi potrà far vedere le carte della proprietà? Pranzo a casa di Maja, con il pesce e i dolci leggerissimi della festa di San Luca: nonna splendida, la piccola Milica, la cuginetta di Maja, dispettosa e desiderosa di essere al centro dell'attenzione, la nuora Bilja in attesa di un fratellino per Milica, assorta, in silenzio... e poi le dalie rosa per ringraziarci e il nonno con una grande valigia piena di dolci, marmellate e rakija, tutto fatto in casa naturalmente. E non si può dire di no. I serbi accettano il tuo aiuto e ti sono molto riconoscenti, ma intendono ricambiare, per come possono, per quel che sanno fare. Accade talvolta che ti regalino un centrino da tavola fatto a mano, come è tradizione da queste parti, ore e ore e ore di lavoro sapiente. Maja è cresciuta, è alta, è una bella signorina e ci sorride di un sorriso dolcissimo velato di tristezza. Le sue condizioni sembrano ora stazionarie, va periodicamente a Belgrado per la visita oculistica, c'è la speranza - tenue, con tanti forse, se e ma - che riesca a salvare l'unico occhio che le è rimasto vivo. Il suo sguardo si illumina quando le prometto che le comprerò l'abito da sposa, e diventa perplesso quando aggiungo che il suo sposo dovrà essere bravo, onesto, lavoratore e, soprattutto, dovrà piacere a nonna Rada. Milja scherza: "Ma è il ragazzo di Maja o della nonna?" I ragazzi spostano a gran fatica un pianoforte a coda nel liceo di Kragujevac, dove un lontano ma ancora vivo nella memoria 21 ottobre 1941 furono fucilati 300 liceali e il professore disse ai suoi carnefici nazisti: "sparate pure, io continuo la mia lezione". Nelle scuole serbe non esiste un bidello di professione: gli alunni più grandi, a turno, per un giorno all'anno svolgono questo compito e Boris, il figlio di Rajka, non vede l'ora che arrivi il suo turno. In serata ci riservano una sorpresa: assisteremo alle prove del gruppo folcloristico della Zastava. In uno scantinato, che durante i bombardamenti della nefasta primavera del '99 era servito da rifugio, bambini e ragazzi - dai tre ai vent'anni, ci dice con un certo orgoglio l'istruttrice di danza - alcuni con impaccio, altri con scioltezza e leggiadria , intrecciano un ballo popolare, accompagnati da un'immancabile fisarmonica e dalla voce profonda e armoniosa di una giovane cantante. Alle prove i ragazzi sono vestiti in modo molto semplice e modesto, non ci sono soldi per comprarsi abiti nuovi, soprattutto ora, quando 15.000 operai sono stati licenziati. Ma anche chi ha avuto la "fortuna" di conservare il lavoro deve stringere la cinghia oltre il dovuto e oltre l'immaginabile. Per le strade di Kragujevac le vetrine di negozi desolatamente deserti espongono in bella mostra scarpe a tre-quattromila dinari (circa 120.000 lire). Concludiamo che troviamo di meglio e a minor prezzo nelle vetrine di corso Cavour a Bari. Eccetto, forse, soltanto il pane, fermo a 20-30 dinari al chilo (600-900 lire), tutto costa quanto da noi, con la differenza che qui i salari sono sette-otto volte più bassi dei nostri salari più bassi. Al supermercato, ora che la Serbia di Djindjic si è aperta all'Occidente, si trovano anche costosissimi dentifrici "Colgate" e spaghetti "Granoro", che non hanno forse molti acquirenti. Ma qualsiasi cosa sembra avere ormai "prezzi occidentali". Chiediamo a uno stupito Srba di accompagnarci in un negozio di materiale elettrico: anche una semplice lampadina costa come da noi, 1.500 lire, e rimane fitto il mistero di come in questo paese riescano ancora a vivere con dignità. Ma i ragazzi del gruppo folcloristico danzano, Milija, accompagnata dalla giovane nuora che parla un ottimo inglese e le assomiglia come una figlia, non riesce a star ferma e si inserisce tra loro, la vita continua, nonostante tutto, e mentre si danza si scaccia la malinconia e non si pensa al presente. A pensarci troppo si cade in depressione. Sta crescendo il numero di suicidi. E' la mancanza di prospettive ad ammazzarti più di ogni altra cosa. Ci diceva Boba, che molto spesso, da Napoli, telefona ai suoi parenti a Belgrado: "Prima c'era l'embargo, si stava male, ma c'era la speranza che finisse e l'economia si riprendesse; c'era la guerra, si stava peggio, ma la guerra prima o poi sarebbe finita, si stringevano i denti e si tirava avanti sperando nel futuro. Poi hanno fatto credere alla gente che le cose andavano male perché c'era Milosevic; Milosevic ora non c'è, venduto per trenta denari al tribunale dell'Aja, e la vita è peggiorata molto di più. Ora non c'è più nulla a cui appigliarsi, non c'è speranza, il futuro si prospetta più nero del presente...". La direttrice del gruppo artistico ci mostra le foto degli spettacoli e i premi vinti dal gruppo, ne è fiera, spera che questi bravissimi ragazzi possano essere invitati in Italia. Per la verità, sarebbero dovuti venire lo scorso anno, a luglio, nell'ambito di alcune iniziative di solidarietà, ma poi la cosa sfumò, con grande amarezza e delusione. Paola ci dice che se ne potrebbe parlare col sindaco di Alberobello, organizzare uno scambio di gruppi folcloristici. Riceviamo in dono un libro di poesie e ci accompagnano a visitare il gruppo di pittura. Milorad, l'insegnante, quando sente che siamo italiani, ci saluta emozionato, credendo di scorgere sui nostri visi i cromosomi del grande Leonardo, ma gli spieghiamo che siamo solo i conterranei incazzati di D'Alema, che ha avallato la "guerra umanitaria" contro questo popolo che, nonostante tutto, ricorda l'Italia come terra di artisti e di brava gente, mai di soldati! In una stanza poco distante vi sono una dozzina di postazioni di personal computer, si tengono corsi di riconversione per i lavoratori, che imparano l'uso di alcuni programmi di base: due timidi, ma affettuosi scolaretti - Ruzica e George, gli ex presidente e segretario del sindacato - ci salutano molto calorosamente. Nella delegazione dell'associazione ci sono due medici, Paola, neurologa, e Claudio, medico del lavoro; Rajka ci propone di visitare il presidio sanitario della Zastava. Lì c'è la apoteka humanitarna, costituita dal sindacato con farmaci donati dall'estero. Apprendiamo che ora qualsiasi visita o analisi, che prima per gli operai era gratis, costa 20 dinari di "participacija": il nuovo governo ha importato dall'Occidente la moda dei ticket, insieme con quella di abolire i prezzi politici di luce, gas, affitto di casa. Qui tutto è vecchio di vent'anni (come la macchina audiometrica e l'apparecchio mammografico), molte cose sono italiane e niente basta (servono urgentemente medicine per cardiopatie, come la digitalina). Mentre visitiamo i reparti (dentistica, oftalmologia, dermatologia, il gabinetto di spirometria, radiologia, medicina del lavoro o medicina rada) le infermiere, intorno ad un tavolo, tagliano garze. Nel reparto di neuropsichiatria (dove hanno solo l'elettroencefalogramma) un baffuto serbo dà una pacca sulla spalla ad Andrea (non sappiamo se è un medico, un paziente, un operaio, un amico). Lo rincontreremo più tardi e Andrea riceverà un'altra pacca e ricambierà come a un vecchio amico. L'apparecchio mammografico, di cui sulla parete c'è anche una vecchia raffigurazione ad olio, è stato portato più di un anno fa da una delegazione del coordinamento RSU Lombardia, ma purtroppo non può ancora essere messo in funzione, manca qualche pezzo che non si riesce a trovare, e così per fare l'esame mammografico le donne di Kragujevac devono andare a Belgrado spendendo 150 marchi, praticamente il salario di un mese. In casa di Ivan arriviamo attraversando un ponticello di legno su un ruscello. La casa è misera, in un prato con un enorme albero di noci, e l'aria è fina. Il nonno è nero ed è di sangue zigano. Viene dal Kosovo ed era stampatore alla Zastava. Ha fatto la Resistenza ed ha partecipato, dopo la guerra, alla ricostruzione del paese, ha costruito la ferrovia di Sarajevo. Per accogliere gli ospiti italiani hanno preparato una pagnotta di pane per noi e poiché erano indaffaratissimi nei preparativi, hanno lasciato il nonno a guardia del pane nel forno, ma lui si è addormentato ed il pane è diventato nero come la sua