Re: PARIGI SI MILANO NO: VICINO-LONTANO



 
La necessaria concisione a volte (come nel mio primo intervento) può sembrare o anche cadere nel sentenziare. Cerco di spiegarmi ancora, ragionando su ciò che dice Sandro Martis. 
Bisogna comprendere la violenza, quando non è quella del dominio (ma anche il dominatore fa pena, perché ha una misera umanità), ma è la violenza della rivolta contro il dominio; quando è, per ignoranza o disperazione, o per dipendenza psicologica, l'unica forma per esprimersi, per farsi riconoscere, perché ti è negato non solo questo o quel diritto e bene, ma lo stesso riconoscimento di soggetto umano.
Vedi che non faccio divisione manichea tra violenti e nonviolenti. Discuto la violenza che si crede "giusta", perchè in realtà è disumana e contraria allo scopo giusto che si vuole.
Non è giusto interpretare chi critica la rivolta violenta come se condannasse gli oppressi o volesse ignorare la loro condizione. Chi vuole che continui la loro oppressione gli fa credere che abbiano solo la violenza per liberarsi, e così li frega più che mai.
Comprendere la violenza degli oppressi o esclusi non toglie che la loro violenza sia ingiusta e che sia un favore fatto all'avversario, perché si diventa come lui, gli si dà ragione. Fatta da lui o fatta da me, la violenza è antiumana, ci disumanizza. E' sempre fascista, di fatto.
Il rifiuto del dominio è sempre giusto, anzi doveroso. Agire è giusto e necessario. Il problema è come agire: se si commette nuova ingiustizia non si esce dalla trappola, si vende l'anima al dominatore, che ne gode, e rafforza il suo dominio. La peggiore sconfitta dello schiavo è somigliare al suo padrone.
Bisogna agire, ma con forze umane, non disumane e disumanizzanti. La violenza deforma il volto, cioè la nostra umanità. Non libera.
E' stata giustificata, la violenza, quando è efficace per togliere una violenza maggiore. Certo, nella scala oppressione-rivolta-repressione, la violenza madre, la più grave, è la prima. Questo bisogna dirlo chiaro. Ma se la rivolta, invece di essere efficace, dà solamente la possibilità all'oppressione di rafforzarsi, peggio, di apparire giusta, oppure se la violenza rende violento la'nimo, allora la rivolta è sbagliata per due motivi, uno umano, uno strategico: primo, perché ci degrada; secondo, perché è stolta, fa il gioco dell'avversario.
Naturalmente, condannare i mezzi violenti che snaturano una lotta giusta, impegna a proporre mezzi nonviolenti ed efficaci. Tutta la ricerca, cultura, esperienza, storia della nonviolenza attiva e positiva fa sempre questo, e lo sappiamo se appena ce ne siamo interessati una sola volta.
La forza umana dell'unità, della ragione, dello stare attaccati alla verità della giustizia, è una forza grande, che si esercita in una quantità di tecniche di azione, che nella storia sono state più frequenti di quanto si creda, ed anche efficaci: prova a vedere "Difesa senza guerra" in http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti
Popoli di tutte le culture, religioni, idee, epoche storiche hanno lottato con la forza della nonviolenza. Anche questa costa sacrifici (perché, la violenza forse no?), ma assai meno dolorosi e infinitamente più dignitosi.
La Resistenza. Certo, fu armata. Ma non solo armata. La storia ormai da anni scopre e valorizza tante forme di resistenza al nazifascismo, forte ed efficace, condotta senza armi, da donne, da civili, da difensori degli ebrei, da operai con scioperi e boicottaggi, dai 600.000 militari prigionieri che rifiutarono di collaborare coi nazifascisti.
Anche l'azione di informazione e propaganda capillare era forte resistenza (p. es. la Rosa Bianca in Germania), tra l'altro indispensabile al sostegno popolare alla lotta armata. Chi faceva la stampa clandestina, senza toccare un fucile, usava un'arma creatrice di coscienza e di forza umana, qualcosa molto più profondamente attivo che uccidere un tedesco. Prova a vedere Semelin, "Senz'armi di fronte a Hitler", edizioni Sonda (sulla resistenza nonviolenta in tutta l'Europa occupata dai nazisti); prova a cercare in internet gli scritti di Anna Bravo e i suoi libri.
I partigiani in gran parte usarono le armi. Ognuno lotta come sa e come può, fa il possibile, nelle circostanze date. Ai nazifascisti bisognava opporsi. Ma oggi, in una simile situazione, sarebbe possibile conoscere e attuare forme di lotta umanamente superiori. L'uso delle armi rischia molto di ridurre la sensibilità umana, che deve essere elevata nella liberazione. Ovviamente, pensare lotte nonviolente non significa affatto disconoscere la lotta armata partigiana, ma solo progettare lotte più libere dalla contaminazione della violenza.
Una volta Bobbio (che non era nonviolento) mi disse: "Mi pento di non avere preso le armi e ucciso un tedesco. Ma so che se lo avessi fatto, ora me ne pentirei".
La lotta nonviolenta si fa in mille modi, secondo le capacità di ciascuno: si fa anche con la cultura, l'educazione, l'elaborazione di idee, la storia delle esperienze, con la coscientizzazione, e con tutto il lavoro sociale, con questa nostra discussione.
Buona salute, buon coraggio, buona resistenza, buona speranza!
Enrico Peyretti
 
