La nonviolenza e' in cammino. 1018



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1018 del 10 agosto 2005

Sommario di questo numero:
1. Da Aviano per la messa al bando delle armi nucleari
2. Enrico Peyretti: Al bando le armi nucleari
3. Maria G. Di Rienzo: Notizie
4. Leonardo Boff: Il dilemma di Lula
5. Marina Graziosi: Infirmitas sexus. La donna nell'immaginario penalistico
(parte terza)
6. Riletture: Margarete Buber Neumann, Da Potsdam a Mosca
7. Riletture: Margarete Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e Hitler
8. Riletture: Margarete Buber-Neumann, Milena, l'amica di Kafka
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. INIZIATIVE. DA AVIANO PER LA MESSA AL BANDO DELLE ARMI NUCLEARI
[Da Mariagrazia Bonollo, dell'ufficio stampa di "Beati i costruttori di
pace" (per contatti: tel. 0445812321, cell. 3482202662, e-mail:
salbega at interfree.it) riceviamo e diffondiamo]

Aviano, 9 agosto 2005. Si e' chiusa stamane ad Aviano la "cinque giorni" di
iniziative voluta da "Beati i costruttori di pace" per chiedere, nel
sessantesimo anniversario delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, la
messa al bando delle armi nucleari.
Davanti ai cancelli della Base Usaf di Aviano oggi alle undici circa 200
persone hanno ricordato alle 11,02, in un silenzio interrotto solo dai
rintocchi di una campana, lo sgancio della seconda bomba atomica sulla
citta' di Nagasaki. Dopo la testimonianza di Seiko Ikeda, sopravvissuta alla
prima esplosione atomica, e' stato effettuato un collegamento telefonico
proprio con la citta' di Nagasaki, dove si trovavano il sindaco di Udine e
il sacerdote friulano don Pierluigi Piazza, che ha riaffermato la necessita'
della memoria. Alla commemorazione davanti ai cancelli della base erano
presenti anche sei rappresentanti di enti locali con i loro gonfaloni.
All'iniziativa, organizzata da Beati i costruttori di pace, hanno aderito il
coordinamento Veneto e Friuli Venezia Giulia di Emergency, le Acli di
Pordenone, la Tavola della pace e il Coordinamento enti Locali per la pace
della regione Friuli Venezia Giulia, nonche' l'assessore alla cultura e alle
politiche di pace della Regione Friuli Venezia Giulia, Roberto Antonaz, che
proprio ieri a Padova aveva confermato l'impegno dalla Regione Friuli
Venezia Giulia per una fattiva politica di pace, orientata al disarmo
nucleare sul proprio territorio.
"L'impegno degli Enti locali per il disarmo nei propri territori e' stata la
felice sopresa di questi giorni" commenta il presidente di Beati i
costruttori di pace, don Albino Bizzotto.
Infatti le iniziative di Ghedi, Padova e Aviano - tutte molto partecipate e
riuscite, a parte il concerto dell'Orchestra di Piazza Vittorio rinviato per
maltempo - hanno visto in prima fila non solo gruppi e associazioni, ma
anche tanti enti locali. A partire dal Comune di Padova, che ha voluto
patrocinare gli appuntamenti che si sono tenuti a Padova, e da quelli
bresciani toccati direttamente dalla base aerea di Ghedi, che ospita 40
bombe atomiche pronte all'uso. Davanti all'aeroporto militare bresciano ha
voluto essere presente con il proprio gonfalone anche il Comune di Firenze.
"Come e' avvenuto con l'obiezione di coscienza dei singoli nei confronti del
servizio militare - riflette don Bizzotto - cosi' credo si apra adesso una
stagione nella quale anche i responsabili di enti locali, di fronte a
illegalita' gravi e permanenti degli Stati che costituiscono minaccia per le
loro popolazioni e territori e per gli altri popoli, dovranno scegliere la
strada dell'obiezione di coscienza istituzionale. Non ha senso garantire la
sicurezza e la legalita' a livello locale rimanendo senza alcuna
possibilita' di decidere sull'insicurezza totale e la violenza estrema che
pongono le bombe atomiche su un territorio".
Fra le adesioni giunte a queste iniziative, vanno ricordate anche quelle dei
presidenti delle Regioni Trentino Alto Adige, Toscana, Piemonte e Lazio;
dell'assessore alla cooperazione, al perdono e alla riconciliazione dei
popoli della Regione Toscana; delle Province di Milano e Cremona, del
presidente della Provincia di Macerata e degli assessori alla pace delle
Province di Gorizia e Biella; dei Comuni di Padova, Firenze, Ghedi,
Castenedolo, Montirone, Borgosatollo, Calcinato, Gallio, Fiorano Modenese,
Solesino, Fiesole, Trebaseleghe, Trezzo sull'Adda, Piove di Sacco,
Montebelluna, Curatrolo, Quarrata e Meolo; dei sindaci di Agrate Brianza e
Alpignano, della Consulta della pace del Comune di Brescia e del
Coordinamento nazionale enti locali per la pace e i diritti umani; nonche'
di 45 realta' della societa' civile organizzata.

2. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: AL BANDO LE ARMI NUCLEARI
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per averci
messo a disposizione gli appunti alla base del suo intervento al convegno
"Mettere al bando le armi nucleari" svoltosi a Padova lunedi 8 agosto
nell'ambito delle iniziative promosse da "Beati i costruttori di pace" nel
sessantesimo anniversario di Hiroshima e Nagasaki. Enrico Peyretti e' uno
dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu'
nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue
opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989;
Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace,
Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999;
Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e'
disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica
Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e
nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al
libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro
di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recente
edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi
interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla
pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu'
ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731
del 15 novembre 2003 di questo notiziario]

Il problema maggiore, riguardo alle armi nucleari, non e' tanto di chi vuole
averle, quanto di chi le ha, le ha usate, non le distrugge, non rispetta il
Trattato di non proliferazione del 1970 (in sigla: Tnp).
Gli "stati canaglia" sono tutti quelli che prevedono la morte-data come come
uno degli strumenti della politica.
La politica e' l'arte del vivere e del con-vivere, non dell'uccidere. La
guerra, l'uccidere istituzionale, e' l'anti-citta', l'anti-politica. La
politica e' pace, o non e' politica.
Come dice qui Massimo Toschi, l'uso voluto, programmato e procurato di
vittime, contro qualche avversario, e' la negazione della politica, prima
ancora che della pace.
Tutte le armi sono di distruzione. Pesa la differenza quantitativa e
sensibile tra uccidere uno e uccidere mille. Ma non c'e' differenza
qualitativa. Qui si e' ricordato il detto comune alla tradizione ebraica e
islamica: "Chi uccide una vita uccide l'umanita', chi salva una vita salva
l'umanita'", che e' scritta anche qui fuori, nel Municipio di Padova, sotto
la lapide in onore di Giorgio Perlasca. Uccidere una vita e' tutta la
"massa" possibile, per quella vita. Se e' lecito uccidere uno, e' lecito
uccidere tutti. Per non uccidere tutti, bisogna non uccidere neppure uno.
Siamo contro le armi nucleari, certamente, ma altrettanto contro le armi
leggere, dal kalashnikov al machete, che fanno ancora piu' vittime, e sono
le vere armi di distruzione di massa.
Hiroshima non e' una "esagerazione" nella guerra: e' la "rivelazione" di
cio' che la guerra e' sempre stata dal suo inizio storico, come istituzione
nella citta'-stato, nel crescendo della violenza legalizzata, che si
dimostra incontenibile, una volta che e' avviata.
Se la guerra e' l'antipolitica, vogliamo la riaffermazione integra dell'art.
11 della Costituzione italiana come primo punto di una programma politico
che possa meritare il voto.
L'art. 11 non ripudia solo la guerra di offesa, ma la guerra come "mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali", percio', in linea con la
Carta dell'Onu, condanna la guerra come tale, e impegna a procedere verso il
