La domenica della nonviolenza. 166



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 166 del primo giugno 2008

In questo numero:
1. Commissione del premio Galilei 1992: Un profilo di Giovanni Pozzi
2. Giovanni Pozzi: Discorso di accettazione del Premio Galilei 1992
3. Giovanni Pozzi: Per ascoltare occorre tacere
4. Dante Isella ricorda Giovanni Pozzi (2002)

1. MEMORIA. COMMISSIONE DEL PREMIO GALILEI 1992: UN PROFILO DI GIOVANNI
POZZI
[Dal sito www3.humnet.unipi.it riprendiamo il seguente "Giudizio della
Commissione per l'attribuzione del Premio Galileo Galilei dei Rotary
Italiani, anno XXXI: Sezione "Storia della Letteratura Italiana". Verbale
della Giuria designata dal Rettore dell'Universita' di Pisa prof. Gianfranco
Elia, composta dai professori Emilio Bigi, Milano; Luigi Blasucci, Pisa;
Francesco Mazzoni, Firenze; Ezio Raimondi, Bologna; Tristano Bolelli, Pisa,
presidente.
Giovanni Pozzi (Locarno 1923 - Lugano 2002), illustre italianista, docente
universitario, autore di fondamentali lavori. Nacque a Locarno il 20 giugno
1923. Studioso di straordinaria tempra morale, fu uno dei primissimi allievi
di Gianfranco Contini a Friburgo, conseguendo sotto la sua guida nel 1952 il
dottorato in letteratura medievale e moderna. Ordinato sacerdote nell'Ordine
dei Cappuccini nel 1947, ha insegnato Letteratura italiana all'Universita'
di Friburgo dal 1960 al 1988. Si e' spento in una clinica di Lugano all'alba
di sabato 20 luglio 2002. Tra le opere di Giovanni Pozzi: Francesco Colonna.
Biografie. Opere, Antenore, 1959; Poesia per gioco, Il Mulino, 1984; Rose e
gigli per Maria, Casagrande, 1987; La parola dipinta, Adelphi, 1981;
Sull'orlo del visibile parlare, Adelphi, 1993; Alternatim, Adelphi, 1996;
Grammatica e retorica dei santi, Vita e Pensiero, 1997; La terra del nome.
Ecostoria e geografia sacra dell'antico Israele, Pacini Editore, 2000; Mario
Botta. Santa Maria degli Angeli sul monte Tamaro, Casagrande, 2001; In forma
di parola. Dodici letture (con cd-rom), Medusa Edizioni, 2003; La poesia di
Agostino Venanzio Reali, Morcelliana, 2008]

Nato a Locarno nel 1923, Giovanni Pozzi si e' formato a una scuola
filologica che congiunge al rigore dell'accertamento l'acutezza inventiva
della critica verbale e della ricostruzione storica, introducendovi a un
tempo lo studio assiduo e la misura severa della teologia. La sua attivita'
di studioso lucido e appassionato si e' svolta, con sapiente equilibrio, tra
piu' aree di ricerca, alla confluenza di problemi complessi e vitali: dalla
storia della tradizione classica alla grande avventura letteraria del
Seicento, dall'umanesimo alla poesia contemporanea, dalla retorica alla
iconologia, dal mondo labirintico dell'erudizione alla provincia interiore
della spiritualita' e della sua parola riflessiva, nel segno o nell'ombra
dell'Assoluto. A lui si devono anche splendide edizioni critiche, con
preziosi e dotti commenti, di testi sempre ardui della letteratura
medioevale, umanistica e barocca. Ma Giovanni Pozzi - o Padre Giovanni, dopo
l'ingresso nell'Ordine francescano - e' soprattutto un critico di raffinata
sensibilita' e singolarissima cultura, con l'intelligenza nativa dello
storico che sa ricostruire la vicenda secolare della poesia visiva dall'eta'
alessandrina sino al Novecento o interrogare le pieghe piu' segrete e
vibranti di un'anima che si scruta o di un'epoca che si guarda e raffigura
nello specchio di una metafora, di un luogo o di un archetipo letterario. La
sapienza si associa al senso vivo della sperimentazione e alla pragmatica
virtuosa del dialogo tecnico con il testo e le sue figure stratificate.
Cosi', nella sua funzione di professore di Letteratura italiana
nell'Universita' di Friburgo, promotore di nuove ricerche e imprese
interdisciplinari, Giovanni Pozzi e' stato il continuatore piu' originale
della filologia critica di Gianfranco Contini all'interno della cultura
elvetica e nel quadro di un colloquio europeo, in cui lo spirito delle
"humanae litterae" si apre, ancora una volta, al futuro.
Considerando da vicino la sua opera si nota che la sua produzione si
distingue per senso critico fin dalle fondamentali edizioni critiche e
commentate dell'Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (in
collaborazione con L. A. Chiappori, 1964), delle Castigationes Plinianae et
in Pomponium Melam di Ermolao Barbaro (1973-'79), delle Dicerie sacre e
della Strage degl'innocenti di Giambattista Marino (1960) e dell'Adone
(1976), testi di singolare ricchezza di temi e di figure retoriche:
caratteristiche gia' presenti nel suo primo lavoro, la tesi di dottorato
Saggio sullo stile dell'oratoria sacra nel Seicento esemplificata sul p.
