Archivi. 36



 

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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XII)

Numero 36 del 5 febbraio 2011

 

In questo numero:

Jean-Marie Muller: Significato della nonviolenza (parte prima)

 

TESTI. JEAN-MARIE MULLER: SIGNIFICATO DELLA NONVIOLENZA (PARTE PRIMA)

[Riproponiamo ancora una volta questo testo di uno dei massimi studiosi e amici della nonviolenza; esso e' stato pubblicato nel 1974 e tradotto in italiano nel 1980 per le cure di Matteo Soccio in Jean Marie Muller, Significato della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Torino 1980: da questo opuscolo abbiamo ripreso il testo del solo saggio mulleriano, ivi alle pp. 7-27.

Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005]

 

Cio' che caratterizza, in gran parte, ogni dibattito sulla nonviolenza e' il fatto che questa non ha un posto rilevante nel nostro passato. Cio' giustifica la nostra prima reazione che non puo' che essere di diffidenza, di scetticismo, nonche' d'ironia, ora bonaria ora cattiva. Percio' si tratta di rendere chiaro questo dibattito, al di la' di ogni equivoco, di ogni malinteso e di ogni confusione.

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Partire dai fatti

Bisogna partire dai fatti ed e' sin troppo evidente che, se ci mettiamo davanti ai fatti, ci troviamo davanti alla violenza. Del resto non saremmo seri nella nostra riflessione sulla nonviolenza se, prima di tutto, non prendessimo sul serio la violenza. Questa violenza, che sembra presente dappertutto attorno a noi, si tratta di comprenderla. Sarebbe troppo facile metterla sul piano della cattiveria o della cattiva volonta'. Infatti, la violenza nella nostra societa' assolve delle funzioni necessarie. Essa e' molto spesso la ricerca di soluzioni concrete a dei problemi concreti, che si tratti della difesa delle liberta' o della lotta contro l'ingiustizia. Non potremmo accontentarci di una pura e semplice condanna di tutte le violenze quali che siano, da qualsiasi direzione provengano, ponendoci al di sopra della mischia e richiamandoci ad una innocenza che non puo' essere di questo mondo.

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La violenza e' una distruzione

Bisogna riconoscere che, in un primo tempo, questa espressione "nonviolenza" e' equivoca nella misura in cui appare puramente negativa. Tanto piu' quando noi siamo abituati a pensare alla violenza riferendola a quantita' di valori e di virtu': il coraggio, la virilita', la nobilta', l'attaccamento alla giustizia e alla liberta'... In modo tale che nella nostra coscienza e piu' ancora nel nostro subconscio, la violenza appare essa stessa come un valore e una virtu' di cui la nonviolenza sarebbe la negazione e il rinnegamento. E' cosi' che a destra, quelli che si richiamano alla nonviolenza sono accusati di essere traditori della patria e, a sinistra, di essere traditori della rivoluzione.

Infatti, se noi prendiamo coscienza della violenza per cio' che essa e', dobbiamo definirla negativamente, come un attentato fatto alla liberta' ed alla dignita' di colui che la subisce, come un'alienazione, come una distruzione. "Non bisogna lasciarsi ingannare - scrive Ricoeur -. Il volto della violenza, il fine che essa persegue implicitamente o esplicitamente, direttamente o indirettamente, e' la morte dell'altro". Percio' il rifiuto della violenza, la nonviolenza, diviene la condizione preliminare di ogni azione rispettosa di "tutto l'uomo e di tutti gli uomini".

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La violenza di oppressione

Bisogna sforzarsi di comprendere non soltanto la violenza ma le violenze, perche' la violenza presenta molti aspetti, molte facce, e conviene dunque introdurre delle distinzioni fondamentali.

Ne introdurro' tre:

1) la prima violenza, che Helder Camara definisce la violenza madre di tutte le violenze, e' la violenza delle situazioni di ingiustizia. Potremo chiamare questa violenza: la violenza degli oppressori, la violenza dei ricchi e dei potenti per mezzo della quale i poveri sono mantenuti in condizioni di oppressione.

Questo e' importante da sottolineare nella misura in cui siamo portati a pensare che la nonviolenza denunci le azioni armate, terroristiche o militari, e metta tra parentesi le situazioni di violenza.