 
 
----- Original Message -----
From: "Sandro Martis" <sandro.martis at tin.it>
To: "PEACELINK" <pace at peacelink.it>
Sent: Wednesday, March 15, 2006 8:21 PM
Subject: Fw: PARIGI SI MILANO NO: VICINO-LONTANO

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> Di tutto ciò che non si conosce, è meglio tacere.
> Probabilmente nessuno di noi, che animiamo questa gustosa e inutile
> discussione, era a Milano e ha potuto vedere, e ha potuto capire.
> Resta la malafede poliziesca, resta la stampa asservita al potere, resta la
> strumentalizzazione di destra e di sinistra per fini di scranno, restiamo,
> noi, i buoni. Quelli che l'obbedienza è di nuovo una virtù, quelli che non
> disturbano il manovratore. Quelli sempre pronti a dover dimostrare
> all'oppressore che no, non siamo contro di lui. Quelli sempre pronti a
> bastonare l'oppresso se non si presenta gentilmente all'oppressore.
> Quelli che la questura stima. Ché non diamo fastidio
> Certo, li conosco, quei "facinorosi", e so quanto stupidamente cadano nel
> tranello della provocazione poliziesca.
> Non per questo mi schiero con la polizia.
> Non per questo mi schiero con i gattopardi della sinistra. La sinistra? La
> sinistra ideale e romantica di Peyretti? O la sinistra reale dei Bianco,
> Minniti, D'Alema?
> Vedo Fassino faticare a prender sonno, la notte, perché tormentato dal
> pensiero di non aver "ancora imparato il satyagraha gandhiano, che è la più
> grande forza".
> Intendiamoci. Condivido quanto detto da Peyretti. Solo vorrei sapessimo
> metterlo in pratica.
> La realtà è complessa.
> La divisione manichea tra violenti e nonviolenti, la presa di distanza da
> chi, pur con strumenti che non condividiamo, si oppone all'oppressione e ai
> fascismi, forse fa il gioco dei fascismi almeno quanto "pietre, incendi, e
> devastazioni sul tavolo dei mass media che avevano già pronti i commenti del
> caso".
> Il confronto è banale, ritorna sempre, ma sempre è difficile rispondere:
> come la mettiamo con la Resistenza? Era nonviolenta? Era sbagliata?
> E il fascismo di oggi è meno dannoso di quello di ieri? Meno dannono per
> noi? e per i migranti? e per i popoli oppressi? e per gli animali,
> l'ambiente?
> E quanto è giusto, per noi, giudicare lotte a cui non prendiamo parte?
> Bastano "le piccole azioni nonviolente e quotidiane" davanti alla sempre più
> evidente fascistizzazione della società?
> Esiste un sistema di valori universalmente condivisi, da difendere? e c'è un
> limite oltre il quale, per difenderli, anche la violenza ha una sua
> giustificazione?
> Chi stabilisce qual è il limite? Vogliamo stabilirlo noi, anche per gli
> altri? o è giusto lo stabilisca chi violenza subisce?
> Io, per la mia storia, per la mia cultura, per il mio relativo benessere,
> posso (permettermi di) essere nonviolento. Devo imporre la mia nonviolenza
> ad altri?
> Impariamo a porci domande.
> Impariamo a non giudicare con troppa facilità.
> Anche questa forse è nonviolenza.
>
>
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