Nonviolenza. Femminile plurale. 209



==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 209 del 18 settembre 2008

In questo numero:
1. Lea Melandri: La cultura dello stupro
2. Marina Forti: La carne e il clima
3. Marina Forti: Alluvioni
4. Curzia Ferrari: Alda Merini (2000)

1. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: LA CULTURA DELLO STUPRO
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo dal titolo
"Stupro di gruppo alla Fortezza di Firenze" originariamente pubblicato dal
"Corriere fiorentino" nell'agosto 2008.
Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine saggista,
redattrice della rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della
rivista "Lapis", e' impegnata nel movimento femminista e nella riflessione
teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente
L'infamia originaria, L'erba voglio, Milano 1977, Manifestolibri, Roma 1997;
Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988, Bollati Boringhieri,
Torino 2002; Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991; La mappa
del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992; Migliaia di foglietti, Moby
Dick 1996; Una visceralita' indicibile, Franco Angeli, Milano 2000; Le
passioni del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Dal sito
www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente scheda: "Lea Melandri ha
insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Attualmente tiene
corsi presso l'Associazione per una Libera Universita' delle Donne di
Milano, di cui e' stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987. E' stata
redattrice, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, della rivista L'erba
voglio (1971-1978), di cui ha curato l'antologia: L'erba voglio. Il
desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Ha preso parte attiva al
movimento delle donne negli anni '70 e di questa ricerca sulla problematica
dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le pubblicazioni:
L'infamia originaria, edizioni L'erba voglio 1977 (Manifestolibri 1997);
Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli 1988 ( ristampato da Bollati
Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni 1991;
La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996;
Una visceralita' indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle
donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Franco Angeli editore 2000;
Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati
Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di posta su diversi giornali: 'Ragazza
In', 'Noi donne', 'Extra Manifesto', 'L'Unita''. Collaboratrice della
rivista 'Carnet' e di altre testate, ha diretto, dal 1987 al 1997, la
rivista 'Lapis. Percorsi della riflessione femminile', di cui ha curato,
insieme ad altre, l'antologia Lapis. Sezione aurea di una rivista,
Manifestolibri 1998. Nel sito dell'Universita' delle donne scrive per le
rubriche 'Pensiamoci' e 'Femminismi'"]