E' importante sottolineare quanto pesi sulla nonviolenza l'equivoco del pacifismo. Il pacifismo si attiene ad una pura e semplice condanna della violenza armata, ma questa dottrina non e' in grado di farci assumere fino in fondo le nostre responsabilita' di fronte agli avvenimenti. Se il pacifismo si e' sviluppato dopo la prima guerra mondiale, bisogna pero' riconoscere che ha fallito al momento dell'aggressione nazista.

Non si puo' eludere il problema della difesa delle comunita', e in particolare delle comunita' nazionali visto che le nazioni ci sono ancora. E' necessario garantire la sicurezza delle comunita'. E' un problema reale che i pacifisti non hanno saputo risolvere.

Una comunita' non potrebbe garantire la sua unita', la sua coerenza, se non ci fosse nei suoi membri il sentimento di vivere in sicurezza. Ora, e' un fatto che, fine ad oggi, salvo qualche eccezione, le comunita' non hanno saputo trovare altri mezzi per garantire la loro sicurezza che la violenza o la minaccia della violenza, la guerra o la sua preparazione. Il problema, dunque, non e' soltanto di trovare un'alternativa alle virtu' militari, bisogna trovare anche un'alternativa ai metodi militari. Non e' giusto lasciare intendere che basterebbe sopprimere gli eserciti e gli armamenti per avere la pace.

Simone Weil, che era vicinissima agli ambienti pacifisti fra le due guerre mondiali, ha dovuto riconoscere cio' che ha definito "l'errore criminale" del pacifismo. In quel momento e' andata a raggiungere anche lei le file della resistenza violenta.

Non si tratta, dunque, di privilegiare la violenza militare e la violenza delle armi. Se e' vero che sono le situazioni di ingiustizia che provocano e spiegano le azioni violente, e' dunque innanzitutto l'ingiustizia che la nonviolenza denuncia e combatte.

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La violenza degli oppressi

2) La seconda violenza e' la violenza che nasce dalla rivolta degli oppressi quando essi tentano di liberarsi dal giogo della oppressione che li schiaccia.

Quando gli oppressi, per disperazione, ricorrono alla violenza, noi non possiamo, in nome della nonviolenza, voltare loro sdegnosamente le spalle, sotto il pretesto di un ideale astratto e formale di nonviolenza. La nonviolenza ci deve mantenere sempre legati agli oppressi quand'anche questi adoperino la violenza: non spetta a noi rimettere in discussione questa solidarieta' fondamentale. Possiamo avere le nostre opzioni personali, ma non spetta a noi decidere, al posto degli oppressi, dei mezzi che essi devono adoperare per la loro liberazione.

Se la nonviolenza condanna e combatte innanzitutto la violenza degli oppressori, essa pero' viene a rimettere in questione anche la violenza degli oppressi. Liberare i poveri, vuoi dire anche liberarli dalla loro violenza. Anche questo e' un compito dell'amicizia e della solidarieta'; non e' certo il compito piu' facile e cio' ci obbliga ancor piu' a non sottrarcene. Del resto, e' troppo facile dimostrare una solidarieta' formale con la violenza dei poveri e giustificarla se non prendiamo su di noi i rischi di questa violenza.

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La violenza della repressione

3) La terza violenza e' la violenza della repressione, essenzialmente legata alla violenza d'oppressione per mezzo della quale i ricchi ed i potenti spezzano i movimenti di liberazione dei poveri.

Ancora una volta, in nome della nonviolenza, dobbiamo dichiararci solidali con quelli che sono vittime di questa violenza di repressione quando la loro lotta e' veramente quella della giustizia.

E' chiaro che questo schema non puo' essere puramente e semplicemente applicato ad ogni situazione concreta; sara' opportuno, partendo volta per volta dall'analisi piu' rigorosa, correggerlo e adattarlo.

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La necessita' del conflitto

Nella comprensione della violenza bisogna andare piu' lontano cercando di situarla al livello in cui sorge, nelle relazioni fra gli uomini.

Il primo rapporto che abbiamo col nostro prossimo e' il piu' delle volte un rapporto di avversione, di opposizione, di scontro. Dobbiamo guardarci da un certo idealismo, di cui si vorrebbe che la nonviolenza resti prigioniera, da un idealismo che lascerebbe troppo facilmente intendere che "tutti gli uomini sono fratelli". In realta' e' vero che il mio vicino, il mio prossimo, prima ancora di essere potenzialmente il mio amico, e' potenzialmente mio nemico.

