NIGRIZIA 5/2000 - L' EDITORIALE



L' Editoriale

MA LIBERACI DALLE DIGHE

Com’ e' che in Africa si stanno ancora progettando e costruendo grandi dighe
(ogni diga alta piu' di 15 metri e' considerata una "grande diga"), mentre
la loro utilita' e' perlomeno dubbia? Com’e' che da strumento di controllo
delle piene e da volano di sviluppo - energia elettrica e irrigazione - si
stanno rivelando in non pochi casi delle vere e proprie trappole per le
popolazioni, per il bestiame, per le terre? Com’e' che perfino gli Usa -
maestri e maniaci dello sviluppo attraverso opere ciclopiche - ne hanno
smantellate cento tonde tonde dal ‘60 ad oggi, l’ultima il 1° luglio scorso
sul fiume Kennebec nello stato del Maine? E com’e' che la Banca Mondiale,
per (auto)definizione ente di sviluppo, si ostina a finanziare opere
mastodontiche, con smisurati costi umani e ambientali, come l’Highlands
Water Project in Lesotho (Nigrizia, 4/00, 57)?

Sono domande che ci sono venute incontro mentre in Mozambico si consumava,
in febbraio, marzo e aprile, l’alluvione, disastrosa per le popolazioni (le
vittime sarebbero migliaia) e per l’economia del paese (che aveva appena
raggiunto l’autosufficienza alimentare), causata certo da piogge battenti e
dal ciclone Eline, ma anche dalle acque fatte defluire dalle dighe di
Sudafrica e Zimbabwe. Nello stesso periodo, in Zambia, migliaia di persone
hanno subito le conseguenze del deflusso dall’imponente diga di Kariba.

Domande alle quali ci proponiamo di rispondere piu' articolatamente su
Nigrizia di giugno. Intanto pero' qualche perche' va almeno delineato.

Spiega la professoressa Anna Maria Gentili, docente di storia africana all’
Universita' di Bologna, a proposito del Mozambico: "Le grandi dighe, sia
quelle situate all’interno, sia quelle controllate dai paesi vicini, per la
mancanza di infrastrutture adeguate a valle, carente manutenzione,
scoordinamento dell’azione regionale, hanno mostrato piu' inefficienza che
vantaggi. Passata l’emergenza, bisogna affrontare i problemi di fondo. Le
vittime di queste "calamita' naturali" sono quasi sempre le popolazioni piu'
povere - sia nelle aree urbane sia in quelle rurali; popolazioni che pur
vivendo in stati formalmente democratici non hanno accesso ne' all’
informazione ne' al processo decisionale in cui si decide quanto ha a che
vedere con la loro sopravvivenza".

Rincara Jaroslava Colajacomo della Campagna per la riforma della Banca
Mondiale: "Evitare le piene fermando l’acqua che scorre risulta
incompatibile con la sicurezza delle popolazioni e quella ambientale. L’
artificializzazione dei fiumi e la regolamentazione forzata (tra stagione
delle piogge e quella secca) dei rilasci d’acqua velocizza l’erosione del
suolo a monte e la sedimentazione a valle, eliminando le naturali difese del
territorio. Lo hanno testimoniato recentemente anche i casi dell’Honduras,
con lo straripamento della diga di El Cajón (costruita dall’italiana
Impregilo con un prestito della Banca Mondiale), e della Mauritania, 55
villaggi con 100mila persone allagati nelle regioni di Rosso e Kae'di per l’
apertura dell’invaso della diga Manantali, costruita nel 1987 sul Bafing,
affluente del fiume Senegal. Si calcola che nel mondo le grandi dighe
abbiano creato dai 30 ai 60 milioni di sfollati".

Ci limitiamo, per ora, ad aggiungere che in Africa - dall’Egitto al Sudan,
dal Ghana al Kenya, dal Lesotho alla Nigeria, dalla Tunisia al Congo - si
contano una trentina di grandi dighe.

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