faccia. Poiché i bambini non mangiano con noi e noi li invitiamo a farlo, il papà ci rassicura: "da noi prima mangiano i bambini, poi i vecchi, poi i genitori". Sulla via del ritorno, Rajka ci dice che durante e dopo i bombardamenti la gente era incazzata ma era in grado di essere felice o infelice. Ora non è in grado di essere né felice né infelice, è semplicemente apatica, indifferente, e aggiunge: "chi restituirà l'infanzia a Boris? È nato nel 1989, quando cominciava a sbriciolarsi la Jugoslavia ed è vissuto sempre nella precarietà e nell'insicurezza. Era il suo compleanno quel 24 marzo 1999 quando sono iniziati i bombardamenti". La casa di Jasna è in un villaggio sperduto lontano una ventina di chilometri da Kragujevac - se ne vanno almeno una quarantina di minuti per arrivarci. In un cortile con pavoni, galline, tacchini e una gatta incinta, un nonno sanguigno ci saluta dicendo: "Io sono jugoslavo!". Noi rispondiamo che siamo internazionalisti. Il nonno si commuove quando racconta la storia di un italiano che si rifugiò nella sua casa durante la seconda guerra mondiale (come accadde a tanti altri, scampati al bombardamento americano del campo di prigionia tedesco di Zemun, alla periferia di Belgrado), quando lui aveva cinque anni e il papà era fuori in guerra. L'italiano mangiava peperoncini - fortissimi, se sono come quelli che ci hanno offerto qui - e gli fece un po' da padre, poi ripartì per l'Italia portandosi nella valigia i semi dei peperoncini, ma non poté piantarli, perché perì in mare sulla via del ritorno. Si commuove a sentir parlare italiano. Il computer portatile che Brigitta ha regalato a Jasna perché impari l'inglese è come un mostro sacro che viene aperto con grandissima circospezione su un tavolinetto del cucinino, l'unico che abbia a portata di mano una vecchia presa elettrica in questa piccola casa contadina, dove non c'è acqua corrente e bisogna usare quella del pozzo, con una pompa a mano; la "toilette" è fuori casa, in un angolo del cortile, una piccola cabina di vecchie assi di legno e una porta sgangherata. La "modernità" sembra irrompere in questa casa a turbare sonni contadini. La mamma e i nonni di Jasna, che ci hanno preparato una calorosissima accoglienza (il papà non ha avuto il permesso di assentarsi dal lavoro), hanno sui visi, stampata, la consapevolezza della gravità di una "svolta epocale" nella loro vita. Al primo pomeriggio di venerdì 2 novembre è fissato l'incontro con le 24 famiglie che la provincia di Napoli, da oltre un anno e mezzo - da quando i delegati della Zastava giunti in Italia per una serie di manifestazioni organizzate dalla nostra associazione e dai compagni della RSU Lombardia ebbero un incontro con il presidente Lamberti - si era impegnata a sostenere. Difficoltà burocratiche e continui rinvii avevano fatto incancrenire la situazione. Per poterla sbloccare, dopo ripetuti incontri non sempre sereni e pacati, abbiamo dovuto anticipare personalmente le somme e inviarle ad ogni singola famiglia con vaglia postale, in attesa del rimborso, augurandoci che la poco solerte burocrazia napoletana non ci giochi qualche brutto scherzo... Poiché non ci fidiamo delle poste, abbiamo portato con noi le copie delle ricevute, ma ci rendiamo conto che per quelle famiglie che aspettano da tanto tempo, quel pezzo di carta potrebbe anche apparire una beffa. Miracolosamente le poste hanno funzionato e oltre la metà - dopo appena 5 giorni, con uno festivo in mezzo - ha già incassato la somma; sono venuti tutti a ringraziarci di cuore. Claudio, emozionatissimo e teso, quasi non proferisce parola. Sabato mattina i bambini della Zastava ricevono da noi 31.900 marchi e una montagna di cioccolatini. C'è la televisione locale e nazionale che ci dedicheranno alcuni minuti di trasmissione, sottolineando che ci siamo opposti alla guerra contro il loro paese. Il presidente del sindacato Samostalni, Radosav Bjeletic, introduce con poche essenziali parole. Nel mio discorso ricordo di essere stata colpita dalla dignità conservata da questo popolo nelle ingiuste