Sartre ha trovato una formulazione felice quando scrisse: "il peccato originale e' il mio sorgere in un mondo dove c'e' l'altro". L'altro, infatti, e' innanzitutto per me quello la cui liberta' minaccia la mia liberta', quello i cui diritti vengono a usurpare i miei diritti, quello i cui progetti vengono a compromettere i miei progetti. Dovro' riconoscere, accettare questo momento di conflitto con l'altro, questo momento di opposizione, di lotta, questa prova di forza, al fine di poter far riconoscere i miei diritti e di farli rispettate.

In altre parole la nonviolenza non presuppone un mondo senza conflitti; anzi, ha senso parlare di nonviolenza solo in situazioni di conflitto.

Peguy, proprio contro i pacifisti del suo tempo, diceva che "era una follia voler legare alla dichiarazione dei diritti dell'uomo una dichiarazione di pace perche' ogni dichiarazione dei diritti dell'uomo e' istantaneamente un inizio di guerra". Se prendiamo questa parola "guerra" nel suo significato piu' ampio, e se intendiamo per essa: un conflitto, una lotta, un combattimento, una prova di forza, Peguy aveva ragione di andare contro i pacifisti.

Lo stesso Peguy diceva che era da maleducati volere la vittoria e non aver voglia di battersi. In effetti, saremmo maleducati se ci contentassimo di formulare dei voti per un mondo piu' giusto e non avessimo voglia di batterci contro l'ingiustizia.

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Nonviolenza e aggressivita'

In questa battaglia, non si tratta di reprimere l'aggressivita' dell'uomo, ma di metterla in opera.

La storia e' cosi' piena di violenza che siamo talvolta tentati di credere che quest'ultima sia innata nel cuore umano: parlare di nonviolenza sarebbe allora andate contro la legge stessa della natura.

Tuttavia se ascoltiamo gli psicologi, questi ci dicono che non e' la violenza che e' inscritta nella natura umana, ma piu' precisamente l'aggressivita', e che non e' fatale che l'aggressivita' si manifesti con la violenza.

L'aggressivita' e' una capacita' di combattere, una capacita' di affermare se stessi per mezzo della quale io sono portato a rivendicare i miei diritti di fronte all'altro. Senza aggressivita' io non potrei ne' costruire la mia personalita', ne' salvaguardarla. Senza aggressivita' non ci potrebbe essere ne' rispetto per se stessi, ne' amore per gli altri.

Questa aggressivita' bisogna invece disciplinarla, controllarla in modo che si manifesti attraverso altri mezzi, piu' costruttivi della violenza.

Come disse il padre Cottier, con un'espressione che mi sembra molto suggestiva, la nonviolenza non attecchisce nella speranza di vivere un giorno in "un paradiso devitalizzato dove anziane zitelle tengono al guinzaglio leoni erbivori". Cio' sarebbe molto noioso e, per fortuna, e' del tutto inconcepibile.

Bisogna, dunque, accettare questa realta' del conflitto, anzi, in un primo momento, la strategia della nonviolenza si sforzera' di create il conflitto e di risvegliare l'aggressivita'.

Abusiamo spesso di parole come rivolta, rivoluzione e violenza. In realta', se consideriamo bene la storia dell'uomo - sia nella nostra vita quotidiana che nella storia dei popoli - ci accorgiamo che il piu' delle volte, di fronte all'ingiustizia, la sua capacita' di rassegnazione e' superiore alla sua capacita' di rivolta. Quando lo schiavo e' sottomesso al suo padrone, non esiste conflitto; al contrario, e' proprio allora che "l'ordine e' stabilito" e che niente sembra venire a metterlo in causa. Il conflitto incomincia ad esistere dal momento in cui lo schiavo prende coscienza dei suoi diritti e si erge per rivendicarli.

Prendiamo l'esempio di Martin Luther King: per cio' che riguarda il popolo nero degli Stati Uniti, il suo primo e piu' grande lavoro e' stato quello di risvegliare l'aggressivita' dei neri che si erano rassegnati al loro destino di schiavi. Gli stessi leaders neri che in seguito hanno preconizzato la violenza gli hanno riconosciuto questo merito.

La spiritualita' degli spirituals neri e' una spiritualita' di evasione per mezzo della quale i neri riponevano nell'Aldila' la loro speranza in un mondo libero da ingiustizie. Aspettavano il regno di Dio in cui Gesu' li avrebbe accolti riconoscendo la loro dignita' di uomini. C'era in quel caso come una rassegnazione di quel popolo davanti alla propria storia. Martin Luther King risveglio', dunque, l'aggressivita' di questo popolo e creo' il conflitto tra i bianchi e i neri - e, come sempre in casi analoghi, ci sono stati naturalmente rischi di scontri violenti.

