Sono italiano e ho la pelle nera. Un black italiano, come mi sono
sentito dire al controllo dei passaporti dell'aeroporto di Boston da
africane americane addette alla sicurezza. Ma voi avete idea di cosa
significa essere italiano e avere la pelle nera proprio nell'Italia del
2009?
Mi capita, quando vado in Comune a Milano per richiedere un certificato
ed esibisco il mio passaporto italiano o la mia carta d'identità, che
il funzionario senza neppure dare un'occhiata ai miei documenti, ma
solo guardandomi in faccia, esiga comunque il mio permesso di
soggiorno: documento che nessun cittadino italiano possiede. Ricordo
un'occasione in cui, in una sede decentrata del Comune di Milano, una
funzionaria si stupì del fatto che potessi avere la carta d'identità
italiana e chiamò in aiuto altre due colleghe che accorsero lasciando
la gente in fila ai rispettivi sportelli. Il loro dialogo suonava più o
meno così.
"Mi ha dato la sua carta
d'identità italiana ma dice di non avere il permesso di soggiorno. Come
è possibile?".
"Come hai fatto ad avere
la carta d'identità, se non hai un permesso di soggiorno... ci capisci?
Dove hai preso questo documento? Capisci l'italiano?". "Non ho il
permesso di soggiorno", mi limitai a rispondere.
Sul documento rilasciato
dal Comune (e in mano a ben tre funzionari del Comune) era stampato
"cittadino italiano" ma loro continuavano a concentrarsi solo sulla mia
faccia nera, mentre la gente in attesa perdeva la pazienza.
Perché non leggete cosa c'è scritto sul documento?", suggerii. Attimo
di sorpresa ma.... finalmente mi diedero del lei. "Lei è cittadino
italiano? Perché non l'ha detto subito? Noi non siamo abituati a vedere
un extracomunitario...".
L'obiezione sembrerebbe avere un qualche senso ma se invece, per
tagliare corto, sottolineo subito che sono cittadino italiano, mi sento
rispondere frasi del genere: "Tu possiedi il passaporto italiano ma non
sei italiano". Oppure, con un sorriso: "Tu non hai la nazionalità
italiana come noi, hai solo la cittadinanza italiana perché sei
extracomunitario".
Quando abitavo vicino a viale Piave, zona centrale di Milano, mi è
capitato che mentre di sera stavo aprendo la mia macchina ed avevo in
mano le chiavi una persona si è avvicinata e mi ha chiesto con tono
perentorio perché stavo aprendo quell'auto. D'istinto ho risposto:
"Perché la sto rubando! Chiama subito i carabinieri". E al giustiziere,
spiazzato, non è restato che andarsene.
In un'altra occasione a Milano alle otto di mattina in un viale ad
intenso traffico, la mia compagna mentre guidava ha tagliato
inavvertitamente la strada ad una donna sul motorino. E' scesa di corsa
per sincerarsi dello stato della malcapitata. Ho preso il volante per
spostare la macchina e liberare il traffico all'ora di punta. Un'altra
donna (bianca) in coda è scesa dalla propria macchina ed è corsa verso
la mia compagna (bianca) e diffondendo il panico le ha detto: "Mentre
stai qui a guardare, un extracomunitario ti sta rubando la macchina".
"Non è un ladro, è il mio compagno", si è sentita rispondere.
Tutte le volte che ho cambiato casa, ho dovuto affrontare una sorta di
rito di passaggio. All'inizio, saluto con un sorriso gli inquilini
incrociati per caso nell'atrio: "Buongiorno!" o "Buona sera!". Con i
giovani tutto fila liscio. Mentre le persone adulte sono più
sospettose. Posso anche capirle finché mi chiedono se abito lì, perché
è la prima volta che ci incontriamo. Ma rimango spiazzato quando al
saluto mi sento rispondere frasi del genere: "Non compriamo nulla. Qui
non puoi vendere!". "Chi ti ha fatto entrare?".
Nel settembre di quest'anno ero con mio figlio di 12 anni e aspettavo
insieme a lui l'arrivo della metropolitana alla stazione di Palestro.
Come sempre l'altoparlante esortava i passeggeri a non superare la
linea gialla di sicurezza. Un anziano signore apostrofò mio figlio:
"Parlano con te, ragazzino. Hai superato la linea gialla. Devi sapere
che qui è vietato superare la linea gialla... maleducato". Facevo
notare all'anziano che mio figlio era lontano dalla linea gialla ma lui
continuava ad inveire: "Non dovete neppure stare in questo paese.