sofferenze che gli sono state inflitte; nei pochi giorni trascorsi qui l'anno passato, il mio cuore era diventato così pesante di emozioni che era impossibile metterlo in valigia e riportarlo in Italia, perciò avevo deciso di seppellirlo a Kragujevac sotto un albero di betulle. Ed ora sono qui a riprendermelo. Con la mia presenza ho intenzione di disonorare la guerra, perché la guerra possa diventare per le future generazioni una curiosità filologica. La mia speranza è che in futuro i bambini di tutto il mondo, quando troveranno sui libri di storia la parola "guerra" non sapranno cos'è e andranno a cercarne il significato sul vocabolario. Purtroppo, i bambini jugoslavi, palestinesi, iracheni, afgani, hanno provato sulla loro pelle che cosa significa la parola "guerra", ma ho speranza che i loro figli vivranno in un mondo di pace. Il futuro, il mondo, dobbiamo schiodarlo dalle corna del toro di Wall Street. Il futuro, il mondo, è nelle nostre mani, nei nostri cuori, dobbiamo correre a riprenderlo! Dobbiamo rispondere con l'internazionalismo e la solidarietà ai nazionalismi, agli etnicismi e agli egoismi che sono stati coltivati in laboratorio dai signori della guerra come arma batteriologica per fare ammalare e dividere i popoli di tutto il mondo. Ai signori della guerra dobbiamo rispondere con un unico grido: lavoratori di tutto il mondo uniamoci! Prima che si consegni il denaro, ricordo all'assemblea che è morto un lavoratore della Zastava mentre faceva legna nel bosco per riscaldare i suoi bambini, e la famiglia, come non aveva i soldi per vivere, adesso non ha i soldi per seppellirlo. Improvvisiamo una colletta tra i lavoratori e raggiungiamo quasi 300 marchi a cui aggiungiamo altri 300 come associazione Most za Beograd. I bambini si divertiranno come matti a contare i soldi. I fiammeggianti parchi belgradesi ci attendono. È impossibile contare le foglie morte lungo i viali. È straziante vedere cadere le foglie come assistere all'agonia di un malato terminale che ha imboccato la strada di una freccia nel tempo. A Belgrado siamo ospiti di Gordana, vedova di un tenente medico morto in guerra in Croazia. È dell'associazione Decie Istina (la verità dei bambini) che si occupa dei profughi cacciati dalla Croazia, dalla Bosnia, dal Kosovo. L'associazione non è finanziata da nessuno: vi lavorano tante donne che fanno microprogetti per intervenire concretamente nelle piccole situazioni. In tutta la Jugoslavia arrivano aiuti che loro distribuiscono anche ai pensionati. Con il ricavato di una festa di beneficenza in una sera d'estate alla casa in campagna di Andrea Navach a Mola di Bari, si è riusciti ad adottare alcuni di questi sfortunati bambini. A casa di Iljana e Mikolina che ha cominciato a studiare l'italiano all'Università, siamo in un caseggiato misero all'ultimo piano, dove un torrente di sole inonda la stanza. Vengono da Spalato, hanno perso il papà in guerra ("Operazione Tempesta", agosto 1995, quando gli americani armarono i croati e fecero un blitz scacciando 200.000 serbi). Pagano 200 marchi per questo appartamento diviso con la figlia del proprietario. La pensione del papà morto in guerra è di 350 marchi. Il paniere dei beni di prima necessità è di circa 400 marchi. In tutta la casa ci sono icone di legno (San Basilio, la madonna di Costantinopoli). Mikolina - un po' d'inglese e qualche parola d'italiano - ci dice che il governo croato è rimasto nazionalista e xenofobo. Anche la loro casa in Croazia è stata rasa al suolo. Petar è semicieco e così la sorella. La madre ha un tumore al cervello. L'appartamento è misero, ma stranamente è privo di odori (come tutti gli altri visitati). In una minuscola stanza vivono tutti insieme. In un armadio senza porte si vedono coperte ripiegate - serviranno come giaciglio per la notte. Petar ci fa vedere con orgoglio la sua collezione di biglietti per le partite di calcio. Ha anche una fotografia della squadra "Stella rossa" che vinse al San Nicola di Bari. Li regalerà tutti ad un Andrea piuttosto riluttante e restio a portarsi via quei