Stupri, omicidi, violenze sui corpi delle donne sono diventati ormai da
tempo cronaca quotidiana, cambia solo il rilievo che prendono sulle pagine
di un giornale e nei notiziari televisivi. L'aggressore, nella stragrande
maggioranza dei casi, non e' lo sconosciuto, lo straniero, il cacciatore di
femmine che attende la preda all'angolo di una strada buia o dietro un
portone, come ci dice una iconografia ormai consunta ma ancora radicata
nell'immaginario comune, bensi' una di quelle figure che la prossimita' di
un legame di parentela, amore, amicizia, rendono insospettabile: marito,
figlio, fidanzato, amante, amico. Il "perturbante", tutto cio' che nella
felice intuizione di Freud cova nascostamente, ignorato, rimosso, nei gesti,
linguaggi, comportamenti che ci sono noti, familiari, una volta uscito allo
scoperto non sembra inquietare piu' nessuno.
Non e' piu' una sorpresa ne' un mistero la verita' che la storia ha celato
per secoli, mascherandola dietro l'ordine inamovibile di leggi naturali o
divine: il dominio di un sesso sull'altro, l'annodamento di amore e violenza
nel rapporto tra uomo e donna, il privilegio che il maschio della specie
umana ha riservato a se', come protagonista unico della vita pubblica,
depositario di un potere di vita e di morte che il processo di incivilimento
non ha mai cancellato del tutto. I rapporti internazionali, le inchieste, le
denunce delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, indicano come
luogo primo della violenza contro le donne la famiglia, e, immediatamente
dopo, le relazioni amorose e amicali. La minaccia non viene da lontano, ma
dalla stessa mano che poco prima ti aveva accarezzato, soccorso, accudito.
E' sempre stato cosi'? La novita' sta solo nel fatto che oggi sappiamo, o
c'e' qualcosa che attiene al nostro tempo, ai cambiamenti sociali,
culturali, antropologici, che lo fanno apparire cosi' vistosamente diverso
dal passato, una sorta di "post-umano" dominato dalla tecnica,
dall'imperativo economico, dal cinismo etico?
Commentando la "notte di violenza alla Fortezza", lo stupro di gruppo subito
da una studentessa nella notte tra venerdi' e sabato scorso, da parte di
amici, conosciuti all'Universita', Antonella Mollica scriveva: "dobbiamo
fare i conti con le tecnologie, con l'assenza di codici, con l'ambiguita'
nella quale ci sprofondano, quasi camminassimo ormai in uno stretto confine
tra realta' e finzione tutti i giorni, senza riconoscere in quale parte si
e'".
I "giovani cineasti, rampolli di satana e bevitori di tequila bum bum", come
si definiscono nel loro sito, e come si sono presentati nella squallida
"messa in atto" di venerdi' notte, sembrano effettivamente confermare che il
confine tra "scena" e "vita reale" e' saltato, che oggi  sono i "residui
notturni" a invadere lo spazio della coscienza, a muoversi spavaldamente
nelle strade della citta', a prendersi la rivincita di un lungo esilio. Ma
la giusta attenzione al quadro contemporaneo rischia ancora una volta di
lasciare in ombra quanto di arcaico la modernita' si e' portata dietro a sua
insaputa, quanta storia non scritta e' rimasta sepolta nelle vite dei
singoli, eredita' collettiva, senso comune, ignorati come tali.
Il rapporto di potere tra i sessi, il dominio piu' antico e piu'
contraddittorio, perche' confuso con l'amore, con la tenerezza che lega ogni
figlio al corpo da cui e' nato, si e' fatto strada a fatica nella
consapevolezza che uomini e donne hanno di se', ha dato voce a movimenti,
culture, leggi, pratiche politiche, modificando istituzioni, linguaggi e
saperi, ma molto lentamente si libera dei fantasmi che lo accompagnano da
sempre e che ne hanno fatto finora una "evidenza invisibile".
Il "gioco erotico", cosi' come la tenerezza amorosa, hanno sempre avuto in
se' la tentazione dell'eccesso, dell'estremo, sia pure in forme diverse e
all'apparenza contrastanti: la sessualita' nelle sue manifestazioni sadiche
e masochiste, l'amore come sogno di fusione con l'altro, l'abbraccio troppo
stretto che induce ogni volta a strappi violenti. In modo diverso, l'eccesso
che si nasconde dietro "tranquilli" legami familiari, amorosi e amicali,
parla del sentimento ambiguo con cui l'uomo ha guardato al corpo femminile
che gli ha dato la vita, le prime cure, i primi stimoli sessuali, il
desiderio e la paura di tornare a confondersi con esso, la spinta a
differenziarsi dietro una maschera di virilita' forte violenta, il bisogno
di erigere barriere di "civilta'" contro lo "straniero" piu' prossimo, il
"diverso" piu' simile, il debole piu' potente, che ha incontrato nel suo
ingresso nel mondo.
Non dovrebbe meravigliare percio' il capovolgimento che sempre avviene nei
casi di stupro e di altre violenze tra la vittima e l'aggressore, e che
riporta ogni volta allo scoperto il fantasma della donna seduttrice,
provocatrice, sessualmente avida - "era lei a voler fare sesso", "non diceva
mai basta", dicono gli stupratori nella loro deposizione.
Parlare di "consenso" per una donna stordita dall'alcool e costretta ad
accoppiarsi con sette uomini dentro un'auto, non e' solo una ipocrita,
vergognosa menzogna, ma la spavalderia, piu' o meno consapevole, di chi sa
di poter contare su un "senso comune" ancora diffuso, sul risentimento di un
sesso che ha visto, suo malgrado, venir meno una "proprieta'" che
considerava "naturale", inalienabile.
Di questa, come di altre vicende simili, veniamo informati con scarne,
ripetitive formule, che sottolineano sorpresa, inspiegabilita': le famiglie
"tranquille", rispettabili, da cui provengono gli stupratori, l'eguaglianza
di condizione sociale, culturale della vittima e dei suoi aggressori, gli
stessi studi, gli stessi interessi, i progetti condivisi, la reciprocita'
nei rapporti di amore e amicizia.
Nessuno sembra dare peso alla dissimmetria profonda, eredita' di millenni di
dominio maschile, che oggi appare tragicamente attuale solo perche' le donne
hanno cominciato a riconoscersi liberta', diritti, piaceri, autonomia di
pensieri e di azioni imprevisti, capaci, come tali, di scardinare certezze
ideologiche ed emotive, ma, soprattutto, di svelare la sostanziale
dipendenza maschile dal corpo che credevano di avere sottomesso, reso docile
ai loro desideri, innocuo rispetto alle loro paure.
Dietro la liberta' di movimento, di scelta, di parola, che le donne oggi
agiscono sia nella sfera privata che pubblica, ricompare l'immaginario
antico dell'onnipotenza femminile mai domata, la confusione inquietante tra
potere generativo e provocazione sessuale. Districarle, svelare gli
annodamenti che ancora imparentano l'amore con la violenza e la morte, e'
compito della cultura, della scuola, di una politica capace di interrogare
la vita nella sua interezza, la societa' ma anche la persona, i suoi vissuti
piu' profondi.
La giustizia fara' i suoi distinguo, accertera', documentera' passaggi
essenziali per il riconoscimento della colpevolezza, ma sappiamo che non
sara' la durezza della pena a modificare la "barbarie" che ha segnato cosi'
durevolmente la relazione tra i sessi.
Quanto sia ancora lontano, nel caso specifico della violenza sessista, il
processo di incivilimento, lo dimostra il commento del sindaco di Firenze,
Leonardo Domenici, che riduce uno stupro di gruppo a una questione di
"controllo sull'uso e abuso degli alcolici".

2. MONDO. MARINA FORTI: LA CARNE E IL CLIMA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 settembre 2008 col titolo "Un clima
carnivoro".
Marina Forti, giornalista e saggista particolarmente attenta ai temi
dell'ambiente, dei diritti umani, del sud del mondo, della globalizzazione,
scrive per il quotidiano "Il manifesto" acuti articoli e reportages sui temi
dell'ecologia globale e delle lotte delle persone e dei popoli del sud del
mondo per sopravvivere e far sopravvivere il mondo e l'umanita' intera.
Opere di Marina Forti: La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati
ambientali nel Sud del mondo, Feltrinelli, Milano 2004]