La rassegnazione, la passivita' sono dunque piu' contrarie alla nonviolenza della violenza stessa. Gandhi ha sempre affermato che se la scelta fosse unicamente tra vilta' e violenza, tra passivita' e violenza, allora bisognerebbe scegliere la violenza.

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L'importanza dei mezzi

Se, dunque, riconosciamo la necessita' della lotta, la necessita' dello scontro, allora, e' il problema dei mezzi che si pone.

Questo problema dei mezzi e' stato troppo trascurato a solo vantaggio della ricerca dei fini. E' per questa ragione che molto sbrigativamente si arriva a dire, specialmente nel campo politico, che il fine giustifica i mezzi, vale a dire che il fine giustifica qualsiasi mezzo. Si scivola subito dalla giustificazione del fine alla giustificazione dei mezzi. Ora, questo non e' soltanto un problema morale, e' anche un problema di efficacia.

Una delle caratteristiche della nonviolenza e' precisamente di affermare che, se la scelta dei mezzi vien dopo (e' seconda) rispetto al fine da conseguire, non e' tuttavia secondaria, e' anzi essenziale alla effettiva realizzazione di quel fine. Gandhi diceva: "il fine e' nei mezzi come l'albero nel seme". Il compito della nonviolenza sara' giustamente quello di ricercare dei mezzi omogenei al fine che si persegue. Non e' un semplice principio teorico: si puo' benissimo, a livello di critica degli avvenimenti, constatare che l'impiego di mezzi violenti rischia di produrre altre situazioni di violenza, altre situazioni di sfruttamento, anche se assumono forme diverse.

Proviamo ora a mettere in luce il significato della nonviolenza ponendoci successivamente a tre livelli diversi:

- il livello personale;

- il livello delle relazioni interpersonali;

- il livello delle relazioni sociali e politiche.

Non si tratta di separare l'uno dall'altro questi tre livelli; e' precisamente una caratteristica della nonviolenza non considerarli staccati, mentre le diverse morali hanno sempre avuto la tendenza a separare, ad esempio, cio' che era della vita privata e cio' che era della vita pubblica; cio' che la morale richiedeva nel campo della vita personale, non lo richiedeva piu' nel campo della vita sociale e politica.

Passero' molto rapidamente a considerare i primi due punti per arrivare al piu' presto al problema delle relazioni sociali e politiche che costituisce forse il piu' grosso problema e al quale siamo piu' sensibili.

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Un dinamismo della speranza

Sul piano personale, la nonviolenza puo' definirsi come la ricerca di una corrispondenza perfetta tra i nostri pensieri, i nostri sentimenti e le nostre azioni; come la ricerca di una saggezza di vita, come la ricerca del controllo di quella aggressivita' di cui parlavamo prima.

Sarebbe interessante sviluppare il significato della nonviolenza in quanto rivendicazione di un senso da dare alla vita in un mondo reso assurdo dall'ingiustizia e dalla violenza. E' la dimensione filosofica e anche (credo che non si debba aver paura delle parole) la dimensione metafisica della nonviolenza.

La violenza e' il segno di una certa assurdita' del destino umano. La filosofia comincia con la presa di coscienza della violenza come ostacolo alla riconciliazione dell'uomo con se stesso e con l'altro. Potremo riprendere per esempio tutte le affermazioni di Camus che vanno in tal senso.

Se la violenza e' fatale, se l'uomo deve necessariamente farsi complice della violenza, allora la speranza non e' possibile.

In questo senso la nonviolenza ci permette di affermare che la speranza e' possibile. Essa ci colloca in un dinamismo della speranza che ci libera dalla fatalita' della violenza. Cio' non e' legato, infine, ad alcuna filosofia particolare, ma ad ogni filosofare. Non ci puo' essere altra filosofia che quella della nonviolenza.

Ogni filosofia, e cosi' pure ogni morale, non puo' non riconoscere la violenza come una contraddizione, per cui non e' piu' possibile avanzare alcuna giustificazione della violenza. La violenza e' giustificata nella misura in cui noi non abbiamo piu' il sentimento che essa e' una contraddizione in rapporto alle aspirazioni profonde dell'uomo, allorquando ci stabiliamo nella violenza. Il fallimento delle ideologie consiste nel fatto che esse hanno creduto di dovere, sotto un falso pretesto di realismo, venire a giustificare la violenza e integrarla nell'ideale umano.