Emanuele Orchi (1954), nato nell'ambito di Contini ma caratterizzato
dall'attenzione per le figure retoriche specificatamente impostate. Cosi'
alla ricerca tematica e' da ricondurre il volume La rosa in mano al
professore (1974), indagine del simbolismo rappresentato dalla rosa e delle
sue metamorfosi simboliche nelle fonti classiche e nei testi letterari dal
Poliziano al Marino; l'articolo Il ritratto della donna nella poesia
d'inizio Cinquecento e la pittura di Giorgione (1979), il volumetto Rose e
gigli per Maria. Un'antifona dipinta (1987), interpretazione di un'anonima
natura morta della prima meta' del Seicento, il saggio Des fleurs dans la
poesie italienne (1989), sulla simbologia dei fiori nella nostra poesia da
S. Francesco ai contemporanei, l'articolo Maria Tabernacolo (1989),
interpretazione di un dipinto di Piero della Francesca. In molti di questi
studi la letteratura, la teologia, la storia dell'arte si uniscono in un
amalgama interdisciplinare di grande suggestione. Alla Storia letteraria
Einaudi (1984) il Pozzi ha dato un capitolo su Temi, topoi, stereotipi. Al
filone delle forme artificiose si riferisce il volume La parola dipinta
(1981), trattazione organica della poesia figurata, dall'eta' alessandrina
ai calligrammi di Apollinaire, dalle composizioni geometriche di autori
gotici, rinascimentali e barocchi alle parole in liberta' dei futuristi e
alla poesia visiva della neoavanguardia. Alla stessa area si riporta il
volumetto Poesia per gioco. Prontuario di figure artificiose (1984),
rassegna lucida e capillare di figure verbali. Negli ultimi tempi Giovanni
Pozzi ha coltivato specialmente le figure del linguaggio mistico considerate
"figure linguistiche di frontiera": in quest'area rientrano l'antologia
Scrittrici mistiche italiane (1988) in collaborazione con Claudio Leonardi,
Le parole dell'estasi (1984), Il parere autobiografico di Veronica Giuliani
(1987), Il libro dell'esperienza della Beata Angela da Foligno (1992) in cui
le figure retoriche arrivano veramente alla frontiera dell'ineffabile e
dell'abisso della coscienza mistica. E' il momento in cui l'esame letterario
si salda alle istanze piu' propriamente religiose.
Per l'insieme del suo lavoro in Canton Ticino, parte viva della nostra
tradizione culturale, cristiana e laica, con la dignita' dello scrittore e
dello scienziato, con l'eleganza e la forma spirituale di una voce intenta,
autentica, vera che, al di la' delle Alpi, parla il nostro stesso linguaggio
di italiani d'Europa, la Commissione unanime ha designato Giovanni Pozzi a
ricevere il Premio internazionale Galileo Galilei dei Rotary Italiani 1992
per la Storia della letteratura italiana.

2. MAESTRI. GIOVANNI POZZI: DISCORSO DI ACCETTAZIONE DEL PREMIO GALILEI 1992
[Riportiamo il discorso di accettazione del Premio Galilei, pronunciato a
Pisa, ottobre 1992]

La formula linguistica della sorpresa e' l'esclamativo oppure
l'interrogativo? Una risposta istintiva, soggetta a quei moti dell'anima che
gli scolastici chiamavano le prime di un primo, si volge all'esclamativo;
che di fatto ha ragione d'essere come categoria linguistica soprattutto in
rapporto alla meraviglia. Alla quale non per nulla la grammatica ha
riservato un posto rilevante in quella parte del discorso che e'
l'interiezione, respinta all'ultimo posto proprio perche' la piu'
sconcertante. Tuttavia c'indirizza all'altra parte del dilemma il Grande
Libro di tutti noi, dal "manhu" degli itineranti nel deserto che hanno
consacrato con un interrogativo di sorpresa il nome del nutrimento per
eccellenza celeste, al "quomodo fiet istud" che ha tracciato il nuovo
cammino dell'umanita' verso la Parola e la Luce. "Si licet magnis componere
parva", l'interrogativo ha prevalso quando l'egregio professore Tristano
Bolelli mi ha comunicato che il premio Galileo Galilei veniva assegnato a
me. Anzi gli interrogativi. A quelli che si formulano in un "quomodo fiet
istud" di fronte agli inevitabili paragoni con gli illustri predecessori e
con i titoli ben maggiori di molti miei colleghi sui quali si potevano
fermare gli occhi della commissione aggiudicatrice, si aggiunge quello di un
"manhu" che sorge nell'animo di ogni svizzero-italiano quando da parte
italiana la sua attivita' viene definita sotto l'etichetta di estero. E'
l'interrogarsi su "da che parte mi trovo", connaturato ad una situazione
ibrida, anomala da un punto di vista della geografica etnico-culturale, ma
rispondente appieno all'evolversi d'una storia.
*
La Svizzera italiana, se considerata nella sua parte piu' compatta composta
dal canton Ticino e dalle due valli grigionesi adiacenti, e' un cuneo che si
infila verticalmente, in direzione nord-sud, in un sistema linguistico,
etnico e culturale che si distende orizzontalmente lungo l'arco alpino in
direzione est-ovest. Procedendo sull'asse orizzontale, l'identita' si fa
sensibilmente percepibile all'orecchio nella continuita' del dialetto che
sento uguale di qua e di la' dei due confini politici, e altrettanto
percepibile all'occhio nell'architettura rustica che trovo uguale a
Domodossola e a Porlezza; procedendo sull'asse verticale, rispondono a nord
una lingua di ceppo germanico e un aspetto assolutamente diverso delle
abitazioni contadine. Sempre, da Goethe a Butler a Mardersteig, travalicare
il versante sud del Gottardo ha significato l'aprirsi d'uno scenario
diverso: l'Italia.