Almeno un giorno alla settimana senza carne nel piatto. E' quanto suggerisce
Rajendra Pachauri, il presidente del Comitato sul cambiamento del clima
(Ipcc), consesso scientifico incaricato dall'Onu di presentare ai governi lo
stato delle conoscenza sul clima - e che l'anno scorso ha avuto il premio
Nobel per la pace. Pachauri parla di carne proprio per parlare di clima. In
un'intervista al settimanale britannico "The Observer", pubblicata domenica,
ha dichiarato che dovremmo tutti osservare almeno un giorno "vegetariano"
alla settimana, se vogliamo contribuire con il nostro comportamento a
diminuire le emissioni di gas "di serra" nell'atmosfera. La produzione di
carne infatti e' una importante fonte (diretta o indiretta) di emissioni di
gas come l'anidride carbonica e il metano, che si accumulano nell'atmosfera
e la riscaldano; e' anche una causa di altri gravi problemi ambientali, tra
cui la perdita di habitat naturali.
Puo' sembrare curioso il nesso tra dieta e clima. Eppure Pachauri dice una
cosa ben nota e provata. La Fao, organizzazione dell'Onu per l'agricoltura,
ha calcolato che circa un quinto (20%) delle emissioni globali di gas "di
serra" imputabili ad attivita' umane vengono proprio dalla produzione di
carne. E la produzione di carne continua a crescere, come del resto il
consumo.
In uno dei suoi studi, pochi giorni fa il World Watch Institute faceva un
consuntivo: nel 2007 la produzione mondiale di carne si aggirava sui 275
milioni di tonnellate; nel 2008 si aspetta che superi i 280 milioni, e a
questo ritmo nel 2050 sara' raddoppiata. Negli ultimi dieci anni il ritmo di
crescita e' stato piu' sostenuto nei paesi "in via di sviluppo" che in
quelli industrializzati: il risultato e' che nel 2007 almeno il 60% della
produzione mondiale e' avvenuta in paesi in via di sviluppo. Cresce
ovviamente anche il consumo di carne e altri prodotti animali: ma se si
producono in media 42 chili di carne per persona, il consumo varia dai 30
chili per persona all'anno nei paesi in via di sviluppo agli 80 chili pro
capite/anno nei paesi industrializzati. Produzione e consumo crescono in
Cina (del 3% annuo), e anche in India, nonostante i tabu' legati alla carne
bovina.
Il punto e' che questa crescente domanda e' coperta concentrando sempre piu'
la produzione in allevamenti di tipo industriale. Oggi e' allevato e
macellato "in batteria" il 67% del pollame, il 50% delle uova, il 42% del
maiale. Queste catene di montaggio disumane ("disanimali"?) sono anche una
minaccia alla salute umana e del pianeta. La concentrazione di allevamenti
industriali, spesso in prossimita' di grandi centri urbani, pone secondo la
Banca mondiale "una delle piu' gravi sfide ambientali e per la salute
pubblica dei prossimi decenni" (studio citato dal World Watch Institute,
"Vital signs online" del 20 agosto), perche' contribuisce alla diffusione di
malattie come l'influenza aviaria, il virus nipah e altro. inoltre il grande
uso di antibiotici negli allevamenti industriali produce fenomeni di
resistenza nei consumatori umani. Gli allevamenti producono grandi
concentrazioni di gas metano. Consumano acqua in modo spropositato,
assorbono quote crescenti di produzione agricola sotto forma di mangimi,
producono masse ingestibili di reflui inquinanti - mentre l'allevamento su
piccola scala e in zone agricole ha come "scarto" letame, cioe'
fertilizzante. Ha ragione Pachauri, dunque: mangiare meno carne fara' bene
al clima, all'ambiente, e probabilmente anche a noi stessi.

3. MONDO. MARINA FORTI: ALLUVIONI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 settembre 2008 col titolo "Il fiume
Kosi cambia letto"]

Il bilancio delle alluvioni estive e' disastroso, nell'India settentrionale:
le piogge monsoniche hanno provocato la rottura di una diga e degli argini
del fiume Kosi, che scende dai monti dell'Himalaya (Nepal) e attraversa lo
stato del Bihar (India settentrionale) prima di buttarsi nel Gange.
Spettacolare: dopo aver rotto gli argini il 18 agosto, il fiume ha cambiato
percorso, prendendo una via che aveva abbandonato duecento anni fa che si
discosta fino a un centinaio di chilometri dal letto attuale: e cosi' ha
travolto centinaia di villaggi e di campi coltivati. En passant ha fatto un
migliaio di morti, persone portate via dalla furia dell'acqua, a volte
uccise dal crollo di muri e case, o anche dal morso di serpenti.
Un'alluvione durante la stagione delle piogge monsoniche sembra routine, nel
subcobntinente indiano. Ma per il Bihar si tratta del disastro piu' pesante
degli ultimi trent'anni; ha coinvolto oltre tre milioni di persone costrette
a lasciare le proprie case e rifugiarsi in campi profughi. Il punto e' che
quello di quest'estate non e' stato un monsone particolarmente intenso.
Perche' piogge del tutto normali provocano un disastro eccezionale? "Il
sistema di argini [del fiume Kosi] ha ceduto in parte perche' e' ormai pieno
di sedimenti, in parte per la cattiva manutenzione del sistema", dice una
nota di International Rivers, rete internazionale di attivisti ambientali
per la difesa dei fiumi che ha sede in California. Ad amplificare il
bilancio delle vittime c'e' anche la lentezza dei soccorsi (che
International Rivers cita come elemento comune a quanto era successo tre
anni fa a new Orleans con l'uragano Katrina: anche la' e' stato un cedimento
strutturale a provocare il disastro, la rottura delle chiuse del lago
Ponchartrain, e poi i soccorsi si sono mossi in ritardo).
In Bihar, una delle regioni piu' povere dell'India, ora 900,000 persone sono
in campi profughi e le autorita' prevedono che per qualche mese non potranno
tornare ai propri villaggi. L'esercito ha cominciato a ritirare gli
elicotteri (erano 11 in tutto) con cui aveva aiutato durante l'evacuazione
di massa, ma gli sfollati restano in uno stato di precarieta' estrema. La
distribuzione di aiuti, cibo e acqua potabile va a rilento. Si diffondono
malattie come polmoniti e febbri, e poi le malattie da sovraffollamento e
acqua malsana, come la diarrea. A peggiorare tutto, nei campi profughi le
donne diventano oggetto di violenze sessuali - le autorita' ammettono che
non riescono a controllare la situazione.
Lo straripamento del fiume Kosi e' "un'ulteriore dimostrazione che le misure
convenzionalmente usate per 'controllare' le alluvioni troppo spesso con le
controllano affatto ma al contrario peggiorano la situazione", sostiene
International Rivers. E' una polemica ormai matura. Per anni i governi di
tutto il mondo hanno fatto affidamento su dighe, argini e opere
ingegneristiche per imbrigliare i fiumi: il "flood control" ("controllo
delle inondazioni"). Ma quando un fiume travolge dighe e argini spesso e'
assai piu' distruttivo, non da' preavviso, genera ondate di piena piu'
veloci. Al contrario, una strategia di "protezione dalle alluvioni"
enfatizza la preparazione a far fronte a eventi straordinari e a diminuirne
i danni: le alluvioni accadono, ma si puo' rallentarne velocita' e portata.
In effetti, "l'India ha visto aumentare i danni delle alluvioni proprio
mentre aumenta l'area protetta da opere ingegneristiche di 'flood control'".
Meglio non puntare tutto sulle dighe...