I grandi maestri della nonviolenza, che si tratti di Tolstoi, di Gandhi, di Martin Luther King, e anche piu' vicino a noi, di Cesar Chavez, hanno legato, nel loro cammino personale, la scelta della nonviolenza ad una fede religiosa. Ma non e' necessariamente cosi'; degli uomini come Danilo Dolci hanno provato che la nonviolenza poteva trovare la sua radice in una visione dell'uomo che non era religiosa, ma che afferma ugualmente questa speranza: di fronte all'esistenza quotidiana e di fronte alla storia, e' possibile superare questa fatalita' della violenza.

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Chiamare crimine un crimine

Detto questo, e' logico che ci troveremo sempre nel compromesso con la violenza; non si tratta di pretendere una "nonviolenza assoluta". Gandhi ha insistito su questo punto: "fino a che non saremo degli spiriti puri la nonviolenza perfetta sara' altrettanto teorica quando la linea retta di Euclide".

Ma le filosofie e le morali devono sempre chiamare compromesso un compromesso. Ricoeur dice: "Colui che chiama crimine un crimine, e' gia' sulla via del senso e della salvezza". Le violenze delle quali abbiamo coscienza di essere complici esigono non una giustificazione ma una riparazione. Se la violenza e' un diritto per l'uomo, questo si adatta, si adegua all'uso della violenza e non ci sara' piu' nessuna ricerca per superare questo atteggiamento; l'immaginazione, la creazione sono esse stesse bloccate e non possono piu' proporre altre vie. Ora e' essenziale, qualunque sia il riferimento culturale in rapporto al quale ci situiamo, di ritrovare il senso della contraddizione di ogni violenza.

La nonviolenza appare qui come una dimensione essenziale della rivoluzione culturale che deve essere realizzata perche' possa compiersi, senza tradire se stessa, la rivoluzione delle strutture.

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Le relazioni interpersonali

Sul piano delle relazioni interpersonali, diro' semplicemente due parole, perche' qui ci siamo spesso trovati nella stessa situazione del signor Jourdain che faceva della prosa senza saperlo; abbiamo soddisfatto le esigenze della nonviolenza senza saperlo.

Nel campo delle relazioni interpersonali, le morali e le filosofie hanno sempre insistito sulla ricerca del dialogo piuttosto che sulla giustificazione della violenza, su questa necessita' che c'e' da fare richiamo alla ragione per convincere, alla coscienza per convertire.

A questo livello si e' sempre privilegiato il perdono rispetto alla vendetta. Il perdono e' certamente un atteggiamento piu' virile della vendetta. E si potrebbe parlare, in questa prospettiva, del sacrificio, dell'accettazione, senza compiacimento, della sofferenza come condizione di un amore autentico del prossimo. Al di fuori di tutte le deviazioni nel senso del masochismo, c'e' posto, in ogni lotta nonviolenta, per l'accettazione dei piu' grandi rischi e delle piu' grandi sofferenze.

D'altronde, tutte le societa' hanno saputo darsi dei tribunali capaci di condannare come criminali - con (notiamolo) un raddoppiamento della violenza - quelli che hanno fatto uso della violenza sul piano delle relazioni interpersonali.

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La specificita' del politico

Arrivo subito al problema delle relazioni sociali e politiche.

Queste non devono, come un certo spiritualismo ha preteso, essere poste nel quadro allargato delle relazioni interpersonali, perche' a questo livello le relazioni umane sono notevolmente condizionate - io non direi determinate, come certuni forse penseranno - dalle strutture della societa'. La nonviolenza non intende porre soltanto dei problemi che troverebbero la loro origine e la loro soluzione in un rapporto fra persona e persona, ma dei problemi sociali e politici che non possono porsi e risolversi che in termini di strutture. Cosi' c'e' sicuramente una consistenza propria del politico, tuttavia non penso che ci sia un'autonomia del politico. Certo, nel campo politico, non e' sufficiente attenersi alle esigenze morali. Le buone intenzioni non bastano a far della buona politica. La legge dell'azione deve sottostare alle esigenze della efficacia. Non basta, come diceva Bernanos, "aver ragione contro l'errore, bisogna averne ragione".