superamento anche della difesa militare, che e' dare la morte, vivere di
morte, che non e' vivere.
E' possibile la "difesa senza guerra" (abbondante bibliografia storica nel
sito http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti). In Italia e'
chiamata Difesa Popolare Nonviolenta, in Europa c'e' ancora la proposta di
Alex Langer dei Corpi Civili di Pace.
*
La nonviolenza - idea non privativa, ma positiva e attiva, percio' da
scrivere in parola unica - e' assai piu' del pacifismo. Il pacifismo ripudia
la guerra, ma la guerra e' soltanto la forma piu' vistosa e ripugnante di
violenza. Almeno altre due forme sono meno visibili, piu' accettate e
subite, e ben piu' gravi. Si tratta della violenza strutturale (nelle leggi,
nelle economie) e della violenza culturale (per esempio l'idea di
superiorita' di alcune culture, di "civilta'" e forme politiche da imporre
agli altri, il razzismo di certi giornalisti e di certi partiti).
La violenza delle idee, incarnata in strutture, e' causa e giustificazione
della violenza bellica. Il pacifismo coerente e' ottima cosa, ma rimane in
superficie se non diventa cultura e azione nonviolenta. Percio' e'
necessario che tutte le associazioni e movimenti pacifisti italiani sappiano
arrivare, conservando ciascuno le sua caratteristiche, a formare una
federazione nonviolenta nazionale, per esigere e imprimere nella politica il
ripudio attivo di ogni violenza e la qualificazione nonviolenta dell'agire
politico.
Certo, la nonviolenza intera, diceva Gandhi, e' come la retta di Euclide, ma
cio' che conta nei fatti e' il movimento tenace che riduca ogni forma di
violenza,  tendenzialmente a zero, e sviluppi al massimo la cultura e
l'etica nonviolenta, la smascheratura delle strutture violente, e le
tecniche nonviolente e costruttive nella gestione dei conflitti.
*
Percio', nostro obiettivo e volonta' politica non puo' essere altro - in
nome del realismo politico - che l'abolizione (o totale riconversione) degli
eserciti.
Sappiamo che cio' non e' attuabile ora, a causa delle culture politiche, sia
a destra che a sinistra, ancora quasi totalmente, con poche preziose
eccezioni, legate al mito irreale della guerra, e a causa dell'insufficiente
cultura popolare di pace.
Alcune linee politiche che per altri versi possiamo condividere, ritengono
la guerra, e la capacita' di farla, e la dimostrazione di saperla fare -
vedi la guerra alla Serbia fatta nel '99 dal governo di centro-sinistra -
come un elemento essenziale della capacita' di governo. Ma il matrimonio
politica-guerra va spezzato col ripudio solenne stabilito costituzionalmente
dall'art. 11.
Dunque, cosa possiamo volere oggi dalla politica italiana, in progressione
graduale ma orientata verso il disarmo dell'omicidio e verso la politica del
conflitto nonviolento?
Tre punti, almeno:
1. Una politica di difesa, ancora militare, ma esclusivamente difensiva e
non offensiva. Offensive sono ovviamente le armi nucleari, che l'Italia e'
forzata ad ospitare e anche a detenere in proprio in questa regione; sono le
portaerei, studiate per portare la guerra in casa altrui; sono le spedizioni
militari al servizio degli invasori, come in Iraq. Offensivo e' il concetto
di difesa - difesa dichiarata dei privilegi, non dei diritti - proclamato
nel 1991 nel Nuovo Modello di Difesa e messo in pratica da tutti i governi
succedutisi da allora. Offensivo e' legarsi ad una alleanza, la Nato, dalla