biglietti che per Petar evidentemente significano tante cose, tante passioni, speranze, illusioni, sogni. Petar ha scritto con scrittura incerta una lettera per Andrea Navach. Dovranno lasciare la casa tra un anno. E la madre e i due ragazzi infermi a cui il "perfido" Milosevic aveva assicurato la casa per dieci anni, saranno cacciati in un gelida strada di Belgrado dal "democratico" Djindjic. Mentre ascolto, dall'albero di platano, al di là del vetro, nel cortile, cadono tante foglie gialle, così come sfioriscono prematuramente i fiori di questa giovinezza mai sbocciata. Anche Slavko è semicieco, anche il suo è un povero appartamentino all'ultimo piano, una stanza un cucinino e un bagno. Da una finestra sconquassata si vede - ormai è buio - il cielo sopra Belgrado, in cui è conficcata una stella tremolante, come una foglia malata che sta per cadere: è la metafora di queste vite appese ad un filo che la nostra solidarietà tiene ancora teso. Il padre di Slavko è morto nel '94, la famiglia viveva a Zagabria. Slavko fa il tifo per il Kinder, Andrea, colto di sorpresa, e sprovvisto della spalla di Claudio, in visita turistica nella capitale in cui non era mai stato, si dice tifoso dell'Inter, ma è preoccupato di essere interrogato sui giocatori di cui non conosce neppure il nome. La prima volta scapparono da Zagabria, la seconda volta nel '95 da Knin, nella Krajna. I trisavoli erano bosniaci, sono serbi di Bosnia e Croazia. Slavko e Mikolina dagli occhi sgranati vengono inghiottiti dalla notte come dall'orco di una favola dei fratelli Grimm e si chiudono a chiave mentre la mamma ci accompagna a piazza della Repubblica. Non vediamo l'ora di scappare da Belgrado che ci ha depresso! La visita ai profughi ci ha fatto uscire dalla festosa atmosfera di Kragujevac, dove ci sentivamo a casa nostra. E' l'ora della visita al prof. Niksa Stipcevic nel suo bell'appartamento pieno di libri, molti in lingua italiana, rari anche per noi, che dall'Italia veniamo. Abita in una via che ancora l'anno scorso si chiamava Srpski Vladara ed ora, invece, Kralja Milana. Nell'arco di 10 anni molte strade hanno cambiato più volte i loro nomi: quelli legati alla resistenza antinazista, o alla tradizione comunista ne hanno fatto impietosamente le spese. La gatta Milica, in assenza di Svetlana, come una sultana, si stira sul tappeto mentre scansa vasi preziosi facendoci trattenere il fiato. Ha gli occhi rossi e Niksa mi avverte che è pericolosa. Il discorso immancabilmente scivola sulla guerra: l'Afghanistan è una terra infelice! Lì si sono impantanati Alessandro Magno, Tamerlano, i sovietici. Riguardo la nostra associazione si esprime in maniera lusinghiera: le azioni dell'associazione sono memorabili e incrementeranno l'amore jugoslavo verso l'Italia. L'Italia è nel cuore degli jugoslavi. L'ambasciatore Sessa è stato l'unico italiano insieme a tre diplomatici a rimanere durante i 78 giorni di bombardamento a Belgrado, nonostante l'ordine di tornare. Da un punto di vista sociologico c'è una cosa interessantissima: negli ultimi 10 anni, lo studio della lingua Italiana supera quello dell'Inglese all'Università di Belgrado. Su un massimo di 100 punti di ammissione ai corsi, l'Italianistica ha chiuso ad 88, l'Inglese ad 82, il Francese a 55. Durante i bombardamenti, c'erano per le strade alcuni italiani; nessuno li ha offesi, perché i piloti italiani hanno buttato le bombe in Adriatico e non sulle popolazioni civili. A lui piace pensare così, e forse anche a noi... Molti suoi amici di Belgrado sanno che esiste Most za Beograd, che contribuisce a rafforzare l'amicizia tra due popoli. Le prime maestranze della Zastava di Kragujevac venivano dall'Italia (dalla fabbrica di Agnelli). Nel frattempo Milica si è adagiata sotto l'abat jour e approva con la testa. Il lunedì mattina, dopo aver fatto visita alla sede dell'associazione Decie Istina, veniamo accompagnati all'aeroporto da Ranka, presidente dell'associazione, e Ivka, profuga dal Kosovo. Ivka sembra Medea, sembra fuggita or ora dal Kosovo, è tutta scarmigliata, arruffata. Ivka