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Morale e politica

E' vero che il politico deve basarsi su un'analisi razionale e obiettiva delle situazioni e deve ricorrere ai mezzi tecnici che gli permetteranno di far riuscire i suoi progetti. Ma e' anche vero che il politico, essendo al servizio dell'uomo e avendo per preciso fine quello di creare le migliori condizioni possibili all'uomo per condurre la sua esistenza, non puo' sottrarsi alle esigenze della morale. Se il politico e' veramente al servizio dell'uomo e se la morale e' cio' che stabilisce il rispetto di tutto l'uomo e di tutti gli uomini, allora appartiene effettivamente alla morale giudicare ed apprezzare il politico, sia nei fini che persegue che nei mezzi che adopera.

Cosi' non possiamo restare prigionieri dell'alternativa secondo la quale non avremmo scelta che tra mezzi morali ma inefficaci e mezzi efficaci ma immorali: non e' possibile basare l'efficacia dell'azione dell'uomo al di fuori della moralita'.

Quali sono, in effetti, i criteri dell'efficacia?

L'efficacia: per fare che cosa?

L'efficacia: per quale societa'?

Eí qui che la moralita' di un'azione politica appare come uno dei criteri essenziali della sua efficacia. Si puo' dire che una azione non e' efficace, nella misura stessa in cui viene a contraddire le esigenze della morale. Siamo allora costretti, per amore o per forza, a ricercare dei mezzi efficaci che possano soddisfare le esigenze della morale.

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Una dimostrazione di forza

Qui e' necessario che noi parliamo in termini di strategia. Bisogna mettere l'accento non tanto sulle disposizioni soggettive delle persone, sui buoni o cattivi sentimenti, sulle buone o cattive intenzioni delle persone, ma sulle obiettive situazioni in cui esse si trovano nella societa', sulle situazioni di potenza o d'impotenza. L'azione nonviolenta e' una prova di forza.

Riferendosi a formule utilizzate da Gandhi, la nonviolenza e' stata spesso definita come la forza dell'amore e della verita'. In effetti al di fuori dell'amore e della verita' non c'e' speranza possibile per una societa' piu' giusta e piu' libera. Ma noi non possiamo accontentarci di definire la nonviolenza come forza dell'amore e della verita', perche' nei conflitti politici potremmo chiederci a lungo cosa significhi la forza dell'amore e della verita'. Bisogna guardarsi dal nascondersi dietro certe formule che vogliono dire tutto e niente allo stesso tempo.

Infatti, un'azione nonviolenta non e' una dimostrazione d'amore. Essa e' molto piu' precisamente una dimostrazione di forza. La nonviolenza, non e' l'amore, ma piuttosto la ricerca di tecniche e di metodi di lotta compatibili con l'amore, compatibili con il rispetto della verita'. Ci sembra che qui gia' gli accenti sono posti diversamente. Si tratta di situarsi in una visione dell'uomo che non e' moralistica, anche se e' morale. Si tratta di porsi in una visione politica.

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Il principio di non-cooperazione

Qual'e' la strategia dell'azione nonviolenta?

Il principio essenziale di questa strategia e' il principio di non-cooperazione; io lo chiamerei meglio: principio di non-collaborazione. Esso si fonda sulla seguente analisi: la forza dell'ingiustizia nella societa' deriva dalla complicita' che la maggioranza dei membri di questa societa' apporta a questa ingiustizia.

Il nostro dibattito sulla violenza e la nonviolenza sarebbe falsato se presupponessimo che di fronte alla ingiustizia, la nostra prima tentazione e' sempre la tentazione della violenza. Ancora una volta, noi ci accontenteremmo di parole. Infatti, di fronte alla ingiustizia siamo pochissimo tentati dall'uso della violenza perche', il piu' delle volte, la violenza ci pare troppo rischiosa. Del resto la nonviolenza non intende fare nessun processo alle intenzioni di quelli che ricorrono alla violenza perche' spesso essi si assumono i piu' grossi rischi; e noi dobbiamo, al contrario, rispettarli. Ma sara' sempre una piccola minoranza che fara' ricorso alla violenza di fronte all'ingiustizia. Il piu' delle volte, siamo tentati di cooperare con questa ingiustizia, di collaborare con essa. Cio' si capisce facilmente nella misura in cui questo atteggiamento di complicita' salvaguarda i nostri interessi, la nostra tranquillita', il nostro comodo.

