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L'UMANITA' VIOLATA DELL'AFRICA




           L'UMANITA' VIOLATA DELL'AFRICA
Il liberismo sta distruggendo il "continente nero". Non soltanto le sue
risorse ambientali ed economiche ma anche le relazioni sociali legate al
rapporto con la natura

        di AMINATA D. TRAORE già ministra della cultura del Mali
L'articolo è stato scritto in occasione del vertice di Johannesburg ed è
pubblicato nell'edizione francese di "Le Monde diplomatique" di settembre.
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L'idea che la maggior parte degli africani ha finora avuto del presente e
dell'avvenire era che la morte, inevitabile, fosse tuttavia tollerabile,
purché non mancasse una generazione a sostituire l'altra. Durare era la
possibilità di sopravvivere a se stessi. Nessuna persona era considerata
povera fintanto ne esisteva un'altra su cui la prima potesse contare. Di qui
aveva origine, nelle nostre società, la decisiva importanza della
procreazione: in termini non soltanto di numero di figli, ma anche e
soprattutto di persone - uomini e donne - di qualità (salute fisica e
mentale, socievolezza, moralità) che prolungano la vita e la rendono
perenne. Si prendeva ogni precauzione per evitare che il fuoco si spegnesse.
L'alleanza con la natura, le diverse forme di solidarietà, erano la garanzia
di questa perennità, ben più forte della capacità di durare. Con un
sacrificio (cola, latte, farina) si implorava il perdono di un albero che si
stava per abbattere, o, prima di arare, quello della terra che si era in
procinto di ferire. I primi raccolti erano l'occasioni di manifestazioni
culturali che raccoglievano la popolazione e ricordavano l'imperiosa
necessità di andare d'accordo con l'ambiente per governarlo. Naturalmente
erano forme di esperienza e di conoscenza di vita che fanno sorridere più di
un tecnocrate. Gli stati post-coloniali si sono convertiti alla loro nuova
religione, piena di promesse. Ma a tanti anni dalle indipendenze aspettiamo
ancora che vengano mantenute.

E' magnifico che il continente africano, a dieci anni dal vertice di Rio,
accolga la conferenza mondiale sullo sviluppo sostenibile nella sua
Johannesburg. Ma lo sviluppo, oltretutto sostenibile, non è che una
parolona, una parola d'ordine in più. Ed è tanto più dubbia poiché si
iscrive nella missione «civilizzatrice» delle potenze coloniali, ma questa
volta con l'appoggio e la complicità delle elite locali, che a loro volta,
illudono e assoggettano i loro popoli. La globalizzazione liberista è il
quadro logico di questa impostura. I suoi scacchi e le sue tempeste non ci
scoraggiano, soprattutto una volta che l'autorevole voce di Joseph Stiglitz,
già capo economista della Banca mondiale e premio Nobel per l'economia ha
detto che «oggi la globalizzazione non funziona per i poveri del mondo, come
non funziona per l'ambiente, come non funziona per la stabilità
dell'economia mondiale».

L'Africa, più di ogni altro continente, avrebbe dovuto riassestarsi alla
luce di tutto ciò che sappiamo sul sistema economico dominante e dei mea
culpa di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale. Niente. I nostri
dirigenti preferiscono perdere la sfida e riempire il granaio con i
dividendi della subordinazione. Gli investimenti eccessivi in infrastrutture
costose e raramente necessarie che però contribuiscono all'accumulo del
debito estero, sono il loro maggiore interesse. Lo testimonia l'ultima
trovata: la Nuova associazione per lo sviluppo dell'Africa (Nepad). I padri
di questo progetto neoliberista, il più ambizioso mai immaginato dai
dirigenti africani, sono fiduciosi e sereni. E questo nonostante le messe in
guardia da parte di numerose organizzazioni della società africana.

I soci che si sono trovati e che passano avanti ai loro popoli, come il G8,
il Fondo monetario, la banca mondiale, il Wto, non sono sinceri nelle loro
risoluzioni di lotta contro la povertà, o di protezione dell'ambiente. Le
piogge torrenziali che si abbattono su una parte del nord del pianeta, le
siccità e le carestie nell'Africa australe e che raggiungono ormai l'Africa
dell'Ovest, non bastano a far cambiare idea ai sostenitori del «mercato
totale», in particolare la potentissima amministrazione americana. La sua
arroganza non ha limiti, che si tratti della riparazione per i pregiudizi
subiti dai discendenti di africani deportati come schiavi (conferenza di
Durban), delle sovvenzioni alle esportazioni agricole (vertice di Roma
dell'organizzazione dell'Onu per l'alimentazione e l'agricoltura  - Fao) del
finanziamento allo sviluppo (conferenza di Monterrey) , o delle emissioni di
gas di serra (protocollo di Kyoto), della corte penale internazionale, ecc.