Questa situazione si e' fissata nella storia col concorso di due forze
contrastanti; l'una, la conquista militare da parte dei cantoni tedeschi
spingeva verso sud; l'altra, per via dell'immutata appartenenza delle terre
ora ticinesi alla diocesi di Como e Milano, in senso contrario. La prima
delimito' secondo una logica estranea alla sua configurazione, sebben
conseguente agli interessi del conquistatore, un territorio i cui confini da
quasi cinque secoli in qua non furono piu' spostati. La seconda, attraverso
una solida organizzazione ecclesiastica, specialmente viva nella parte
ambrosiana, e l'azione potente di san Carlo Borromeo in concomitanza con gli
eventi piu' cruciali, ha conservato a queste terre un'inequivocabile
fisionomia lombarda, nonostante il distacco politico amministrativo.
E' cosi' che alla definizione ormai ufficiale di Svizzera italiana (noi
rifiutiamo quella ora di moda di Suedschweiz) si puo' allineare quella di
Lombardia elvetica.
E' in questa situazione che io mi sono mosso come studioso di lingua e
letteratura italiana, indottovi non da libere scelte, ma dal fatto di essere
quello che sono e che non ho scelto di essere nascendo svizzero-italiano.
*
La Svizzera, quella moderna, non l'Elvezia di Giulio Cesare, anzi gli
Svizzeri, entrano in letteratura italiana con la gioiosa descrizione dei
bagni di Baden, dove la nudita' e la promiscuita' sono viste dall'occhio
meridionale di Poggio Bracciolini come segno di intatta innocenza. Nasce di
li' il mito dello svizzero primitivo, quasi un buon selvaggio ante litteram
che sara' alla base dell'idillismo caro ai romantici. Poco dopo Poggio, Enea
Silvio Piccolomini in viaggio verso Basilea vedra' nelle mura di Bellinzona
il punto che separa la civilta' dalla barbarie; ne sara' emblema il
linguaggio piuttosto belluino che umano. Un motivo che ferira' ancora le ben
tornite orecchie napoletane di De Sanctis, quando descrivera' "i terribili
suoni che escono da quelle terribili bocche con certe formidabili
aspirazioni che pare, quando parlano, ti vogliano sputare in faccia". E' lo
svizzero rude e barbaro, deprecato dall'Ariosto e guardato con rispetto
dall'occhio acuto di Machiavelli. C'e' anche una terza siluetta, quella
dello svizzero pignolo, orologiaio, di cui e' infastidito sperimentatore il
Foscolo come lo sara' l'esuberante Faldella, salvo poi a mutarsi anch'essa
in positivo allo sguardo benevolo di Morselli. E' quanto ci narra il bel
libro sulla Svizzera vista dai letterati italiani dell'800 e '900 a cura di
uno studioso ticinese, Fabio Soldini; li', tra un centinaio di
testimonianze, in questo trittico si riassume l'immagine che dello svizzero
e' consegnata nella letteratura italiana. Salvo poi scarti pittoreschi ed
acuti, come quello di Contini che defini' la Svizzera periferica ed esotica,
seguito da Montale, la cui visione della Stimmung elvetica si concentro' in
un meraviglioso elzeviro intitolato a Friburgo sotto l'etichetta: Due preti
negri seduti al caffe'. Anche questa immagine sta per uscire presso un
editore milanese di origine svizzera, Scheiwiller, a cura dello stesso
Soldini.
*
De Sanctis, il cui monito ai giovani troneggia (in italiano!) in cima alle
scale del Politecnico di Zurigo ed e' inciso sulla medaglia del Rettore di
quell'istituto, richiama a un altro nodo dei legami italo-svizzeri, agli
studi letterari e filologici dell'italiano sviluppatisi in Svizzera.
La chiamata di De Sanctis a Zurigo ha una portata esemplare che supera
l'impatto reale del suo insegnamento effettivo. E' il primo anello d'una
lunga catena di studiosi di cose letterarie italiane che hanno operato in
Svizzera. S'iscrive come fatto esemplare in una serie di appelli sulle
cattedre universitarie elvetiche di personalita' italiane di primo piano.
Chiamate quasi tutte in giovane eta', hanno fortemente caratterizzato gli
studi letterari presso la patria d'origine, traendo beneficio dal contatto
con le aree culturali tedesca e francese che compongono con quella italiana
la Svizzera. Prendendo congedo da Friburgo dopo ventotto anni
d'insegnamento, Contini confessava che in quel "longum aevi spatium dans la
vie d'un homme et (si je puis m'appliquer ce terme) d'un savant" vi aveva
"paracheve' sa maturite' scientifique et sa formation professionelle". E' in
sintesi la storia di molti docenti italiani in Svizzera. Il caso di Contini
e' accanto a quello di De Sanctis il piu' clamoroso. Chiamato giovanissimo,
appena ventiseienne, a coprire la cattedra di filologia romanza a Friburgo,
ha allargato li', tra il 1938 e il '52, la sua azione di critico militante,
inglobandovi scrittori francesi e tedeschi come Proust, Mallarme' e
Hoelderlin e diffondendovi la conoscenza di Montale, Ungaretti, Gadda; ha
congiunto la filologia d'un Pasquali con quella di un Bedier, suo
predecessore a Friburgo; ha applicato alla filologia delle varianti
d'autore, inaugurata in Italia da Debenedetti e De Robertis, le teorie della
scuola ginevrina di De Saussure e Sechehaye. Qui si misura perfettamente il
dare e l'avere, proprio a molti altri. Per esempio a Giulio Bertoni, pure
insegnante a Friburgo, che con un gesto di grande portata morale e politica
ha fondato durante la guerra del '14 l'"Archivum romanicum", superando
acerbissime polemiche nazionalistiche: egli vi proponeva le letterature
volgari del medioevo nel pieno della guerra come luogo d'incontro di popoli
nemici sul campo. Raramente alla letteratura fu affidato un ruolo cosi'
alto. La costellazione di persone implicate in quell'impresa e'
significativa del ruolo di mediazione culturale assegnato alla Svizzera e
solo possibile in Svizzera: vi partecipava un cattedratico italiano
residente nella storica Friburgo, sorretto da un ebreo tedesco, Leo S.
