NIGRIZIA 6/2000 - L'AVVENIMENTO



L'AVVENIMENTO

Dighe e ambiente / I conti non tornano

MOZAMBICO, CATACLISMA ANNUNCIATO

Anna Maria Gentili
Docente di Storia e Istituzioni dei paesi afroasiatici alla facolta' di
Scienze Politiche, Universita' di Bologna

MANUTENZIONE CARENTE, INFRASTRUTTURE INADEGUATE, AZIONE REGIONALE
SCOORDINATA RENDONO PERICOLOSI E INEFFICACI I GRANDI SBARRAMENTI. SE A CIO'
SI UNISCE IL DEGRADO AMBIENTALE A MONTE E IL SOVRAFFOLLAMENTO URBANO, SI
COMPRENDE PERCHE' I DISASTRI DELLA SCORSA PRIMAVERA NON SONO DEL TUTTO
"NATURALI".

Le cause del disastro che ha colpito la regione meridionale del Mozambico,
oltre che nell’imprevedibilita' delle precipitazioni, stanno a monte, vale a
dire nella gestione di fiumi e terre umide nella regione. Certo e' che il 25
febbraio sulla vallata del Limpopo e affluenti, cosi' come lungo il fiume
Save, si e' riversata un’ondata degna del Vaiont.

La regione colpita e' una pianura, i cui rari punti piu' alti non superano i
100 metri sopra il livello del mare, attraversata da grandi fiumi - Save,
Limpopo, Incomati, Umbeluzi e Maputo, che nascono in Sudafrica, Zimbabwe,
Swaziland. La maggior parte del sud del Mozambico e' semiarida con presenza
di vaste aree paludose: la scarsissima pendenza del terreno fa si' che sia
considerato uno dei dieci paesi al mondo piu' vulnerabili all’aumento dei
livelli del mare.

Gia' negli anni ’60 e ’70 si era notato che le dighe, sia quelle interne sia
quelle controllate dai paesi vicini, avevano avuto un impatto piu' negativo
che positivo sull’ecologia delle valli fluviali. Non avevano mitigato la
siccita', anzi probabilmente avevano aumentato l’intrusione d’acqua salata
dal mare, ne' erano state utili per alleviare le ondate di piena di
occasionali alluvioni.

La guerra (iniziata nel 1976) ha riempito le citta' di rifugiati che solo in
piccola parte sono poi tornati stabilmente nelle aree rurali di provenienza.
Dunque le periferie delle citta' sono cresciute a dismisura: aree fatte di
alloggi precari, senza servizi, particolarmente vulnerabili all’erosione e
alle alluvioni, anche a quelle di piccole dimensioni. Ogni anno alcune zone
suburbane di Maputo finiscono sott’acqua, con gravi conseguenze per gli
abitanti. Nella capitale mozambicana si e' aperta alcuni anni fa una
voragine che ha travolto parte del caniço (abitazioni fatte di materiali
precari) che e' andato crescendo nella parte bassa dell’Avenida Julius
Nyerere. Qui la fragilita' delle dune costiere e' stata messa a repentaglio
dal proliferare del caniço, ma anche dalla costruzione selvaggia di case di
lusso e dalla faraonica ambasciata cinese.

Sembra paradossale rilevarlo ora, il problema del Mozambico in questi ultimi
decenni e' stata soprattutto la siccita'. Prendiamo il caso di Chokwe,
cittadina agroindustriale lungo il Limpopo, distrutta dall’alluvione. In
periodo coloniale, la popolazione locale fu rimossa dalle proprie terre per
far posto ai portoghesi. Il sistema d’irrigazione, ancora oggi il piu'
esteso del paese, data dagli anni ’50 e venne completato negli anni ’70 con
la costruzione della diga di Massingir che doveva regolare il flusso delle
acque e ovviare alle siccita' o alle alluvioni, ma che non ha mai funzionato
a dovere a causa di difetti di costruzione e di scarse capacita' di gestione
e manutenzione.

