Missione in Libano: ultimo report



Libano.

7-8-9 novembre 2006.

Trascorriamo parte del martedì a rielaborare e ridefinire alcuni punti dei progetti di emergenza dopo il giro nei centri e nei villaggi del sud Libano distrutti dalla guerra dei 34 giorni dell’estate. La mattina successiva abbiamo appuntamento in ambasciata italiana con i responsabili dell’istruzione e della gestione dei progetti di intervento della cooperazione.

L’ambasciata è posta nella parte alta di Beirut. Un bel posto che vede distendersi sotto di sé la grande capitale del Medio Oriente, e lì, davanti e sulla sinistra, il grande abbraccio del Mediterraneo.

Incontriamo Paul Gasparini, da anni in Medio Oriente e conoscitore profondo della realtà libanese, e due giovani funzionari incaricati dell’istruzione e del monitoraggio dei progetti di emergenza, Rosario Speranza e Jacopo Monzini, entrambi da poco a Beirut e reduci dall’aver operato in Indonesia, coordinando gli interventi di emergenza del dopo-tzunami.

Con loro ci confrontiamo in spirito di grande collaborazione sugli aspetti specifici del progetto elaborato dal Cric, Assopace e Sci, che, oltre ad una parte di ricostruzione e strutturazione di centri per l’aggregazione sociale giovanile, prevede formazione ed educazione alla nonviolenza e alla convivenza tra componenti culturali e confessionali diverse, e l’organizzazione di campi estivi e invernali con la presenza di giovani italiani nei villaggi e nei campi profughi colpiti dalla guerra.

Il progetto è ambizioso e di non facile gestione, ma di grande ambizione e interesse. Educare alla nonviolenza in territori da anni sconvolti da decenni di guerra civile, da quattro aggressioni esterne israeliane, interessate a pressioni degli stessi paesi arabi confinanti, soprattutto siriane, non è cosa semplice. Ed è chiaro che la pratica nonviolenta mira a formare la cultura di una nuova classe di giovani, a partire dalla risoluzione dei conflitti anche minimi e quotidiani. Quelli che dobbiamo imparare ad affrontare per garantire la convivenza.

Tutto questo senza pensare di intaccare il diritto naturale dei popoli alla resistenza contro le aggressioni armate all’integrità del proprio territorio e le limitazioni alla sovranità del proprio paese.

Agli amici dell’ambasciata riferiamo dei risultati del nostro viaggio nel sud del Libano, e dell’importanza di cominciare a lavorare su progetti di emergenza che non si fermino alla ricostruzione delle semplici strutture, ma guardino a chi deve utilizzarle e per quali finalità.

Ci lasciamo con l’impegno a lavorare assieme per un maggiore coinvolgimento delle amministrazioni locali italiane a sostenere questi interventi e poter garantire una continuità di azione, anche al di là dell’impiego della risorse che il piano elaborato dal ministro D’Alema mette a disposizione.

L’impressione che abbiamo, lasciando l’ambasciata, è che la missione italiana in Libano punta davvero, come più volte dichiarato dal ministero degli esteri, da D’Alema e dal sottosegretario Sentinelli, ad un intervento che non si limiti all’aspetto militare, ma dia grande spazio all’attivazione delle risorse della società civile libanese e alla cooperazione condotta coinvolgendo le associazioni italiane.

Ma quest’ultima parte della missione in Libano è segnata dalla pena e dalla rabbia per la notizia della strage di Beit Hanoun, nel nord della striscia di Gaza. Cerchiamo di avere notizie da Gaza sulla sorte di un gruppo di bambini e di una maestra che viaggiavano su uno scuola-bus del progetto sostenuto dal Cric, quando sappiamo della strage di Beit Hanoun: diciannove civili, in gran parte bambini uccisi nel sonno da un raid israeliano. Vediamo sulle televisioni satellitari le terribili scene. La disperazione delle donne, i corpicini straziati, la corsa delle ambulanze, le dichiarazioni dei leader di Hamas e del presidente Abu Mazen. La pelosa pietà di Perez che ‘apre’ l’assedio a Gaza per consentire l’intervento della Croce rossa internazionale. Ma anche le affermazioni dell’altro ministro israeliano, Peres, che ribadisce che l’operazione ‘Nubi d’autunno’ continuerà, e di Lieberman che annuncia una soluzione ‘alla cecena’ per il problema palestinese.

È già finita, pensiamo, la tregua durata un giorno dopo la tragica farsa del ritiro dei carri da Gaza in occasione dello svolgimento delle elezioni americane di Mid-term.