Olschki, nella sede della francese e calvinista Ginevra. In questa linea
vanno ricordati anche Migliorini, che pure a Friburgo per primo traduceva
Jakobson e recensiva i linguisti ginevrini; Monteverdi che tanto ha mediato
fra medievistica francese e italiana; Billanovich che ha riannodato in
Svizzera gli studi umanistici italiani con la tradizione del grande
Burckhardt. Burckhardt ci richiama gli studiosi svizzeri, di lingua tedesca
e francese, che hanno contribuito agli studi italiani, dagli eredi suoi di
Basilea ai zurighesi e bernesi Jud e Jaberg che hanno regalato l'Atlante
linguistico all'Italia, all'italianisant de Ziegler di Ginevra. In questa
linea operano oggi studiosi di italianistica in Svizzera, dove in tutte le
universita' esistono cattedre di lingua e letteratura italiana, non come
cattedre di letterature straniere, ma come cattedre di letteratura patria.
Gli studi di italianistica in Svizzera hanno li' e da sempre una
caratteristica loro: sono elvetici per questi incroci, ma sono italiani per
i problemi che vi sono dibattuti. Cio' e' stato vero per i maestri di
collaudata autorita', siano essi cittadini elvetici o italiani, ma si e'
fatto vero anche per le nuove leve che stanno affacciandosi alla ribalta
degli studi di italianistica con un vigore ignoto alla mia generazione. Cio'
risponde alla struttura stessa della Svizzera, al fatto, ormai unico (se si
eccettui San Marino e, per cosi' dire, la Citta' del Vaticano) per cui la
lingua e la cultura italiana sono ufficialmente parte integrante di uno
stato diverso da quello che prende il nome di Italia. Agli studi di storia
letteraria risponde d'altronde per questo aspetto la letteratura creativa,
quella di chi e' italiano per lingua materna, come Giorgio Orelli, e di chi
non lo e', ma in italiano scrive, come Adolfo Jenni, italiano di Berna, o
Fleur Jaeggy.
*
Io nei miei studi mi sono mosso entro questo alveo, ne' potevo altrimenti.
Ho trattato temi italiani in prospettiva italiana, allontanandomi
appositamente da ogni specifico aspetto letterario che rinviasse al Ticino,
ma insieme ho avuto presente cosa potevano offrire le altre due componenti
della realta' svizzera. Il richiamo italiano, di un'Italia unita anche se
per noi solo sul piano linguistico e culturale, mi ha spinto a vagare fra i
veneziani Francesco Colonna ed Ermolao Barbaro, i fiorentini Brunetto Latini
e Giovanni Dominici, il napoletano Marino evitando i lombardi (d'altronde
gia' eccellentemente frequentati da un nostro confinante, Dante Isella).
Quando agli inizi dei miei studi ho studiato l'opera di un comasco, il padre
Orchi, l'ho trattata a guisa di un universale barocco e non di una scrittura
lombarda. Tenendomi ugualmente lontano dal barocco di marca francese, quale
veniva elaborato nella Ginevra di Jean Rousset e dalla definizione crociana,
trovavo in un fatto svizzero, la scuola linguistica ginevrina, un punto di
riferimento per la strategia da adottare sul campo. Dietro l'insegnamento di
Regamey e le suggestioni di Contini, che allora applicava alla variantistica
il concetto di sistema, mi venne naturalmente, per puro processo
consequenziale, l'idea che si potesse applicare a un testo letterario cosi'
eccessivo l'opposizione di langue e parole; un tentativo che apparve
rischioso anche a chi sarebbe stato di li' a poco promotore del verbo
strutturalista. L'insegnamento friburghese che ho allora vissuto (ai due
nomi ora evocati di Regamey e Contini vanno aggiunti quelli di Billanovich
e, sugli inizi, di de Menasce) non solo ci introduceva nel vivo dei
dibattiti allora in corso su orientamenti e metodi, ma ci proiettava in
prima persona in una specie di sistema di contrasti. Essi emergono, con una
crudezza che oggi addolcirei, in un contributo del '58 che ho riesumato
quando ho chiuso con l'insegnamento: Per Guido e Beatrice. I carmi e il
pane, Friburgo S. 1988. La parola magica era filologia. Filologia, certo. Ma
cosa stava ad indicare quel nome se non un dedalo nel quale ad ogni passo si
aprivano uscite alterne? Filologia metteva in primo piano la lingua. Ma
questa, se concepita come tramite all'ermeneutica letteraria, invitava da
una parte all'attenzione sulla lingua poetica (la Stilkritik di Spitzer),
dall'altra alla grammatica dell'espressivita' (la stylistique di Bally, e,
dietro, in un certo senso, la vecchia retorica da vestire a nuovo). Lingua
italiana si', ma anche il latino degli umanisti il cui onore veniva allora
rivendicato a livello mondiale (era vicina attraverso l'Italia medievale e
umanistica l'America di Ullmann e Kristeller). Ecdotica in senso
neolachmanniano si', ma anche la ricerca sul documento concreto, sul codice
nella sua realta' fisica di libro segnato in correzioni e postille, da
lettori la cui identita' doveva esser scovata. Se da un lato era forte nella
scuola continiana il richiamo alla lingua individuale, punto di riferimento
Spitzer, dall'altro era bilanciato da un'attenzione alle costanti di forme e
contenuti, allertata dal fondamentale Europaeische Literatur giunto allora a
Berna sul tavolo di lavoro di noi neofiti. Vi si aggiunga il magistero extra
muros di Carlo Dionisotti che incontravo regolarmente nelle sue vacanze
ticinesi fin dagli anni Cinquanta, che richiamava, dietro continuita' e
scarti, a una storia scandita per generazioni e a una geografia ritagliata
per province. Non poteva d'altra parte sfuggire, a me ecclesiastico,
un'altra frattura, quella che divide culturalmente i chierici dal resto del
mondo, e che si presenta in modo tanto diverso nella cattolica Italia che
non nel mio paese a religione mista (basti pensare all'uso particolarissimo,
inapplicabile lassu', che hanno qui in terra italiana gli epiteti di
cattolico e di laico).
