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dalle università alle torutre
Dalle università alle torture. Lo sfregio ai nuovi clandestini di Fabrizio
Gatti
da Il Corriere della Sera del 29 dicembre 2003
Parlano inglese e sanno usare Internet: anche per questo la polizia li
massacra di botte Nell'ultimo mese in 15 mila sono partiti per l'Italia
lungo l'antica
rotta delle carovane
(Deserto del Ténéré) - L'acqua rimbalza nei bidoni di plastica appesi alle
fiancate. Ogni volta che il camion molleggia sulle onde nella sabbia, le
duecento
taniche ricoperte di cartone e canapa suonano il ritmo di una lenta marcia
nel deserto. Due ragazzi nigeriani ci fischiano sopra e intonano il
tormentone
2003 delle discoteche di tutta Europa. Altri fanno il coro, al ritornello di
Never leave you: «Uh-oooh, uh-oooh...». È il buonumore del mattino. L'aria
gelida dell'alba. Il primo sole caldo sulla faccia. Dura pochi metri. Dietro
al cordone di dune appare un pozzo e l'autista tira dritto. Denis Phils e
il fratello gemello Collin, 19 anni, da più di tre giorni e tre notti stanno
aggrappati a una sponda del cassone. Il tonfo nei bidoni avverte che le
scorte
per bere sono quasi finite. Ma Nasser, il libico al volante del grande
Mercedes 6x6, padrone del viaggio, della vita e della sete di questi
clandestini,
ha deciso che non ci si ferma. E nessuno canta più.
Sono 15.460 gli immigrati partiti negli ultimi trenta giorni da Agadez, in
Niger. Pochi resteranno a lavorare in Libia. Quasi tutti vogliono arrivare
in
Italia. Prima tappa europea di un'avventura che a volte porta più su, in
Francia, Olanda, Inghilterra. E, se va bene, in America. Viaggiano con uno o
due
bidoni d'acqua ciascuno, dai 20 ai 40 litri. Taniche riciclate dai trasporti
di olio d'arachidi. Oppure da qualche deposito di carburante. I 182
passeggeri
di Nasser hanno meno di 30 anni. Si sentono cittadini del villaggio globale.
Parlano inglese. Sono diplomati, qualcuno laureato. Conoscono tutto del
calcio
italiano e dei loro connazionali andati a giocare lassù. Hanno imparato a
usare Internet a scuola, o nei computer-caffè aperti in baracche di legno,
lamiera
e polvere. E hanno quasi tutti un'email. Non appena il camion si ferma per
la sosta di mezz'ora, si passano la biro e consegnano il loro indirizzo su
chiocciola-Yahoo-punto-com:
«Ecco qua, in Libia troverò sicuramente un Internet caffè per guardare le
foto. Così quando torni in Italia me le mandi», chiede Chuck Owu, 28 anni,
nigeriano
di Onyis. Si avvicinano Vincent, 23 anni, Peters, 25, Erasmus, 21.
Aggiungono i loro nomi online su un pezzetto di carta invecchiato dal sudore
e dalla sabbia ocra, entrata in fondo a tutte le tasche. C'è anche Anthony,
che già si immagina in Italia: «My name is Antonio», dice.
Sarà per questo che la polizia e i militari del Niger e del Sud della Libia
li massacrano di botte. L'usanza di rapinare i viaggiatori lungo quest'
antica
rotta delle carovane dura da secoli. Soprattutto se chi passa è africano,
nero e cristiano. Ma anche i musulmani si prendono la loro raffica di botte
ai
posti di controllo. Calci sulla schiena, frustate con i cavi elettrici e ore
sotto il sole rovente. La ferocia e le torture sembrano nascondere
sentimenti
di invidia e vendetta: la rivincita contro chi ha avuto il coraggio di
caricare il proprio futuro su un camion per portarselo in Europa.
È anche l'effetto dell'Islam bigotto di queste parti. Nella lunga attesa all
'ultimo posto di controllo, la discussione con i soldati comincia dalle
gesta
di Ibn Battuta, il grande esploratore arabo del 1300. E finisce al mistero
sull'origine di pomodori e patate: «Davvero vengono dall'America?
Impossibile
che Allah l'abbia benedetta con questi doni - sentenzia il sergente - dopo
tutto il male che l'America sta facendo nel mondo».
Chissà cosa penserebbe Allah degli immigrati torturati e rapinati. Ce ne
sono più di cinquecento in queste notti all'autostazione di Agadez, la
splendida
città di fango rosso, l'ultima prima del Ténéré. Militari e poliziotti li
hanno ripuliti, non hanno più uno spicciolo. Non possono andare avanti. Non
possono
ritornare. Nemmeno telefonare alle loro famiglie per chiedere altri soldi.
Possono solo dimenticare la fame e dormire all'autogare, il parcheggio dei
camion
del deserto. È una prigione senza sbarre, più grande di un campo di calcio.
Lungo due lati, per tutta la lunghezza e la larghezza, c'è gente sdraiata.
Si sono infagottati all'aperto, uno stretto all'altro per scaldarsi, davanti
alle biglietterie che organizzano i viaggi verso l'Italia. Dandy Obasuny,
24 anni, nigeriano di Benin City, era partito con 150 dollari. Ha dovuto
vendere le scarpe e il bagaglio: «I soldi li avevo nascosti nelle mutande -
racconta
-. Qui ad Agadez, un militare mi ha infilato la mano nei pantaloni e se li è
presi».
Dandy non viene da una famiglia poverissima: «Mio padre insegna geografia
alle medie, mia madre vende stoffe. Io studiavo informatica all'università».