4. PROFILI. CURZIA FERRARI: ALDA MERINI (2000)
[Dal mensile "Letture", n. 563, gennaio 2000 col titolo "Alda Merini" e il
sommario "Il mondo della Merini e' tra i bar dei Navigli, tra le voci che si
rincorrono dalle porte aperte sulla strada. Le sue passioni cocenti e il
tunnel della follia, con la poesia che libera dalle violenze subite, come la
preghiera dal peccato"]

Se per personaggio si intende una persona divenuta famosa a causa della sua
singolarita' e delle vicende che, volente o nolente, l'hanno avuta
protagonista, sara' difficile separare l'Alda Merini delle cronache
dall'Alda Merini della poesia. Difficile e, in un certo senso, assurdo,
perche' l'una non esisterebbe senza l'altra. E del resto il poeta entra in
contatto con il suo pubblico andandogli incontro come uomo-poeta (non come
poeta solamente): questa e' la condizione della grande poesia che e' sempre
popolare, il che non vuol dire affatto popolaresca. Popolare in quanto
umana, diretta, rivolta a tutti e da tutti consumata. Il nostro periodo ha
largamente dimostrato, infatti, il fallimento della poesia engagee,
istituzionalizzata, piena di effetti preordinati e incapace di rendere chi
legge attore e spettatore insieme; una macchina dove la vita muore.
Mentre e' la vita, cangiante, solcata da correnti appassionate e tenebrose,
a esplodere dall'intera opera della Merini. Vita che si traduce in poesia
"tanta e vera... dono di un talento espressivo clamorosamente naturale",
come ha sottolineato Giovanni Raboni nell'introduzione a Testamento.
Del resto dove attinga la sua congenita necessita' di canto, lo ha spiegato
lei stessa in uno scritto del 1987 dedicato a Bino Rebellato: "La mia poesia
mi e' cara come la mia stessa vita, e' la mia parola interiore, la mia vita.
Non si puo', secondo me, rescindere la poesia dal pensiero-azione. Io sono
stata sempre un'autrice dinamica, non una persona che gioca i dadi del
concetto a un tavolo di metafore. Mi piace scrivere perche' mi piace
vivere".
*
"Io amo il patire"
Ebbene. Non si aspettino dalla Merini proposte di definizioni e soluzioni.
La soddisfazione che si prova scrivendo - sembra dirci - ha ben poco a che
vedere col valore di quanto si scrive. Per cui immagino che approvi Emerson
quando dice che la metafora e' una forma di poesia fossile. Eppure la stessa
parola e' una metafora. Ma la poesia non comincia con essa. Comincia, e in
lei si dipana, "dentro gesti o pensieri che rispondono a una grande violenza
di vita": e se in un certo giorno la violenza non c'e' (non ci sono cioe'
gesti o pensieri), la Merini se la produce da sola - "io amo il patire" - e
si ritiene fortunata perche' e' in grado di farlo.
Puo' insomma godere di violentarsi e chiedere alla sua penna la sofferenza
che genera il piacere. Solo quando l'oggi sara' passato si accorgera',
paradossalmente, che e' stata solo l'intimita' con se stessa e l'offerta di
se stessa, vale a dire il comportamento, ad aver generato la sua poesia.
*
Il primo vocabolario
Il poeta e l'artista sono divenuti, nel nostro tempo, soprattutto dei
teorici di estetica. E' il fenomeno moderno piu' saliente, che fa risaltare
come una perla quella specie di malessere vitale che rende fluida e
immediata la poesia della Merini - donna colta (ma ce ne accorgiamo quasi
per caso) e tuttavia lontanissima da eccessi di dottrina e di meditazione.
Comincio' a scrivere da bambina, avviata all'amore per le lettere da un
padre che, a due anni, le reggeva la matita fra le dita e, a cinque, le
regalo' il suo primo vocabolario. Non ebbe studi regolari: tre classi di
avviamento professionale, respinta all'esame di ammissione al liceo,
lettrice fanatica al punto di ammalarsi, appassionata di musica lirica,
anoressica in cura per qualche tempo alle Molinette di Torino per colpa dei
libri, dice. Prima passione: Paul Valery. Provvisoriamente mistica e illusa
di essere chiamata in convento, l'orecchio teso alla nascita della parola
poetica salutata evangelicamente nella lirica "Genesi" (Tu sei Pietro,
Scheiwiller, 1961), travolta dal gioco frenetico degli amori e di Madama
Follia sul lento scorrere dei Navigli milanesi, ospite degli ospedali
Vergani e Paolo Pini, e in quel luogo di dolore che, per ironia, porta il
nome di un grand hotel, Villa Fiorita, e altrove. Ma Alda Merini non e' solo
questo.
E pero', come si fa a dire chi e', che cos'e' Alda Merini? Anche chi crede
di conoscerla a un certo punto deve adattarsi all'idea di essere privo delle
misure per penetrare i suoi segreti: lo spazio che occupa e' pericoloso e
pieno di minacce. Alda e' onnipresente, alle manifestazioni, alle
conferenze, nei bar della mala, dove scrive su foglietti volanti impugnando
la penna come uno scettro d'oro. Ma, infine, non si sa dove sia. La vediamo,
le parliamo: ma solo scostando la cortina di garze dietro le quali lei erra
a suo arbitrio.
Forse e' da poeti di questo genere che la poesia trarra' la sua salvezza:
poeti dalle vite non pagate (Ballate non pagate, Einaudi 1995), "perche' non
esiste riconoscimento che possa pareggiare il conto di cio' che Alda Merini
ha dato alla poesia, cosi' come non esiste possibilita' di risarcimento da
parte di una vita che ha sempre agito per sottrazione" (dalla nota