*
Sul filo di queste tensioni il mio lavoro ha proseguito interamente
circoscritto in una realta' elvetica (eccetto un quinquennio milanese).
Nell'assegnare a me il Premio Galilei, la Fondazione ha dato risalto al
contesto culturale cui appartengo. Io non sono che il tramite che rinvia
oltre confine, oltre i monti questo riconoscimento. Ricevendo questa
mirabile opera d'arte, unisco al mio personale, profondo e commosso, il
grazie di quanti lassu' lavorano per tenere viva questa singolarita'
storica, di una letteratura che e' ugualmente, per svizzeri e italiani,
nella sigla di De Sanctis, letteratura patria.

3. MAESTRI. GIOVANNI POZZI: PER ASCOLTARE OCCORRE TACERE
[Dal quotidiano "Avvenire" del 15 agosto 2006 col titolo "Tacet. Elogio del
buon tacere" e il sommario "Tacet. Si intitola cosi' uno degli ultimi
scritti di padre Giovanni Pozzi, il filologo cappuccino svizzero che fu
allievo e poi sedette sulla cattedra di Gianfranco Contini a Friburgo. Si
tratta di una plaquette stampata da Adelphi nel dicembre 2001 in 500 copie
numerate e rimasta fuori commercio, una sorta di testamento spirituale del
grande studioso della letteratura mistica e del barocco, scomparso nel 2002.
Nel volumetto (di cui in questa pagina proponiamo un ampio stralcio) padre
Pozzi esamina dapprima la ricerca di solitudine degli eremiti, che si
risolve nell'invenzione della cella e tuttavia non da' soluzione al dualismo
piu' intimo: quello tra parola e silenzio. Il quale viene composto soltanto
nel libro: laddove cioe' la parola puo' essere silenziosa. Solo 'la cella e
il libro - conclude lo studioso, adombrando in realta' la propria esperienza
stessa - sono le stanze della solitudine e del silenzio'"]

Per ascoltare occorre tacere. Non soltanto attenersi a un silenzio fisico
che non interrompa il discorso altrui (o se lo interrompe, lo faccia per
rimettersi a un successivo ascolto), ma a un silenzio interiore, ossia un
atteggiamento tutto rivolto ad accogliere la parola altrui. Bisogna far
tacere il lavorio del proprio pensiero, sedare l'irrequietezza del cuore, il
tumulto dei fastidi, ogni sorta di distrazioni. Nulla come l'ascolto, il
vero ascolto, ci puo' far capire la correlazione fra il silenzio e la
parola.
E' l'analogo della musica. La si ascolta pienamente quando tutto tace
intorno a noi e dentro di noi. Modo piu' perfetto, a occhi chiusi. Guardare
l'orchestra o il pianista, osservare il sincronismo tra l'agitarsi del
maestro, il va e vieni degli archi e la curva della melodia, rispettivamente
fra il rituale muoversi del busto, lo scorrere delle mani sulla tastiera e
la cascata delle note, amplifica la partecipazione allo spettacolo, ma
smorza l'incanto dei suoni. Ce l'offre intiero l'organo quando canta in
chiesa. Lo si ascolta senza nulla vedere di cio' che produce il suono. Esce
da un grembo oscuro e, nell'immobile oscurita' delle volte, ci avvolge come
un sudario.
L'oscurita' e' tanto lontana dalla nostra esperienza giornaliera quanto il
silenzio. Una volta, per illuminare, ci volevano gesti non ovvi, non facili;
oggi basta uno scatto. Veniva una luce debole e tremula, oggi fissa e
invadente. Di notte, non solo le citta' sono un agglomerato di bagliori, ma
anche i luoghi solitari sono trapunti di luci che disegnano strade e case.
Anche il luogo del silenzio assoluto, il firmamento, e' velato dalla coltre
di luce artificiale che annuvola il cielo stellato. Ci appariva come la piu'
armonica unione di opposti: quanto piu' colpiva l'occhio con l'acutezza
dello scintillare, tanto piu' si straniava dall'orecchio con l'arcano d'un
assoluto tacere.
Caduto il contrasto, cade anche l'intermittenza di luce e oscurita'. Questa
non interrompe l'attivita' dell'uomo, non lo prepara al sonno. L'alternanza
di giorno e notte, connaturale alla vita, si e' attenuata. Tale e quale la
corrispettiva di parole e silenzio. Viviamo in un'epoca in cui il silenzio
e' stato bandito. Il mondo e' oppresso da una pesante cappa di parole, suoni
e rumori. Credevano i babilonesi che gli dei avessero inviato sulla terra il
diluvio perche' infastiditi dal chiacchiericcio degli uomini. Oggi
manderebbero ben altro che diluvi. Una volta si percepivano solo le parole
del vicino. Poca distanza bastava per sottrarsi al fastidio d'un ascolto
indesiderato; oggi ci arrivano le parole dagli antipodi.
Il grembo del silenzio notturno e' rotto dal fragore delle macchine.