Nel 1977, poco dopo l’indipendenza e una parziale rioccupazione delle terre
da parte di mozambicani, un’alluvione costrinse a spostare di forza la
popolazione rivierasca sulle alture. L’area irrigata venne nazionalizzata e
organizzata in un’impresa industriale, il Complexo Agro-Industrial do Vale
do Limpopo, successivamente suddivisa in sette aziende statali. Il totale
fallimento della gestione statale, la guerra e poi la svolta politica dell’
inizio degli anni ’90 (la guerra termina nel ’92) portarono ad una
ristrutturazione con la cessione di terreni a privati e in parte all’
agricoltura familiare. Tuttavia il sistema d’irrigazione non ha ripreso a
funzionare a piena capacita'. Il recupero produttivo della zona e' stato
coartato da un’inefficiente o inesistente manutenzione dei canali di
drenaggio, dall’aumento della salinita' e quindi da un generale
impoverimento delle terre. Tutto questo con conseguenze gravi, perche' la
regione e' il vero e proprio granaio del Mozambico. L’alluvione dei mesi
scorsi ha distrutto tutto, sistema d’irrigazione, ogni tipo di impresa
agricola, bestiame.

CHI PAGA? I POVERI

La polemica sulla regolamentazione del deflusso delle acque dalle dighe non
e' dunque accademica, ma centrale ai problemi della sopravvivenza, crescita
e sviluppo dell’agricoltura contadina e impresariale. Troppa poca acqua
arriva quando, nei lunghi periodi di siccita', ve ne sarebbe bisogno; troppa
acqua viene evacuata all’improvviso quando gli invasi sono oltre il limite
consentito. Questo senza che la popolazione che vive e produce in quelle
vallate abbia alcun controllo sulle decisioni "tecniche" e senza che vi
siano sistemi efficienti di preavviso tali da consentire alle popolazioni di
mettersi in salvo.

Questo e' accaduto negli anni passati regolarmente e il problema e' ben
noto. Pare che in Mozambico la popolazione lungo il Limpopo sia stata
avvertita, ma solo in parte abbia accolto l’esortazione a spostarsi. Ci
troviamo in una regione vastissima in cui le informazioni arrivano con
difficolta' e poi appare chiaro che non e' stato calcolato l’enorme impatto
dell’ondata di piena. E qui torna la questione del coordinamento regionale e
la revisione necessaria del regime di regolamento del deflusso delle acque.

In Sudafrica e' sorta una polemica sull’inadeguatezza delle previsioni
meteorologiche e quindi sulla capacita' delle autorita' preposte al
controllo delle dighe di programmare deflussi graduali quindi meno
devastanti. E invece ci sono stati morti - il numero esatto non si sapra'
mai - e per la maggior parte dei sopravvissuti la speranza di ricostruire la
propria vita e' molto precaria e lontana.

Superata l’emergenza, la comunita' internazionale, i governi della regione e
le organizzazioni preposte al coordinamento regionale devono prendere
coscienza che si devono affrontare i problemi di fondo. Le vittime di queste
"calamita' naturali" sono sempre quasi solo le popolazioni piu' povere nelle
aree sia rurali sia urbane, le stesse che pur vivendo in stati formalmente
democratici non hanno accesso ne' all’informazione ne' al processo
decisionale.

Infine ambientalisti e ecologi mettono in evidenza come le eccezionali
alluvioni che hanno devastato il Mozambico e fatto guasti notevoli in
Zambia, Zimbabwe, Swaziland, nel Transvaal sudafricano e in Botswana sono in
parte dovute al crescente, esteso danno ambientale in tutti i paesi delle
regione, esacerbato dalla distruzione di aree umide e paludose. David
Lindley, ecologista del Rennies Wetland Project, sostiene che l’erosione
delle zone umide e l’eccessivo sfruttamento delle praterie nelle alture
dello spartiacque dei fiumi, in Botswana, Zimbabwe e Sudafrica, e' fra le
principali cause di ondate di piena incontrollabili. Si calcola che negli
ultimi decenni circa il 50% delle aree paludose sudafricane sono andate
distrutte per favorire l’agricoltura e per l’allargarsi delle citta'. Ora,
le terre umide sono come spugne che assorbono l’acqua in eccesso per poi
restituirla lentamente ai corsi d’acqua. La degradazione di questo sistema
ecologico ha rimosso la valvola di salvezza e certamente favorito il
ripetersi di alluvioni devastanti.

La questione ambientale, come dimostra questo disastro, e' un problema
politico e di accesso alle risorse. Questa e' la vera sfida della
ricostruzione e dello sviluppo.