introduttiva al volume, di Laura Alunno). Lo psichiatra che l'ha curata per
anni ha scritto: "Questa donna pare spaccata in due; da una parte la sua
vita completamente anonima, chiusa in un guscio di sofferenza; dall'altra
l'esplosione della sua lirica, davvero bella, davvero infinita".
Sebbene antologizzata fin da giovanissima, e' sull'intelaiatura piena di
nodi e di ingorghi della sua lunga vicenda esistenziale che la Merini tesse
la corposita' verbale dei suoi versi, l'articolazione delle immagini e
quella sua straordinaria aderenza fra l'andamento semantico e il ritmo.
Il suo primo libro e' La presenza di Orfeo (1953). L'autrice ha 22 anni (non
ne aveva neppure sedici quando Giacinto Spagnoletti lesse le sue acerbe
composizioni e fiuto' il talento). A quell'eta', cioe' a 22 anni, "era gia'
esperta nei segreti della follia e della poesia", dice Maria Corti. Ma il
margine di fiducia tra se' e la sua vita non si era ancora ristretto: c'era
dello spazio, e in quello spazio campeggiava Dio - Dio come ricerca,
inquietudine, tentazione, nostalgia, paura -, una presenza che domina la
produzione giovanile della Merini, per appannarsi in seguito in un cammino
anomalo, a' rebours, fino a oscurarsi nell'impasto della sua poesia piu'
matura, rastremata come una cengia dalla quale si puo' improvvisamente
precipitare.
*
Suppliche e interrogativi
In molta parte di Paura di Dio (1955), il suo secondo volume, in Nozze
romane (1955) e Tu sei Pietro (1961), assistiamo a una sequela di suppliche,
di chiamate e di interrogativi: "Se tutto un infinito / ha potuto
raccogliersi in un Corpo / come da un corpo / disprigionare non si puo'
l'immenso?". "Da questi occhi cerchiati di dolore / che ancora non ti
vedono, Signore, / riflesso dentro il mondo, / salvami Tu". "Uomo Perfetto,
cosa dannerai / di questo seme che, nel modularsi, / s'e' rinforzato solo di
se stesso / senza estasiarsi in giochi di virtu'?". "Io ti chiedo, Signore,
per che passo / dovrei entrare senza piu' sentire / la tua voce di colpa e
di rovina". L'eternita' non si riveste di attribuzioni fantastiche, ma si
presenta come tempo: la personalita' insaziabile e inquieta della poetessa
vi si immerge, e il suo canto si eleva in una difficile ricerca spirituale,
per tornare indietro, molto spesso, reietto.
*
Scherzare sulle cose serie
Non a caso, passati gli anni, quasi spaventata dalla serieta' del tema,
fini' per aderire al principio di quell'irriducibile toscanaccio di Emilio
Cecchi, secondo il quale quando le cose sono troppo serie non si puo' che
scherzarci sopra.
"Se Dio mi assolve lo fa sempre per insufficienza di prove", recita un suo
aforisma. Rimane l'onesta' della sua natura, che parla pulito come la gente
semplice e non conosce nemmeno alla lontana la corruzione dello snobismo
letterario; e questo la solleva da ogni eventuale condanna. La fede nel
potere taumaturgico della poesia in lei e' immensa, in quanto la poesia e'
esercizio quotidiano che procura godimenti e dolori morali e fisici: ad essa
e' affidata la facolta' di non perire giorno per giorno ai sentimenti, ma di
mantenere vivo cio' che la scrittura chiama "il peso dei giorni". Una
saggezza tempestosa e ferita. Cio' non ostante, saggezza.
Dal '61 all'80 c'e' un vuoto. Quasi vent'anni di silenzio. E' una specie di
viaggio nel regno dell'aldila', dove si impara a riconoscere cio' che e'
eterno e cio' che e' caduco, essenziale o apparente. La Merini e' malata,
malata di follia; il solo male che riesca a operare la creazione, l'avvento
di un nuovo cielo e una nuova terra. Quando esce da quei manicomi, mai
configurati se non come spazio di un ordine invalicabile e di passioni
represse (arduo rappresentare una realta' cosi' terribile con mezzi piu'
sobri), quando esce, finalmente, le sue pubblicazioni fluiscono. Raccolte
per piccoli e grandi editori, plaquette in tiratura limitata; a partire dal
'91 compone con una certa regolarita' liriche e schegge di pensieri che
Alberto Casiraghi pubblica nelle sue eleganti edizioni Pulcinoelefante.
E' sempre Giovanni Raboni ad aver scritto che un giorno bisognera' pur
tenere conto della velocita' e dell'irruenza di cosi' tanta poesia, dono di
una forza della natura, immagine forse un po' di maniera, ma sostanzialmente
esatta.
La ricerca di un'ascendenza, di un indirizzo letterario, di una scuola,
diventa dunque un'inutile spedizione attraverso l'immensita' oceanica della
produzione della Merini. Com'e' naturale, vi si trova di tutto: la marogna e
il diamante. Ma non si puo' che restare stupiti davanti a quel suo mondo
prodigiosamente ricco che lei pero' non vuol considerare derivato dalla
malattia. "Si e' fatta troppa confusione tra la mia poesia e la mia vita,
anzi tra la poesia e la malattia. La poesia, semmai, e' la liberazione dal
male, come la preghiera lo e' dal peccato".
*
Pochi scritti in terza persona
D'accordo. Ma non ci si libera se non dall'esistente che vincola o ha
vincolato - il male appunto, o la colpa. Dunque, se i suoi libri scoppiano
di vitalita', ogni verso e' teso sulla corda di un conflitto, di un ricordo
sofferto come una cocente tortura. Ne consegue la penuria delle liriche