Costretti a passare una notte in luogo isolato, ci si alza irrequieti; il
silenzio diventa un incubo nel sonno. Spaventa la pace della montagna, del
bosco; e vi si va con la radio; spaventa la quiete dell'appartamento, e la
si accende. Il silenzio infastidisce a tal punto che, dove sia imposto di
tacere, si crea un rumore. Se nel corso di un discorso pubblico o di una
liturgia s'impone una pausa di silenzio, immancabilmente uno si mette a
tossire, una fa scricchiolare il banco, uno sfoglia le carte sottomano, una
apre la borsetta. L'uomo aveva tratto dall'alternanza di giorno e notte,
parola e silenzio i simboli che gli permettevano di definire fatti
interiori; oggi non agiscono piu'. La nostra esistenza si e' impoverita per
non sapere tradurre in figure interiori quelle esperienze primordiali.
L'apice del silenzio di ascolto si ha quando la parola stessa si presenta
silenziosa senza perdere alcunche' della sua vitalita': nella lettura. E'
l'incontro di una parola senza suono con un destinatario senza voce, in
perfetta solitudine. Il lettore e' solitario perche', mentre legge, crea col
libro un rapporto esclusivo. Due lettori affiancati che leggono ciascuno per
conto suo lo stesso libro sono solidali con esso e non reciprocamente. Il
lettore e' silenzioso perche' la lettura, com'e' praticata ordinariamente
nell'eta' moderna, esclude la pronuncia anche mormorata. Comporta non solo
l'ascolto piu' intenso che si possa immaginare, ma anche il piu' libero,
perche' non costretto dall'emissione vocale altrui: libero nelle soste, nei
ritorni, nei ripercorsi e tuttavia totalmente vincolato alla parola cosi'
com'e' fissata sulla pagina.
Se la stampa e' fedele all'originale dell'autore, la parola di lui, non
pronunciata, non giace morta sulla pagina. La scrittura incorpora i suoni e
i sensi come una donna incinta da lui fecondata. Il lettore ne sente i
sobbalzi vitali negli accenti, nei corsi ritmici, nelle rime e assonanze. Le
forme stesse dei caratteri, se correttamente aggraziate, assecondano la vita
silenziosa li' deposta. Tutta la mente, tutte le facolta' si concentrano su
quell'andirivieni destrorso dell'occhio di rigo in rigo. Quando il
raccoglimento gli fa cadere il libro di mano, lo lascia cadere senza
rimpianto, perche' al silenzio dell'ascolto e' subentrato in lui il silenzio
del ricordo di cio' che ha letto.
Morta nel silenzio dell'ascolto, la parola rigermoglia nel silenzio fervido
che l'avvolge. Assimilata e ricreata attraverso la meditazione, si delinea
come un essere nuovo. Se il grano non muore non fa frutto. La morte del seme
e' la vita della pianta. E proprio la pianta, unico essere della natura che
sia insieme silenzioso e animato, si offre a noi come l'immagine piu'
consona di cio' che accompagna le pause dopo la lettura. Silenziosa e piena
di vita, la pianta fa uscire dal seno del seme la foglia, e il fiore che si
esibisce in un trionfo di forme e colore, e il frutto generoso di succhi e
dolcezze.
Tale e' la parola meditata dopo esser stata letta. Una speculazione che ha
attraversato il cristianesimo da Origene a noi ha collocato al seguito della
lectio la meditatio, e dopo questa l'oratio. Li' qualificata come divina, e
percio' ristretta all'ambito di un parlare a Dio, la giuntura vale per ogni
discorso umano agganciato alla lettura.
Dal bulbo della lectio nasce lo stelo della meditatio, sulla cui cima si
apre il giglio dell'oratio in forma di parole ricordate, ricombinate,
rielaborate, reinventate, ricopiate (lo spirito alto e puro copia, il
mediocre imita). Non fa differenza se si svela nella sonorita' della
pronuncia o nel raccoglimento della scrittura, perche' ambedue sono
ugualmente figliate dalla memoria. Anzi la seconda piu' assomiglia alla
madre.
La scrittura si depone nel silenzio quanto la lettura, ma con un moto
inverso: l'una attinge dall'alfabeto il senso e lo affonda nello spirito;
l'altra ve lo estrae e lo effonde sulla pagina tracciandone il sentiero. E'
un cammino silenzioso. L'inchiostro gocciola senza gemere, la penna scorre
sul liscio del foglio senza grattare. Riempita la pagina, le curve e le aste
dei caratteri disegnano sul bianco del foglio armonici contorni come quelli
dei fiori sul piano dell'aiuola a formare un tutt'uno solitario. Emanano il
senso come quelli il profumo.
E' un incanto esiliato dalle macchine scrivane, con il loro ticchettio
oscillante. Opera delle dita mosse da mani inerti e fisse, e non dalla mano
intera che avanza con passo sincrono col corso della parola, il testo
scritto a macchina esce al mondo per operazione cesarea e non per parto
naturale. Tanto piu' nella nuova rappresentazione elettronica, che rompe il
legame tradizionale fra il supporto e la scrittura, inseparabili finora.
La stabilita' stessa del testo si dilegua, la compattezza si frantuma. La
ricezione dell'ascolto e' simultanea alla riproduzione del messaggio senza
intervallo di memoria, le dita non mediano, dominano. I caratteri non
rappresentano piu' il silenzio eloquente del testo impresso sulla pagina
bianca, ma la loquacita' muta della folla metropolitana.
Incrociarsi senza salutarsi, stiparsi senza toccarsi, fissarsi con sguardo
fuggitivo, incontrarsi senza un legame in una solitudine di massa
irrequieta, tale e' la sorte della parola ballerina sullo schermo. Potra'
ancora l'anima dimorare nelle stanze della quiete? E, come Maria, nel
silenzio del fiat mihi concepire e generare la Parola? Potra' l'uomo
accedere ai percorsi della lectio e dell'oratio per salire alla vetta della
contemplatio? (...)