E la decisione di partire? «Da noi andare in Europa è una competizione. Dal
Camerun al Senegal, milioni di persone vogliono partire. Aspettano solo di
raccogliere
i soldi. Io ho deciso quando tutti i miei amici sono andati a studiare a
Londra. Ho una sorella in Olanda. Mio padre non poteva pagarmi il viaggio.
Allora
sono andato a lavorare a Cotonou, nel Benin. Era il 2001 e non ho più
rivisto i miei».
Caterine Tindawo, 31 anni, non ha marito e ha lasciato la figlia di 13 anni
ai suoi nonni in Camerun. Gli ultimi 6 mila franchi, 9 euro e 20, li ha
spesi
per farsi restituire il passaporto, che un militare di Agadez le aveva
rubato. Ora fa la cameriera in un ristorante all'aperto per 10 mila franchi
al mese,
15 euro e 40. Un nigeriano le ha proposto di vendere il sorriso e il corpo.
Ma lei tiene duro. Anche se alla pensione i 10 mila franchi le bastano solo
per pagarsi il rettangolo di pavimento su cui dormire: «Spero nelle mance -
sorride -. Ho un diploma di informatica, lavoravo in una ditta farmaceutica
per 60 mila franchi, 92 euro al mese. Ma per me e mia figlia voglio un
futuro diverso. Ho deciso di partire in febbraio, dopo che una mia amica è
arrivata
in Italia seguendo la rotta del deserto. Anch'io vorrei andare in Italia. Ma
dove arrivi non dipende da cosa vuoi: dipende dai soldi che riesci a
raccogliere».
Denis e Collin Phils, fratelli gemelli, studenti al primo anno di
università, chimica ed economia, all'autostazione di Agadez sono rimasti tre
settimane.
Hanno sofferto la fame e venduto le scarpe. Sul camion del deserto sono
saliti grazie alle offerte della loro parrocchia, in Nigeria. Hanno
telefonato
al pastore con il cellulare di un turista. Gli hanno detto che erano
stranded, bloccati. E il pastore ha raccontato a messa la storia dei due
bravi ragazzi
che prima di partire gli avevano chiesto di pregare davanti al crocefisso.
Pochi giorni dopo, allo sportello della Western Union sono arrivati i soldi.
Se fossero nati in Europa, Denis e Collin avrebbero sicuramente un
cappellino con lo sponsor. Come certi campioni di sport estremi. Perché ad
Agadez sono
arrivati a piedi, da Zinder, Birni-Nkonni e Tahoua. Novecentosettanta
chilometri di villaggi, savana e quasi metà di deserto. Avevano speso gli
ultimi
soldi per il biglietto del pullman. E a Zinder un ufficiale li ha fatti
scendere perché non avevano più niente da offrire ai militari. Il pullman è
ripartito
con i loro bagagli. Ma loro non si sono arresi. Hanno camminato, dormito
sulla strada, mangiato datteri e qualche biscotto. A ogni posto di controllo
sono
stati frustati o bastonati, o tutte e due le cose. Denis ha ancora le
cicatrici su una gamba, il braccio e il fondoschiena. Avevano pianificato il
viaggio
perfino nei libri. Ne avevano messi quattro nella borsa: «Cosa dire quando
parli a te stesso», «Come superare i conflitti», «L'influenza del potere»,
«Come
pensare positivo», più una maglietta a testa, un paio di jeans e l'agenda
con i numeri di telefono. «Avevamo scelto titoli che ci aiutassero a trovare
le motivazioni - dice Collin -. Li abbiamo persi con i bagagli. Là dentro c'
era anche il regalo che la mia fidanzata mi aveva dato prima dell'ultimo
bacio.
Una tazza con la scritta: stai bene, ti amo». Chi ha preso la decisione di
partire? «Io ho deciso per primo - risponde Collin -. Era gennaio. Avevamo
appena
finito il primo semestre all'Università di Ekiti State. Eravamo tra i più
bravi del corso, ma non avevamo più soldi per continuare. I nostri genitori
sono
morti nel '96 in un incidente d'auto. Ci siamo mantenuti con le ripetizioni.
Ora però i costi sono troppo alti...».
E perché proprio l'Italia? «Conosciamo nigeriani che vivono in Italia,
dicono che è un bel Paese. Denis voleva fare le cose in regola. È andato
fino a Lagos,
all'ambasciata italiana. Ma un impiegato nigeriano gli ha detto che bisogna
versare una cauzione di 1.800 dollari. Non rimaneva che il deserto. Ci siamo
messi a lavorare. Da gennaio a novembre. Muratore, garzone, operaio. Faremo
lo stesso in Libia. Per continuare in barca fino in Italia. Sappiamo che
molte
barche affondano. Ma alla nostra non succederà. Dio non può abbandonarci,
dopo tutto quello che abbiamo passato qui». Il sogno da adolescente di
Collin
era una divisa da pilota d'aereo. «Io volevo fare l'astronauta», ride Denis.
Adesso stanno seduti in un paesaggio lunare dove il blu del cielo scende a
toccare la sabbia. Nasser e Housseini, i due autisti, richiudono il cofano,
alzato per raffreddare il radiatore. Due colpi d'acceleratore, un ruggito
rauco
e una densa fumata nera. Denis, Collin e gli altri 180 scappano verso il
camion. Ci si arrampica come marinai all'arrembaggio. La sosta è finita, i
libici
non aspettano. Nasser ha promesso che si fermerà al pozzo di Achegour per
riempire i bidoni. «Arriveremo al tramonto - prevede -. Se Allah vuole».
Sarà
l'ultimo sorso d'acqua fresca. Prima di Dirkou: la grande oasi dei
clandestini partiti per l'Italia e diventati schiavi.
A PRESTO
PIER LUIGI GIACOMONI