Tornatevene a casa vostra... feccia del mondo. La pagherete prima o
poi".
Qualche settimana fa all'aeroporto di Linate sono entrato in un'edicola
per comprare un giornale. C'era un giovane addetto tutto tatuato, mi
sono avvicinato a lui per pagare e mi ha indicato un'altra cassa
aperta. Ho pagato e mi sono avviato verso l'uscita quando il giovane
addetto si è messo a urlare alla cassiera: "Quell'uomo di colore ha
pagato il giornale?". La cassiera ha risposto urlando: "Sì l'uomo di
colore ha pagato!". Tornato indietro gli dico: "Non c'é bisogno di
urlare in questo modo. Ha visto bene mentre pagavo". "Lei mi ha
guardato bene? Lo sa con chi sta parlando? Mi guardi bene! Sa cosa
sono? Lei si rende conto cosa sono?". Cercava di intimidirmi. "Un
razzista!" gli dico. "Sì, sono un razzista. Stia molto attento!". "Lei
è un cretino", ho replicato.
Chi vive queste situazioni quotidiane per più di 25 anni o finisce per
accettarle, far finta di niente per poter vivere senza impazzire,
oppure può diventare sospettoso, arcigno, pieno di "pregiudizi al
contrario", spesso sulle spine col rischio di confondere le situazioni
e di vedere razzisti sbucare da tutte le parti, di perdere la testa e
di urlare e insultare in mezzo alla gente.
E il suo aguzzino che ha il
coltello dalla parte del manico, con calma commenta utilizzando una
"formula" fissa ma molto efficace: "Guardate, sta urlando, mi sta
insultando. Lui è soltanto un ospite a casa mia. Siete tutti
testimoni...".
Ho assistito per caso alla rappresentazione di una banda musicale ad
Aguzzano, nel piacentino. Quando quasi tutti se ne erano andati ho
visto in mezzo alla piazza una bandiera italiana prendere fuoco senza
una ragionevole spiegazione. Mi sono ben guardato dal spegnerla anche
se ero vicino. Cosa avrebbe pensato o come avrebbe reagito la gente
vedendo un "extracomunitario" nella piazza di un paesino con la
bandiera italiana in fiamme tra le mani? Troppi simboli messi insieme.
Ho lasciato la bandiera bruciare con buona pace di tutti.
Ho invece infinitamente apprezzato il comportamento dei poliziotti del
presidio della metropolitana di Piazza Duomo di Milano. Non volevo
arrivare al lavoro in ritardo e stavo correndo in mezzo alla gente. Ad
un tratto mi sentii afferrare alle spalle e spintonare. Mi ritrovai di
fronte un giovane poliziotto in divisa che mi urlò di consegnare i
documenti. Consegnai la mia carta di identità al poliziotto già
furibondo il quale, senza aprirla, mi ordinò di seguirlo. Giunti al
posto di polizia, dichiarò ai suoi colleghi: "Questo extracomunitario
si comporta da prepotente!".
Per fortuna le mie spiegazioni non furono smentite dal collega presente
ai fatti. I poliziotti verificarono accuratamente i miei documenti e
dopo conclusero che il loro giovane collega aveva sbagliato porgendomi
le loro scuse. Furono anche dispiaciuti per il mio ritardo al lavoro.
Dopotutto, ho l'impressione che, rispetto alla maggioranza della gente,
ai poliziotti non sembri anormale ritrovarsi di fronte a un cittadino
italiano con la pelle nera o marrone.
"Noi non siamo abituati!", ci
sentiamo dire sempre e ovunque da nove persone su dieci. E' un alibi
che non regge più dopo trent'anni che viviamo e lavoriamo qui, ci
sposiamo con italiane/italiani, facciamo dei figli misti o no, che
crescono e vengono educati nelle scuole e università italiane.
Un fatto sconvolgente è quando tre anni fa fui aggredito da quattro
controllori dell'Atm a Milano e finii al pronto soccorso. Ancora oggi
sto affrontando i processi ma con i controllori come vittime ed io come
imputato. Una cosa è certa, ho ancora fiducia nella giustizia italiana.