strategia di dominio, espansiva, interventista. Un vero passo verso il
disarmo e' il "transarmo": la trasformazione degli armamenti da offensivi a
strettamente difensivi. Cio' assicura maggiore sicurezza, perche' non
minaccia l'eventuale avversario.
2. Spostare annualmente il 5% del bilancio militare alla alternativa "difesa
non armata e nonviolenta" (Legge 230/1998, art. 8-e). Se non si programma in
termini finanziari e organizzativi la pace come metodo nella gestione dei
conflitti, si resta nell'aria fritta della retorica della pace. Oggi stiamo
andando ancora nel vecchio senso disastroso, tanto in Italia quanto
nell'Unione Europea, la quale dovrebbe scegliere la strada del transarmo e
della neutralita' attiva, disarmata, solidale e nonviolenta (vedi la precisa
proposta di Lidia Menapace). Politicamente, questo significa riduzione
programmata delle spese militari, riconversione dell'industria bellica e
degli eserciti.
La difesa non armata e nonviolenta e' una possibilita' dei popoli, se sono
istruiti e ne prendono coscienza. Ogni potere, anche il piu' violento, ha
bisogno e dipende dall'obbedienza, pur passiva, dei dominati. Un popolo puo'
smontare ogni potere ingiusto con la non-collaborazione coraggiosa, come la
storia dimostra. Cio' puo' comportare anche vittime, ma sempre molte di meno
della difesa armata, richiede sacrifici, ma assai piu' nobili, e evita il
degrado morale che la violenza anche giustificabile sempre comporta. Un
popolo ha diritto ad essere soggetto della propria difesa, e non oggetto da
parte di un corpo separato e extra-democratico come e' un  esercito. Dalle
minacce nucleari o terroristiche esterne ci puo' difendere solo una politica
di amicizia e giustizia verso tutti i popoli, che e' la maggior prevenzione
possibile dell'odio violento suscitato e alimentato da ingiustizie e
bellicismi.
3. Progettare la transizione dall'attuale modello di sviluppo ad alta
intensita' energetica e di potenza, centrato sulle risorse in esaurimento,
prelevate con la guerra, che causano un impatto ambientale insostenibile, a
un modello a bassa potenza, centrato sull'uso di fonti energetiche
rinnovabili, sul risparmio e l'efficienza energetica e su uno stile di vita
e consumi ispirato alla semplicita' volontaria e alla maggior gioia di
vivere che ne deriverebbe. Anche in questo caso, uscire dalla retorica signi
fica programmare la riduzione annuale del 5% dei consumi di combustibili
fossili e l'incremento, nella stessa percentuale, delle fonti alternative.
Il recente lavoro di Hermann Scheer (Il solare e l'economia globale,
Edizioni Ambiente, Milano 2004) e' l'esempio piu' concreto di tale
possibilita'.
Queste tre essenziali proposte sono state inviate a Romano Prodi, leader
dell'Unione, fino dal dicembre 2004.
*
Oggi, qui, il ricordo e la meditazione su Hiroshima e Nagasaki - crimini di
lesa umanita', svolta storica inconfrontabile col tanto enfatizzato 11
settembre, crimine di lesa maesta' - ci impegna a imparare di nuovo che la
politica non puo' uccidere, perche' la violenza e' suicidio. Dare la morte
per vivere e' morire alla qualita' umana.
In Aldo Capitini c'e' il pensiero che la vita senza morte, sperata dalle
religioni, comincia col non uccidere, col non aggiungere la morte
artificiale, industriale, militare, alla morte naturale.
Questo e' l'orizzonte irrinunciabile. Poi, la politica, arte del possibile,
fa i passi che puo'. Ma se non sono passi ben orientati, ben diretti, sono
passi perduti, passi rovinosi.