La sera ci incontriamo con un gruppo di giovani esponenti delle organizzazioni giovanili libanesi, anche questa volta rappresentanti di più partiti e confessioni religiose. Si parla del futuro politico del Libano. Della richiesta del movimento di Awn di entrare nel governo, della possibile pressione per arrivare ad elezioni anticipate che possano registrare il mutamento dei rapporti di forza dopo l’invasione israeliana e la resistenza Hezbollah.

Il giorno dopo è previsto un altro trasferimento al Sud, per conoscere la realtà dei campi profughi palestinesi nell’area di Sidone e di Tiro.

A Tiro incontriamo il sindaco, mentre attendiamo di ottenere i visti per poter entrare nei campi. Il visto sulle copie dei passaporti deve essere rilasciato dall’autorità militare libanese, e capiremo poi che questa non è una pura formalità, considerando che per entrare e uscire dai campi occorre passare due posti di guardia, uno libanese un altro, interno, palestinese, e che le migliaia di persone vi vivono davvero come rinchiusi.

Il sindaco Bizir, che è anche il presidente degli Enti locali libanesi, è persona giovane e dinamica, che ha vinto la sua battaglia elettorale contro l’esponente del partito di Al-Hariri puntando sulla convivenza e l’integrazione dei palestinesi. Lasciamo il suo ufficio dopo una calorosa accoglienza, un profluvio di parole sui suoi programmi amministrativi, il dichiarato impegno a sostenere i nostri progetti e la possibile collaborazione con gli enti locali italiani e la Provincia di Salerno.

Al termine dell’incontro provvede ad accelerare le pratiche di rilascio dei nostri visti per la visita al Campo …..

Il campo profughi di Burj al Shanal è un grande recinto in cui vivono parecchie migliaia di palestinesi profughi del ’48. Sono sostenuti dall’Unrwa, che però non riconosce i profughi che sono stati costretti ad abbandonare la Palestina a seguito dalle successive guerre e invasioni.

Nel campo non c’è possibilità di lavorare e fuori i palestinesi non possono esercitare alcune dei circa settanta mestieri indicati da un’apposita legge libanese. A questi nuovi ‘paria’ resta in pratica la sola possibilità di fare i braccianti nei vivai e nelle piantagioni libanesi e il lavoro come manovali nell’edilizia.

La responsabile di un’associazione femminile ci dice che la paga per questi lavori è di un dollaro l’ora per sei ore di lavoro giornaliero. E ogni mattina c’è qualcuno, una sorta di ‘caporale’, che li ingaggia. Quando servono.

Visitiamo un centro sociale in rovina, dove incontriamo due giovanissime ragazze che masticano un timido di inglese. Anche l’istruzione per i palestinesi del campo è difficile: qui possono accedere alla sola educazione primaria. Per seguire i corsi superiori devono ricorrere agli istituti privati in città. E le spese sono proibitive per i loro redditi.

Insomma, si vive male nel campo. Ma questo non ha impedito che durante la guerra dell’estate si aprissero le porte ad accogliere le famiglie che sfuggivano all’invasione: centinaia di persone sono state accolte senza chiedere nazionalità o fede religiosa.

Il Centro ha bisogno di interventi di ristrutturazione e di attrezzature, ma potrebbe essere uno dei punti in cui sviluppare parte degli interventi previsti dal progetto.

Quando stiamo andando via ci imbattiamo in un piccolo corteo di bambini che con bandiere palestinesi e slogan urlati a gran voce inscenano una manifestazione di solidarietà per i morti di Beit Hanoun. È agghiacciante: mimano un funerale. Di quelli che attraversano ogni giorno i territori invasi della Palestina e di Gaza. Con un fantoccio a imitazione dei corpi delle vittime delle incursioni israeliane.

Non ci sono giochi da bambini, per i palestinesi dei campi, pensiamo. Nella loro esperienza, nel loro immaginario di piccoli costretti a crescere in fretta solo simboli di morte e di guerra. Solo pena, miseria ed emarginazione.

La ricostruzione di cui dovrebbe farsi carico un intervento di emergenza è quella della speranza e della possibilità di futuro. Pensiamo.

Dopo Burj al Shanal., visitiamo altri campi, entriamo in altre case, percorriamo altri stretti vicoli percorsi al centro dagli scoli delle acque. Vediamo altri bambini che corrono e adulti che si attivano per rendere sopportabile un’esistenza segnata dall’ingiustizia. Andiamo via con il ricordo di quel piccolo funerale, condotto come un mesto gioco di bambini…


Ernesto Scelza
Portavoce nazionale dell’Associazione per la Pace
www.assopace.org