La cella e il libro sono le stanze della solitudine e del silenzio. Della
solitudine, la cella, non casupola di frasche nel deserto, ne' carcere
murato, ma collocata al centro dell'uomo: il cuore che mai non dorme, vigile
nell'ascolto, metafora assoluta dell'abitacolo e metonimia dell'intera
persona umana. Una cella segreta dove, al dire di Angela da Foligno, "sta
tutto il bene che non e' qualche bene; quel cosi' tutto bene che non e'
nessun altro bene" (Memoriale, IX, 400).
Del silenzio, il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell'oblio,
dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo
silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non e'
petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede
una sosta. Colmo di parole, tace.

4. MEMORIA. DANTE ISELLA RICORDA GIOVANNI POZZI (2002)
[Dal "Corriere della sera" del 21 luglio 2002 col titolo "Pozzi. Un
francescano tra i classici" e il sommario "E' morto ieri a 79 anni il grande
letterato svizzero, italianista, che scelse una vita da frate. Era
considerato l'ultimo erudito del nostro tempo".
Dante Isella (1922-2007), filologo, critico e storico della letteratura,
maestro di metodo e di stile, e di rigore morale e intellettuale.
Riprendiamo la notizia della scomparsa diffusa il 3 dicembre 2007
dall'agenzia di stampa Adnkronos: "Dante Isella, illustre filologo, critico
e storico letterario di fama internazionale, che ha definito una "linea
lombarda" da Giuseppe Parini, Carlo Porta, Alessandro Manzoni fino a Carlo
Emilio Gadda, e' morto la notte scorsa all'ospedale di Varese. Aveva 85 anni
e da tempo soffriva di problemi cardiaci. Allievo di Gianfranco Contini,
professore emerito di letteratura italiana all'Universita' di Pavia
(1967-77) e al Politecnico di Zurigo, sulla cattedra che gia' fu di
Francesco De Sanctis, Isella ha curato edizioni di opere di Carlo Maria
Maggi, Giuseppe Parini, Carlo Porta, Carlo Dossi, Delio Tessa, Carlo Emilio
Gadda, Eugenio Montale, Beppe Fenoglio e Vittorio Sereni. Per Einaudi ha
pubblicato I Lombardi in rivolta: da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda
(1984), L'idillio di Meulan. Da Manzoni a Sereni (1994) e Carlo Porta
(2003). Nel 2005 ha vinto il Premio Imola 'Vita di critico' e nel 2006 gli
e' stato assegnato il Premio Chiara alla carriera. Dante Isella ha diretto
la collana dei Classici Mondadori dal 1961 al 1993. Ha diretto anche la
collana di Testi e strumenti di filologia italiana della Fondazione
Mondadori e condiretto la Biblioteca di scrittori italiani della Fondazione
Bembo. Nel 1956 gli venne assegnato il Premio Bologna per la filologia e nel
1987 il Premio della Fondazione del Centenario della Banca della Svizzera
Italiana. Dal 1988 faceva parte dell'Accademia della Crusca e dal 1997
dell'Accademia dei Lincei". Dal sito del Premio Grinzane-Cavour riprendiamo
la seguente breve scheda: "Dante Isella, critico letterario e filologo, e'
nato a Varese nel 1922. Ha insegnato Letteratura italiana nelle Universita'
di Catania, Padova, Pavia, Zurigo e Friburgo. Se oggi il pubblico dei
lettori dei romanzi di Fenoglio e' cresciuto, buona parte del merito va
attribuita anche alle cure che Isella ha prestato per lunghi anni all'opera
dello scrittore albese. Tra i libri su Beppe Fenoglio si ricordano Romanzi e
racconti (Einaudi-Gallimard, 2001). Direttore sin dalla fondazione nel
1962 - assieme a Maria Corti, D'Arco Silvio Avalle e Cesare Segre - della
rivista "Strumenti critici", Dante Isella ha collaborato a "Studi di
filologia italiana" e al "Giornale storico della letteratura italiana".
Oltre ai volumi di Beppe Fenoglio, ha curato le edizioni delle opere di
Carlo Maria Maggi, Giuseppe Parini, Carlo Porta, Carlo Dossi, Delio Tessa,
Carlo Emilio Gadda, Eugenio Montale e Vittorio Sereni. Tra le altre opere si
ricordano I Lombardi in rivolta (Einaudi, 1984), Dovuto a Montale (Archinto,
1997), L'idillio di Meulan (Einaudi, 1994), Per due liriche (Bollati
Boringhieri, 1998) e Carlo Porta. Cinquant'anni di lavori in corso (Einaudi,
2003). Quest'ultimo raccoglie i piu' importanti scritti che Isella ha
dedicato a Porta in cinquant'anni di "lunga fedelta'", affrontando argomenti
biografici, filologici, storico-letterari, esegetici. Attraverso questi
saggi, Carlo Porta diventa il punto piu' alto (insieme al suo amico Manzoni)
della parabola del realismo etico che, da Maggi fino a Tessa, ha
caratterizzato per secoli la cultura lombarda. Nel 2005 per Einaudi ha
pubblicato Lombardia stravagante. Testi e studi dal Quattrocento al
Seicento. Nel suo operoso percorso di studi, Isella ha ricostruito i fili di
una cultura lombarda che, sotto il segno di un forte realismo etico, si sono
dipanati senza soluzione di continuita' da Maggi a Sereni, ovvero dal
Seicento al pieno Novecento. In questo recente volume l'autore aggiunge alla
sua ricostruzione critica e filologica il periodo antecedente che va dal
Quattrocento al Seicento, facendo emergere figure di spicco come Fabio
Varese. La ricostruzione storico-letteraria costituisce un'introduzione alla
letteratura lombarda dell'epoca. Isella ha ricevuto il Premio Imola 2005
"Vita di critico" e il Premio Chiara nel 2007"]

E' morto ieri a Lugano, nella clinica Moncucco, dove era ricoverato da pochi
giorni per accertamenti, padre Giovanni Pozzi, considerato uno dei maggiori
italianisti. Aveva 79 anni.