Il vero dibattito, percio', non e' tanto, come invece si fa con un certo compiacimento, di opporre la resistenza violenta di una piccola minoranza a cio' che potrebbe essere la resistenza nonviolenta, ma piuttosto di opporre alla passivita', complicita', collaborazione della maggioranza cio' che potrebbe essere la resistenza nonviolenta. A questo punto il dibattito si presenta gia' in prospettive diverse.

Si tratta, dunque, di mettere in opera questa non-cooperazione, cercando di far beneficiare dell'apporto del numero le azioni condotte.

Se soltanto alcuni si dispongono a non cooperare con l'ingiustizia, benche' il loro atteggiamento sia del tutto giustificato e s'imponga ad essi in ogni caso, l'azione intrapresa non puo' avere la pretesa d'incidere sul piano politico. Quelli che hanno rifiutato di fare le guerre di Hitler (penso ai tedeschi e agli austriaci che sono stati le prime vittime del nazismo), quelli, proprio perche' erano un piccolo numero, non hanno potuto cambiare il corso degli eventi. Tuttavia saremmo tutti unanimi nel riconoscere che solo il loro atteggiamento era giustificato sia sul piano morale che su quello politico.

Quando si organizzano queste azioni di non-cooperazione, bisogna mirare ad esaurire le sorgenti del potere dell'avversario. Si tratta di rifiutare ogni cooperazione con le istituzioni, le strutture, le leggi, i sistemi, i regimi che creano o che mantengono l'ingiustizia, al fine di metterli "in condizione di non nuocere".

Diviene chiaro qui che l'azione nonviolenta non e' soltanto una azione di persuasione, ma anche una azione di costrizione.

Allora come arrivare a precisare meglio questa strategia nonviolenta?

Innanzitutto a partire dall'analisi.

Io insisto su questa necessita' dell'analisi, ma non faro' ulteriori precisazioni perche' non e' il mio proposito. E' chiaro che non si tratta di applicare delle esigenze morali a una realta' che non conosciamo. Si tratta invece di analizzare questa situazione. E qui, la nonviolenza non ci apporta una competenza particolare; la divergenza, a livello di analisi, non e' certamente tra quelli che si richiamano alla nonviolenza e quelli che si richiamano alla violenza.

A partire dall'analisi di ciascuna situazione concreta, converra' condurre una prova di forza per stabilire un rapporto in favore di quelli che sono vittime dell'ingiustizia.

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Le azioni di protesta

Il primo passo sara' quello di realizzare delle azioni di protesta pubblica contro l'ingiustizia: sfilate, marce, sit-in, etc. E' d'altronde a queste azioni che noi siamo piu' spesso, se non quotidianamente, chiamati. Io preciserei semplicemente due punti.

Innanzitutto a proposito della spiegazione che si da' della manifestazione: il piu' delle volte, sia attraverso volantini che slogans, si arriva troppo facilmente alla condanna sistematica, e percio' spesso semplicistica, dell'avversario; ci si compiace di maneggiare l'invettiva e l'ingiuria. E', molto spesso, sia una ingiustizia che un errore strategico. Perche', infatti, quelli che manifestano devono manifestare per farsi capire da quelli che non manifestano. Ogni movimento di resistenza deve sforzarsi di avere le migliori "relazioni pubbliche" con la maggioranza dei membri di questa societa'. Nel campo delle relazioni pubbliche, se e' un obbligo attenersi alle esigenze della morale, e' una necessita' soddisfare le esigenze della psicologia. E' certamente inopportuno maneggiare l'ingiuria per voler convincere della giustezza di una causa; questo comporta il rischio ben piu' grande di indisporre il pubblico e di discreditare la manifestazione.

Cosi' un'esigenza della nonviolenza sara' la "pacificazione della parola".

E' solo per un pregiudizio che noi pensiamo di transigere sui fini di giustizia che ci siamo dati, se siamo educati con l'avversario. Questo atteggiamento di cortesia nei riguardi dell'avversario, che si manifesta con la parola, attraverso il testo di un volantino o il contenuto di uno slogan, viene a stabilire un'atmosfera gia' diversa nel conflitto intrapreso.

Converra' cosi', per esprimersi, ricorrere quanto piu' e' possibile allo humour. Lo humour e' certamente la migliore protezione contro l'odio. Lo humour ci dispensa dal disprezzare il nostro avversario. Se noi facessimo piu' umorismo faremmo meno spesso la guerra.