scritte in terza persona: e quando cio' accade, e' solo per mascherare l'io,
per sdrammatizzare la sofferenza. Non a caso lei fa poesia parlando,
conversando, dettando. "Non so neppure leggere la mia scrittura: tutte le
mie poesie me le recito a memoria, mano a mano che le scrivo me le stampo
nella mente. Non ho mai testi; quei pochi che ho, li regalo" (da La pazza
della porta accanto). La risonanza angelicata che alcuni le attribuiscono
viene senza dubbio anche dalla totale assenza di macchinazione nel
comunicare. E' la macchinazione che in molti casi rende gli scrittori, i
poeti e gli artisti in genere degli imprenditori di se stessi, dei maestri
nell'alchimia di dosaggi e calcoli corrispondenti solo alla convenienza. "Le
piu' belle poesie / si scrivono sopra le pietre / coi ginocchi piagati / e
le menti aguzzate dal mistero". Tolti da La Terra Santa, questi versi sono
emblematici, e fanno intravedere "lo strapiombo di Dio" che c'e' dietro
(dentro) la parola di Alda Merini.
La Terra Santa (1984) e' una raccolta fondamentale. Colpisce la mente anche
di chi abbia scarsa disponibilita' a trattenere e far fiorire un'impressione
profonda. La Terra Santa e' il manicomio: "Ho conosciuto Gerico / e una
pozza d'acqua infettata / ci ha battezzati tutti. / Li' dentro eravamo ebrei
/ e i Farisei erano in alto / e c'era anche il Messia / confuso dentro la
folla: / un pazzo che urlava al Cielo / tutto il suo amore in Dio".
*
Schizofrenia coautrice?
Maria Corti ci mette comunque in guardia quando indica come coautrice la
schizofrenia, "per natura atta a generare figure di pensiero". Insomma,
esiste un "caso" Merini, che inceppa l'analisi critica e crea un po' di
confusione: la donna, che suscita un'infantile curiosita', sarebbe di
impedimento alla poetessa. Ma io credo che sia soprattutto la violenza
espressiva del suo verso ad accecarci e a non permettere di impadronirsi di
lei per le vie normali del razionale. E allora? Allora non possiamo che
affidarci agli eccessi di Alda, la mistica pazza piena di obbrobrio e di
saggezza moralistica, frenetica come la corrente rapinosa di un torrente.
A voler mettere in relazione la Merini con qualche poeta del passato, si
potrebbe azzardare in qualche modo un parallelo con Marina Cvetaeva,
randagia e sempre innamorata, non tanto di uomini quanto dell'amore.
L'eloquenza dei sentimenti e', nell'una e nell'altra, esplosiva; pur
risentendo di infinite intimidazioni, umiliazioni e disgrazie. E in tutte e
due un "concetto d'amore" e "la rappresaglia della poesia" si mescolano e
finiscono per essere la stessa cosa. Naturalmente si tratta di un
accostamento piuttosto velleitario, non privo pero' di qualche ragione, come
appunto s'e' detto.
*
Amori fatti di poesia
Furono la riconquista di un posto in libreria nel 1989, e la nascita di un
gruppo di sodali della poetessa ai quali, in un bar dei Navigli, donava le
sue poesie, a palesare al lettore le vicende private della nostra
protagonista e, fra queste, i suoi amori. Che cosa sono per lei questi amori
fatti poesia? Un doloroso rendiconto sull'esperienza del corpo in
un'atmosfera pingue, violentemente eretica e allo stesso tempo popolata di
limpidi pensieri. Amore, parola abusata, diventa abusatissima nei suoi versi
e nelle sue prose, dove il discorso si fa esplicito memoriale. E ha due soli
colori: il rosso, come l'incendio, e il nero, come la follia e la morte. Mai
erotico, sempre e solo carnale, l'amore e' coronato di spine piu' che di
fiori. Predilige il flagello dei lampi, delle ventate, della grandine e
delle torride piogge estive che vengono da tutti gli angoli dell'orizzonte.
Si piega a qualsiasi eccesso, mentre ci sorprende l'atteggiamento interiore
della donna, irretita e insieme protettiva, quasi di quel ciclone volesse
parare la durezza, mitigarne l'infamia.
Ci troviamo nel pieno di questa atmosfera con i versi di Titano amori
intorno (1993). Titano e' il barbone dei Navigli, un po' filosofo e un po'
ladro, da lei raccolto e amato. "Mi ero fatta carico di quell'esistenza
infelice", ha scritto. E altrove: "Titano aveva capito che io / ero una
preda facile. / Cosi' mi usava". E in una riflessione che non e' suscitata
dall'amante ma dall'amore in genere: "Amore, le mie mani le ho create per
te, / giorno per giorno, le ho spalmate / con la crema viva del dolore /
finche' son diventate morbide e spinate".
Essere usata e farsi carico degli altri sono atteggiamenti fondamentali del
modo che la Merini ha di vivere il rapporto amoroso. Ne La pazza della porta
accanto (1995), rievocando la sua relazione con Giorgio Manganelli, ha
raccontato: "Mi tiranneggiava, mi faceva vivere ai suoi piedi, lasciava che
gli beccassi le scarpe e che gli cercassi col becco le labbra, tumultuosa
come tutti gli uccelli".
*
I baci di Titano
Una confessione ripetuta in vari contesti, con insistenza: "I baci
appassionati di Titano... avevano la meglio sulla mia paura... A me non
rimaneva che accucciarmi a terra come una siepe in calore...". "Andai a
sbattere, mentre piangevo, contro un carabiniere... Lo tenevo in conto di un
figlio, di un figlio zelante e oltraggioso ad un tempo, un po' come era
stato padre R.". E il letterato Michele Pierri, suo secondo marito, lo