è fuggita con una busta di plastica da Pec, in essa conserva tutto ciò che per lei è significativo: un portafoglio sgualcito in cui sono racchiuse le foto delle figlie. Al momento della partenza, mentre sbrighiamo le pratiche d'imbarco, all'aeroporto di Belgrado scoppia un piccolo giallo. Un gelido doganiere balcanico mi chiede se ho nulla da dichiarare e mi intima di aprire borsa e valigia. Fruga dappertutto e, come se sapesse cosa cercare, a colpo sicuro mi sequestra un carillonino cinese che una bambina della Zastava mi ha regalato. Da esso proviene un forte ticchettio, come di una bomba ad orologeria, in esso batte il mio cuore che ho da poco disseppellito a Kragujevac con l'intenzione di riportarmelo in Italia, nascosto tra foglie morte raccolte nei parchi. Io mi faccio piccola piccola e imploro il cortese doganiere, cercando di spiegare che trattasi solo del mio piccolo cuore, che esso mi appartiene... ma come posso fare a sopravvivere senza... che esso è solo un'arma di legittima difesa che mi ha permesso di sopravvivere quando il mondo crollava addosso ai nostri amici della Zastava, al petrolchimico di Pancevo, e alla Jugoslavia tutta. Certo, ne ho fatto un uso improprio, internazionalista, perché le leggi italiane ne vietano espressamente l'esportazione ... ma qui siamo in Jugoslavia ed è assurdo che le sue frontiere me lo trattengano senza motivo. Non me l'hanno sequestrato neppure a Fiumicino... lì sì che si trattava di esportazione illegale di materiale altamente pericoloso... Signor doganiere, come potrò continuare la mia attività del Most za Beograd? Andrea cerca di convincerlo parlando in russo. Niente da fare. Il cortese doganiere balcanico, soddisfatto del suo bottino, mi attraversa con un gelido sguardo come se io fossi un trasparente fantasma e, sequestrato il carillonino, mi dà il permesso di partire. Ormai ho perso anche le foglie gialle che vi erano racchiuse. Le foglie gialle le porterò ormai solo nei miei ricordi come sigla del mio viaggio d'autunno balcanico, come la metafora di un popolo che muore per colpa della nostra dimenticanza. Mentre il rombo dell'aereo culla i miei ricordi e mi procura sonnolenza, come un rosario sgrano nella mia mente i versi del mio poeta preferito, il turco Nazim Hikmet: Veder cadere le foglie mi lacera dentro soprattutto le foglie dei viali soprattutto se sono ippocastani soprattutto se passano dei bimbi soprattutto se il cielo è sereno soprattutto se ho avuto, quel giorno una buona notizia soprattutto se il cuore quel giorno non mi fa male! soprattutto se credo quel giorno che quella che amo mi ami! soprattutto se quel giorno mi sento d'accordo con gli uomini e con me stesso. Veder cadere le foglie mi lacera dentro soprattutto le foglie dei viali dei viali di ippocastani! Arrivederci Belgrado! questa volta mi hai imprigionata nel cerchio stregato del tuo fiammeggiante barocco danubiano, la cui polvere dorata mi è rimasta impiastricciata tra le mani! Ormai sono passati 15 giorni dal nostro rientro in Italia: stamattina il postino citofona invitandomi giù a ritirare una raccomandata. Firmo e, con occhi impazienti leggo dalla intestazione della busta che essa proviene dalle dogane jugoslave. La apro e cade per terra una minuscola foglia dorata di tiglio. La lettera è scritta in serbo e c'è anche la traduzione italiana. Sono informata in perfetto linguaggio burocratico, con mille scuse, che il materiale sequestratomi, per uno spiacevole errore dalla polizia di frontiera, è custodito in località segreta a Kragujevac e che, poiché mi appartiene (trattasi di sequestro e non di confisca), è trattenuto solo momentaneamente dalle autorità locali e che sarò la ben accetta in Jugoslavia quando vorrò andarmelo a riprendere. Dopo aver letto, riletto e ripiegato la lettera, mi chino per terra a raccogliere la minuscola foglia dorata di tiglio che il cuore balcanico di un austero funzionario del ministero degli esteri jugoslavo ha voluto inviarmi per invogliarmi a tornare a Kragujevac.
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