DONATORI NON AFFATICATI

"Success story" e' stato il leitmotiv degli interventi alla Conferenza
internazionale per la ricostruzione del Mozambico, ospitata a Roma dal
ministero degli esteri il 3 e 4 maggio. Una storia di successi lunga sette
anni - con la pagina della guerra definitivamente girata, performance
economiche da 10% di crescita annua, un’ormai consolidata proiezione
internazionale e immagine di "buon governo" - ha fatto del Mozambico l’
enfant che'ri della comunita' internazionale.

Alla Farnesina ha poi impressionato i rappresentanti di 20 paesi donatori –
questa volta non colpiti da sindrome di "affaticamento" – nonche'
istituzioni internazionali e osservatori, l’articolato Programma di
ricostruzione post-emergenza presentato dal ministro delle finanze, Luísa
Dias Diogo, mentre la Conferenza veniva presieduta dal ministro degli esteri
Leonardo Simão congiuntamente con Mark Malloch Brown, amministratore del
Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp). Cosi' che, venuto per
domandare 450 milioni di dollari, il governo se n’e' tornato a Maputo con
quasi 453, dei quali 28,2 italiani.

Il bilancio umano delle alluvioni, non va dimenticato, e' ufficialmente di
700 morti piu' un centinaio di scomparsi, 544.000 persone in situazione di
assoluta emergenza e oltre un quarto della popolazione del paese colpita in
misura varia dal disastro. Dal punto di vista economico, 10% delle
coltivazioni distrutte, 20mila capi di bestiame morti, 90% degli impianti di
irrigazione inservibili. E scuole, dispensari, ospedali, ponti, strade,
edifici pubblici… scomparsi o inutilizzabili.

Molta enfasi i delegati hanno dato, in vista della ricostruzione, alla
promozione del microcredito. Ancor di piu' all’investimento privato. Un po’
meno al ruolo della societa' civile…

Si e' anche parlato di condono del debito. Mentre alcuni paesi (Canada,
Finlandia, Germania, Danimarca, Belgio, Francia) hanno potuto vantare la
gia' avvenuta cancellazione, il sottosegretario agli esteri Rino Serri ha
ribadito, per l’Italia, l’impegno a estinguere anche i crediti commerciali
(i crediti d’aiuto sono stati azzerati qualche anno fa) e ad adoperarsi in
seno al G-7 e alle istituzioni finanziarie internazionali perche' tutti i
creditori, bilaterali e multilaterali, facciano lo stesso.

Alla Conferenza si e' parlato anche di vulnerabilita', ambientale oltreche'
umana. Dunque di prevenzione: dalla necessaria modernizzazione delle
rilevazioni meteorologiche e idrometriche alla circolazione delle
informazioni a livello nazionale e regionale, al riassetto del territorio.
Ma a tutto questo capitolo e' dedicata una parte minima del budget. Ne' si
e' osato un po’ di dibattito sulle cause del disastro: fino a che punto sia
stato "naturale", e poi il problema dell’apertura delle dighe… Nel Programma
scopriamo anzi un piano di almeno quattro nuove dighe per il prossimo
quinquennio, oltre alla riabilitazione di quelle di Massingir e Macarretane.

MORATORIA

Una moratoria sui progetti di grandi dighe. La richiesta e' del marzo dello
scorso anno, l’hanno sottoscritta una cinquantina di organizzazioni non
governative italiane, e' rivolta alla Commissione mondiale sulle Grandi
Dighe che dovrebbe esprimersi nell’ottobre di quest’anno. Nel
documento-dichiarazione, elaborato dalla Campagna per la riforma della Banca
Mondiale, si chiede tra l’altro alla Commissione di adottare "criteri di
analisi che includano le problematiche sociali e un processo decisionale
partecipativo e trasparente, che veda coinvolti tutti gli attori, i
possibili beneficiari e fruitori".

Favorevole ad una moratoria di almeno dieci anni nella costruzione delle
grandi dighe "cosi' da poter fare una valutazione chiara" e' Riccardo
Petrella, promotore del comitato internazionale per un "Contratto mondiale
dell’acqua" basato sul principio della gratuita' (per saperne di piu':
Cipsi, tel. 06 5414894; web.tin.it/cipsi/acqua. "Perche' e' stato ampiamente
dimostrato - spiega Petrella, professore all’Universita' Cattolica di
Lovanio (Belgio) - che le dighe sono controproducenti per l’ecosistema e per
l’approvvigionamento idrico. Chi ci ha guadagnato finora sono i costruttori
e le industrie delle turbine".

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