chiama "mio figlio sconsolato", perche' ormai "vecchio e sepolto". Nel
mentre gli ricorda che "fui asservita alla parola / non meno che uno schiavo
al suo padrone, / e che lavai costantemente i tuoi piedi / con lacrime di
implorazione".
*
Il senso sacro del corpo
L'abbassamento, l'altruismo, la pieta', fanno si' che non si possa leggere
la Merini senza pensare all'uomo del sottosuolo di Dostoevskij, analista
delle identita' deformate e fatte corpo marcescente nel limaccioso magma del
mondo. La Merini, fondamentalmente moralista, non si ritrae di fronte a
nessuna esperienza offertale dalla molteplicita' della vita: ma anche
nell'ebbrezza carnale non le viene mai meno il senso sacro del corpo, il suo
e l'altrui: la materia, anche la piu' bassa, racchiude possibilita'
infinite.
E cosi', sia pure in un rapido esame, ci accorgiamo che le persone che hanno
interessato la sua vita, o coloro che semplicemente l'hanno sfiorata, sono
guardate tutte con il medesimo rispetto - si chiamino Giorgio Manganelli,
Michele Pierri, oppure Titano e Charles, un altro barbone che godette delle
sue attenzioni.
A questa delicatezza per gli altri (ma non e' forse disistima verso se
stessa?) la Merini si dedica quasi morbosamente, fino a soffrirla come un
obbligo, una tortura. "Chi non si fa carico del dolore del proprio vicino
merita la gogna", ha scritto. E figuriamoci quando c'e' di mezzo una
relazione personale. Non a caso le va stretta la definizione di poetessa
dell'amore che le ha affibbiato certa critica un po' frettolosa. Quella di
cui ci rende partecipi e' sempre una probabilita' di amore, anticipata dal
dono di se' e contaminata dalla convinzione che "respirando, togliamo
l'ossigeno agli altri", perche' siamo tutti "figli di Lucifero piu' che di
Dio".
Molti atteggiamenti della nostra poetessa rischiano d'essere una parodia -
sicuramente involontaria - di motivi strindberghiani e dostoevskijani. Gli
asili insensati ricercati da Strindberg nella sua geniale e spregiudicata
autobiografia, Autodifesa di un folle, si ripresentano nella Merini, sebbene
con spinte meno cerebrali: entrambi soffrono di disappartenenza ed entrambi
coltivano, in un angolo della psiche, il desiderio di stupire e di
provocare. Ma con la Merini bisogna "raggiungere le sedi del sangue", come
dice Spagnoletti. Tutto nasce di li', il suo linguaggio, la sua follia, le
sue furbizie, il suo nullismo, la sua sensualita' che sembra fame d'uomo ed
e' invece una lama rivolta contro se stessa.
V'e' un ordine di impulsi (o piuttosto un disordine) nei confini del suo
essere fisico, dove l'io e' cacciato e inseguito di continuo, pur avendo
casa in se stesso.
*
I paesaggi milanesi
Un cenno meritano i paesaggi della Merini. I Navigli e il paesaggio
domestico. Di entrambi ha scritto abbondantemente: e chi conosce quella zona
acquosa di Milano e abbia visitato la sua casa, puo' testimoniare
l'autenticita' delle descrizioni e la fluidificazione dei sentimenti
interattivi tra l'habitat esterno e quello interno.
Drammi, bravate, bevute, "deboli venti di allegrezza", un'atmosfera
grottesca e follemente saggia - tutto fuori rotta, nella confusione e nella
sporcizia, nella mancanza di ritegno e nell'irrisione di ogni "sterile"
convenzionalita' -, ecco il clima di quella Milano lagunare che di notte
celebra la liturgia delle cripte fumose e dei cabaret. I Navigli della
Merini non sono quelli di Quasimodo o di Attilio Rossi - acque immobili e
terse come specchi sulle quali si potrebbe anche camminare. Sono vene di
acqua putrida, fiancheggiate da case che covano misteri, mangiate dal
salnitro e brulicanti di prostitute e di ladri. Nell'epoca dell'avvenire
interplanetario, il tempo qui e' scandito dal ronfare dei barboni sotto i
ponti e dalle voci che si rincorrono dalle porte aperte sulla strada, di
abitazioni, di negozietti, di bar. E' nei bar, infatti, che la Merini scrive
per lo piu' le sue poesie, nelle osterie, sul banco di qualche libraio della
Ripa. O nel caos della sua casa, affacciata su un misero cortile, con i muri
trasformati in agenda telefonica, le cicche e i biglietti da mille per
terra, e la polvere e il fumo della sigaretta che si allargano su un
panorama inimmaginabile di oggetti e di carte, di scatoloni e di barattoli,
facendo volare l'estro della poetessa.
"Tutti sanno mettere ordine e fare pulizia, non tutti sanno fare i poeti",
pare abbia detto una volta a qualcuno, esitante se varcare o no la soglia
dell'antro. E chi potrebbe darle torto? E chi, infine, si sentirebbe
autorizzato a giudicare il suo squinternato modo di vivere, i suoi stivali
che calzava "da piu' di sei mesi", e la sua sottoveste "alquanto indecente"
che le tolsero al Vergani prima di lavarla, quando tutto cio' genera
bellezza?
*
Un pallido vivere
"Asservita alla parola / non meno che uno schiavo al suo padrone" (due versi
da non dimenticare), vittima di innumeri elettroshock e del suo "pallido
vivere malcerto", con la Merini occorre guardare oltre la donna che si vede,
magari non guardarla affatto, solo ascoltarla e leggerla. Allora si sale con
lei una scala di valori che tende al suono delle sfere, alla sete di
significato e alla pienezza dell'energia. La cronaca, la polvere, e le molte