Sono piaghe aperte e dolorose quelle causate da oltre quaranta anni di
sviluppo, compresi due decenni di aggiustamento strutturale sotto la guida
dell'Fmi e della Banca mondiale e dieci anni di preteso sviluppo
sostenibile. Imbarcati, a loro insaputa, in queste strategie, africani e
africane vivono, in grande maggioranza in situazioni di estrema precarietà.
Analfabetismo, mancanza di lavoro, sottoalimentazione, carestie e malattie
continuano, devastanti. Le popolazioni sono tanto più vulnerabili, quanto i
loro riferimenti culturali sono divenuti confusi o resi inoperanti. E' certo
che le popolazioni si sforzano di inventarne di nuovi, in ogni settore; e
resistono come possono, con esiti più o meno validi. Il ripiegamento
identitario, l'individualismo, il fanatismo, l'esilio, la violenza, la
follia sono, in Africa, altrettanti luoghi di rifugio per le vittime dello
sviluppo e della globalizzazione mercantile.

Le migrazioni che tanto ossessiano le leadership dei paesi ricchi devono
essere rilette alla luce di questa tragedia. Se c'è insicurezza, essa
colpisce soprattutto donne, bambini, lavoratori, contadini, anziani e
handicappati, che continuano a essere maltrattati e impoveriti in nome dello
sviluppo. Gli uomini e le donne partono perché non sanno più come dare senso
alla propria esistenza sulla propria terra.

Nelle zone di partenza (città, quartieri, villaggi) gli africani privi di
fonti di reddito e di mezzi di sussitenza, vivono nel timore di scomparire
fisicamente a causa dell'aumento del prezzo della derrate alimentari e della
privatizzazione dei servizi pubblici, soprattutto delle cure sanitarie. I
malati che non sono in grado di pagare sono condannati a morire. La
sopravvivenza deve fare i conti con il lavoro minorile, lo sfruttamento
delle donne, la miseria, la prostituzione (malgrado l'Aids), le rapine a
mano armata...

Allo stesso tempo, i legami sociali si sfilacciano, i punti di riferimento
si attenuano e le risorse naturali si rarefanno ad un ritmo spaventoso. Le
foreste vengono saccheggiate dalle multinazionali per il legno di
costruzione, dalle famiglie povere per il legno da riscaldamento e come
fonte di guadagno. La pressione demografica, a cui il discorso dominante
imputa la responsabilità di questa situazione, è certo un vincolo notevole,
la cui soluzione può e deve tuttavia essere trovata nell'educazione,
soprattutto quella delle donne.

Quando ne va dei loro interessi, i potenti del mondo travestono i mali del
pianeta in soluzioni, confiscano le risorse finanziarie e imbrogliano,
definendo tra loro le regole del gioco. La fame - che colpisce 800 milioni
di persone nel mondo, la maggioranza delle quali si trova in Africa - lancia
oggi più che mai una sfida ai sostenitori dello sviluppo durevole. La
pandemia dell'Aids, che sta decimando le popolazioni del continente mentre
potrebbe essere arginata, gliene lancia un altra, diretta anche alle élite
africane, che continuano a sbagliare nella scelta dei propri partner.

Cosa ci possiamo aspettare dal vertice di Johannesbourg, in un contesto
internazionale così segnato dall'unilateralismo degli Stati uniti, dal
doppio linguaggio, dalle esitazioni e dai tradimenti dell'Europa,
dall'onnipresenza, dall'ingerenza e dall'impunità dell'Fmi e della Banca
mondiale in Africa, dalla corruzione, dalla miopia dei dirigenti africani e
dalla strumentalizzazione dei tenetivi di organizzazione delle società? E'
poco probabile che gli stati industrializzati, devastati dalle conseguenze
dell'11 settembre e dalle valange di scandali finanziari di questi ultimi
mesi (Enron, Worldcom, Xeros, Vivendi Universal, e così via) si mostrimo più
attenti che in passato ai mali del nostro continente.

Come definire, allora, questa speranza legittima di riacquisire i nostri
diritti economici, politici, sociali e culturali, quando le parole suonano
false? Perché non dare provare di creatività pescando, nel ricco patrimonio
linguistico del continente, concetti che parlano dell'umano e del suo
ambiente e che abbiano senso per i popoli? Quello dello sviluppo (antinomico
alla nozione di durabilità) e quello della globalizzazione liberale
discendono dalla stessa logica disumanizzante. Si tratta, per l'Africa, di
opporgli principi di vita, oltre a valori che privilegino l'umano: l'umiltà
contro l'arroganza, la comprensione e la preoccpuazione per l'altro,
soprattutto nei confronti delle generazioni future, di fronte alla logica
dell'ognun per sé.

Questo sfrorzo di creatività compete soprattutto alle  organizzazioni delle
società africane. Sono loro a dover far emergere una massa critica di
cittadini e cittadine che afferrino la vera natura del sistema mondo, e
imprimano all'apertura politica un senso diverso dalla mercificazione
dell'Africa.