Nel 2000 fu conferito al padre Giovanni Pozzi il Premio della Fondazione del
centenario della Banca della Svizzera italiana, per i suoi meriti nei
rapporti tra la Svizzera, sua terra d'origine (era nato nel 1923 a Locarno,
da una famiglia di modesti artigiani) e l'Italia, che egli, come pochi, ha
saputo illustrare con una lunga, appassionata attivita' sia di docente,
dalla cattedra universitaria di Friburgo, sia di originale, profondo
studioso della nostra letteratura. Tipico esemplare della gente lombarda,
Giovanni Pozzi approdo' studente a Friburgo, nel '47-'48, quando gia' era
stato ordinato sacerdote. Terminati gli studi teologici compiuti parte in
Ticino e parte in Italia, vestiva il saio di frate cappuccino, apparendo
agli occhi di tutti come un combattivo campione di carita' cristiana, "degno
confratello (e' stato scritto), nel fisico e nel portamento", di padre
Cristoforo, con la sua dolcezza mansueta e la fierezza del suo sdegno.
La formazione, solida e coerente, dove lo studio del greco e del latino si
accompagnava alla filosofia sistematica e alla retorica, lo aveva
indirizzato all'approfondimento dello stile dell'oratoria sacra del
Seicento, esaminato nelle Prediche quaresimali di padre Emanuele Orchi da
Como. E' questo il tema della sua tesi di laurea discussa con Gianfranco
Contini, il quale, nel 1955, stendendo per "Letteratura" un suo
informatissimo e profetico Parere su un decennio non manco' di segnalare la
tesi di quel suo allievo. Ma l'influsso continiano per Pozzi piu' che per
altri sta, oltre che nella lezione filologica, nel presupposto fondamentale
che il passato e' sempre una costruzione del presente (donde l'inconsueta
capacita' di chi sapeva unire in se', con pari rigore e tensione
intellettuale, gli interessi e le competenze del filologo romanzo con il
talento del critico militante). Pochi anni piu' tardi, nel '60, l'edizione
delle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino, curata da Pozzi, veniva
ospitata nella "Nuova raccolta di classici italiani", che Contini dirigeva
per Einaudi. Qui le splendide pagine introduttive sono, anche a livello di
scrittura, il miglior documento del fertile rapporto con il maestro.
Intanto, nel semestre invernale del '48-'49 era arrivato a Friburgo, sulla
cattedra vacante di letteratura italiana, Giuseppe Billanovich, impegnato,
dopo gli studi sul Folengo, a ritrovare la continuita' della cultura
classica, attraverso i Padri della Chiesa, fino alla fondazione di un
Umanesimo cristiano. La lezione di Billanovich, in coppia con Contini,
rimase memorabile per Pozzi, coinvolto in due ricerche capitali: la raccolta
dei Poeti del Duecento e l'esplorazione della biblioteca del Petrarca e del
suo circolo, che doveva presto attrarlo verso testi e problemi del
Quattro-Cinquecento neolatini. Si iscrivono in questo ordine di lavori
l'edizione dell'Hypnerotomachia Poliphili, romanzo allegorico ed erudito
scritto in un volgare violentemente latineggiante, stampata nel 1964, con un
secondo volume di commento, che faceva seguito a due altri del '59 dedicati
ai casi della vita e al catalogo delle opere del frate domenicano Francesco
Colonna, di cui si sostiene la paternita' dell'opera; e le Castigationes
Plinianae di Ermolao Barbaro, uno dei maggiori antiquari veneti del
Cinquecento (altri quattro volumi, apparsi tra il '73 e il '79). A queste
imprese fuori dell'ordinario padre Pozzi seppe aggregare la passione e
l'operosita' dei suoi allievi migliori, cosi' come gli avvenne, nel '76, per
l'edizione e il commento dell'Adone, capolavoro del Marino e del Seicento
europeo.
Sia il Polifilo che il Marino richiedono al loro cultore una competenza
figurativa (che in Pozzi si alimentava anche di una antica passione per
l'arte). Al versante della parola e insieme a quello della figura guardano
alcuni dei suoi libri successivi, La rosa in mano al professore (storia del
tema della rosa e dell'ottava da Lorenzo il Magnifico fino al Marino) e Rose
e gigli per Maria (che ha per sottotitolo Un'antifona dipinta).
Ma a conquistargli un pubblico internazionale di qualificati lettori sono
valsi, per ricchezza di sapere e per originalita', soprattutto, La parola
dipinta del 1981, edito da Adelphi come pure le due ponderose raccolte di
saggi, Sull'orlo del visibile parlare e Alternatim (1993 e 1996).
L'opera indefessa di Pozzi annovera anche una ricchissima produzione piu'
strettamente connessa con la sua religiosita' e con la sua piccola patria,
come, solo per qualche esempio, il bellissimo Come pregava la gente, gli
studi degli ex voto del Canton Ticino, Grammatica e retorica dei Santi, la
miscellanea da lui gestita sul Santuario della Madonna del Sasso di Locarno,
o il volume Ad uso di, singolare ricerca sulle firme di possesso dei libri
delle Biblioteche conventuali ticinesi, da cui emerge la diffusione nel
Settecento delle idee giansenistiche.
Opera prodigiosa, la sua, che evoca i nomi di atleti della cultura quali
furono il Muratori o il Moscati. E che oggi con la sua scomparsa acuisce il
nostro rimpianto.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 166 del primo giugno 2008

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