Un altro punto al quale siamo molto sensibili e' l'atteggiamento dei manifestanti davanti alle forze di polizia. E' vero che un certo razzismo si e' sviluppato, da molti anni a questa parte, nei confronti dei poliziotti. Ancora una volta, dobbiamo chiederci se questo non sia insieme un'ingiustizia e un errore strategico. Qui l'esigenza della nonviolenza sara' anche di attenersi ad un atteggiamento di stretta cortesia nei confronti dei membri del servizio d'ordine. Cio' dovrebbe permettere un clima piu' propizio a reali soluzioni, piuttosto che arrivare a voler sistematicamente "lanciare la pietra" sui poliziotti, talvolta nel vero senso della parola, talvolta nel senso figurato.

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Lo sciopero della fame

Lo sciopero detta fame e' una delle azioni di protesta piu' specifiche della nonviolenza. Ha raggiunto un notevole sviluppo in questi ultimi tempi ed e' stato utilizzato da quelle stesse persone che generalmente intendono usare mezzi violenti, o per lo meno, non intendono escluderli. Si corre forse il rischio di abusare di questo mezzo; si tratta, quindi, di non condurre scioperi della fame a sproposito. D'altronde, uno sciopero della fame non e' sempre nonviolento: se i volantini che lo accompagnano usano ad ogni riga l'ingiuria, dobbiamo mettere in discussione il suo carattere nonviolento.

Dobbiamo sottolineare ancora che lo sciopero della fame non e' nonviolento se diventa un ricatto nel confronti dell'avversario. C'e' ricatto quando si lascia capire, piu' o meno esplicitamente, che quelli che sono entrati in sciopero - prenderei, in particolare, l'esempio di uno sciopero illimitato - fanno cadere la responsabilita' della loro morte, se morte ci sara' - e non si potrebbe escludere a priori - sull'avversario. E' un ricatto inammissibile. L'avversario porta su di se' la responsabilita' dell'ingiustizia per la quale conduco le sciopero della fame, ma se conduco uno sciopero della fame, devo prendere fino in fondo le mie responsabilita' e non far cadere su altri la responsabilita' dei rischi cui vado incontro.

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Le azioni di costrizione

Ma la nonviolenza non puo' limitarsi alle azioni di protesta.

Dopo aver esaurito le possibilita' del dialogo, le possibilita' del negoziato, bisogna passare all'azione diretta. Perche', ancora una volta, contrariamente a quello che si lascia troppo spesso capire, la nonviolenza non si limita alla pratica del dialogo. Il piu' delle volte, il dialogo non e' possibile tra gli oppressori e gli oppressi. Il dialogo non e' possibile tra quelli che sono troppo potenti e quelli che sono troppo poveri. Quando ci sono scontri di piazza, delle anime "candide" ci richiamano subito al negoziato, al dialogo, e invitano le due parti che si scontrano al tavolo delle trattative. Generalmente questi appelli alla ragione sono vani. Bisogna dunque rovesciare i termini e non dire che il negoziato e' il mezzo per risolvere il conflitto, ma che il conflitto e' un mezzo per risolvere il negoziato. E' proprio perche' il negoziato non e' possibile che il conflitto e' necessario per rendere possibile il negoziato e per creare le condizioni in cui il dialogo e il negoziato saranno possibili.

Quando M. L. King condusse la sua prima azione di una certa ampiezza, il boicottaggio degli autobus a Montgomery, aveva solo 26 anni (credo che non si sia sufficientemente sottolineato il fatto che M. L. King era gia' leader nazionale dei neri ad un'eta' in cui non gli era possibile assumersi tutte le responsabilita' che lo schiacciavano) e, nella sua ingenuita' - lo dice molto semplicemente nei suoi scritti autobiografici - si immaginava che dopo un po' di giorni sarebbe stato possibile iniziare il dialogo e condurre a buon fine i negoziati con il potere bianco. Ha dovuto ricredersi e accorgersi che il dialogo non era possibile. C'e' voluto piu' di un anno di questo boicottaggio degli autobus, condotto in condizioni estremamente difficili per rendere possibile il dialogo.

Si fa ricorso alle azioni dirette per esercitare sull'altro reali costrizioni sociali, per poter negoziare al fine di soddisfare le rivendicazioni degli oppressi.

Quali sono i mezzi?

(Parte prima - Segue)

 

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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XII)

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Numero 36 del 5 febbraio 2011

 

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