interviste che le hanno fatto, vengono dimenticate.
*
Parole inesorabili e ambigue
Al di la' di tale consolazione, di questa donna che "nella vita si e' persa"
rimane pero' nel cuore il disagio di immagini ambigue e sfocate. Modellando
su di una molteplice e sempre uguale se stessa l'intreccio della propria
poesia e della propria prosa - ma per lei non fa differenza, si tratta solo
di esprimersi, di creare esprimendosi -, la Merini rischia di trascinarci in
una perfida palude piena di riverberi e di illusioni ottiche. Nel tenebroso
santuario delle sue parole, popolato di figure che si innestano su traumi
antichi (in Reato di vita racconta di un portiere di notte che la violenta,
e il ceffo del portinaio ritorna anche nei versi dedicati a Titano), ci si
trova a partecipare fin troppo vivamente alla sua devastazione. "Il poeta e'
un'ombra molesta, un'ombra maldicente di se' e degli altri, ma pur sempre un
morto nella vita". Sono parole inesorabili. Colorite un po' troppo di
romanticismo funesto. Ma inesorabili nel rendere l'afflusso di vertigini
della nostra Merini che, da morta quale dice di essere, non fa che produrre
una poesia infrenabilmente viva, molto simile al microcosmo di uno stagno
abitato da una miriade di rosalie, di tafani, di zanzare, di mosche e
bellicosi insetti d'ogni genere, da una profusione di erbe, alghe,
fogliuzze, da fiori putridi e bellissime ninfee - suo malgrado, forse.
*
Un esordio a soli sedici anni
Alda Merini e' nata a Milano nel 1931. Ha esordito giovanissima, a soli
sedici anni, sotto l'attenta guida di Angelo Romano' e Giacinto Spagnoletti.
La sua prima raccolta di poesie l'ha pubblicata a 22 anni, con il titolo La
presenza di Orfeo (Schwarz, 1953) ed ebbe notevole favore di critica. Al
primo libro fecero seguito Paura di Dio (Scheiwiller, 1955); Nozze romane
(Schwarz, 1955); Tu sei Pietro (Scheiwiller, 1961).
Dopo un silenzio editoriale durato vent'anni, escono altri libri di poesia:
Destinati a morire. Poesie vecchie e nuove (Lalli, 1980); Le rime petrose
(edizione privata, 1983); Le satire della Ripa (Laboratori Arti Visive,
1983); Le piu' belle poesie (edizione privata, 1983); La Terra Santa (a cura
di Maria Corti, Scheiwiller, 1984, Premio Cittadella, 1985); La Terra Santa
e altre poesie (Lacaita, 1984); Fogli bianchi (Biblioteca Cominiana,
Cittadella, 1987); Testamento (a cura di Giovanni Raboni, Crocetti, 1988):
Gli anni Novanta si aprono con la pubblicazione - nell'einaudiana
"Collezione di poesia" - di Vuoto d'amore (a cura di Maria Corti, 1991);
Valzer (TS, 1991) e Balocchi e poesie (TS, 1991). Seguono: Ipotenusa d'amore
(La Vita Felice, 1992); La palude Manganelli o il monarca re (La Vita
Felice, 1992); La presenza di Orfeo, poesie degli anni 1953-1962
(Scheiwiller, 1993); Titano amori intorno (La Vita Felice, 1993); Le zolle
d'acqua. Il mio Naviglio (Montedit, 1993); La palude Manganelli o il monarca
re (La Vita Felice, 1993, edizione accresciuta); Reato di vita (Associazione
culturale Melusina, 1994); Ballate non pagate (a cura di Laura Alunno,
ancora nella "Collezione di poesia" di Einaudi, 1995); La Terra Santa, che
vede riunite cinque raccolte pubblicate fra il 1980 e il 1987 (Scheiwiller,
1996).
Nel '98 nei "Tascabili Einaudi" esce Fiore di poesia 1951-1997 (a cura di
Maria Corti) e 57 poesie ("Miti" Mondadori); Il ladro Giuseppe (Scheiwiller,
1999); Superba e' la notte (Einaudi, 1999).
*
L'altra verita' e' in prosa
L'altra verita'. Diario di una diversa (Scheiwiller, 1986) e' il primo libro
in prosa di Alda Merini e segna un nuovo inizio della sua attivita' poetica,
cui seguira' negli anni il grande successo che oggi la vede protagonista. Il
diario e' il primo di una nutrita serie di volumi in prosa: Delirio amoroso
(il melangolo, 1989); Il tormento delle figure (il melangolo, 1990); Le
parole di Alda Merini (Stampa Alternativa, 1991); La vita facile. Aforismi
(La Vita Felice, 1992); La pazza della porta accanto (Bompiani, 1995); La
vita facile. Sillabario (Bompiani, 1996); Lettere a un racconto. Prose
lunghe e brevi (Rizzoli, 1998).
Nel '93 alla Merini e' stato assegnato il premio Librex-Guggenheim "Eugenio
Montale" per la poesia, nel '96 il premio Viareggio, nel '97 il premio
Procida - Elsa Morante. L'ultimo riconoscimento e' del '99: il premio della
Presidenza del Consiglio dei Ministri - settore Poesia.

==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 209 del 18 settembre 2008

Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe

Per non riceverlo piu':
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe

In alternativa e' possibile andare sulla pagina web
http://web.peacelink.it/mailing_admin.html
quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su
"subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).

L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196
("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing
list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica
alla pagina web:
http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004
possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web:
http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la
redazione e': nbawac at tin.it