3. MONDO. MARIA G. DI RIENZO: NOTIZIE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
queste notizie. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di
questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza; e' coautrice dell'importante
libro: Monica Lanfranco, Maria G. Di Rienzo (a cura di), Donne disarmanti,
Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003]

Un gruppo di donne irachene, femministe e leader di vari gruppi della
societa' civile, hanno incontrato l'ambasciatore statunitense il 6 agosto
scorso. Le donne stanno facendo pressione a vari livelli affinche' i diritti
delle donne siano garantiti dalla nascente Costituzione irachena. La bozza
corrente della stessa le priverebbe dell'eguaglianza con gli uomini in molti
campi, dall'eredita' al divorzio, e cancellerebbe diritti che le donne
avevano persino sotto il regime di Saddam Hussein. In sostegno alla loro
azione, senatrici americane democratiche e repubblicane sono intervenute con
una lettera pubblica rispetto al tentativo dei relatori della bozza di
Costituzione di indebolire la norma, prevista dalle leggi transitorie, che
assegna il 25% dei seggi parlamentari alle donne.
*
Dopo la rinuncia di Nawal El Saadawi alla candidatura per le elezioni
presidenziali egiziane del 7 settembre, un'altra donna ci prova: e'
l'avvocata Ashgan Ahmed al-Bukhari.
*
Grazie ad un "telefono amico" per le donne vittime di traffico sessuale,
gestito dall'Organizzazione Internazionale per l'Immigrazione con sede
centrale a Ginevra, un gruppo di donne ucraine tenute in schiavitu' come
prostitute in Turchia sono state liberate il 5 agosto. Una delle donne e'
riuscita ad uscire dalla cantina in cui veniva tenuta segregata con le
altre, ed ha chiamato al telefono la struttura di solidarieta'.
*
Il 3 agosto ragazze e donne australiane di origine libanese si sono
rifugiate nell'ambasciata australiana a Beirut per fuggire da matrimoni
imposti. Erano state portate dall'Australia in Libano e forzate a sposarsi,
dopo di che nessuno dei mariti aveva preso in considerazione le loro
richieste di tornare a casa.

4. RIFLESSIONE. LEONARDO BOFF: IL DILEMMA DI LULA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 agosto 2005.
Leonardo Boff e' nato nel 1938 a Concordia (Brasile). Tra i suoi maestri (ha
studiato in Brasile e in Germania) ha avuto Evaristo Arns, Karl Rahner e
Wolfhart Pannenberg. E' tra le figure piu' rappresentative della teologia
della liberazione. Opere di Leonardo Boff: Teologia della cattivita' e della
liberazione, Queriniana, Brescia; Chiesa: carisma e potere, Borla, Roma; Con
la liberta' del vangelo, La Piccola, Celleno (Vt); La fede nella periferia
del mondo, Quando la teologia ascolta il povero, Cinquecento anni di
evangelizzazione, Ecologia, mondialita', mistica, Grido della terra, grido
dei poveri per un'ecologia cosmica, Come fare teologia della liberazione (in
collaborazione con il fratello Clodovis Boff), Selezione di testi
spirituali, Selezione di testi militanti, tutti presso la Cittadella di
Assisi (che ha pubblicato anche altri volumi di Boff). Opere su Leonardo
Boff: AA. VV., Il caso Boff, Emi.
Luis Inacio Lula da Silva, operaio, sindacalista, prigioniero politico sotto
la dittatura, leader del Partito dei Lavoratori (Pt), e' attualmente
presidente del Brasile]

Sono ormai trascorsi due anni e mezzo di governo del presidente Lula da
Silva ed e' possibile fare un primo bilancio della sua amministrazione. In
questo momento settori della dirigenza del partito al governo (Pt, Partido
dos Trabalhadores) sono coinvolti in gravi accuse di corruzione. Non si
tratta della solita corruzione della classe politica che si arricchisce da
sola manipolando i meccanismi dello Stato e delle grandi imprese statali.
Questa corruzione non punta a beneficiare personalmente i politici, bensi'
ad accumulare fondi per future campagne elettorali e, come si suol dire, a
occupare tutto l'apparato dello Stato per perpetuare il Pt al potere almeno
per vent'anni (si parla di messicanizzazione dello Stato). Cosi' si pretende
di inaugurare un altro stile di politica e di dare allo Stato un volto piu'
sociale e rivolto ai milioni di diseredati della societa'.
I buoni fini non giustificano i mezzi cattivi. La corruzione e' sempre
anti-etica e non si giustifica mai. In questo contesto l'opposizione tenta
di coinvolgere la figura del presidente, ma finora non c'e' riuscita.
Crisi congiunturale a parte, bisogna ricordare sommariamente cosa significa
un governo di sinistra in Brasile. L'arrivo di Lula al potere coincide con
la crisi del modello neoliberista. Lula eredita dal suo predecessore F. H.
Cardoso una grave crisi economica, con un esaurimento quasi totale delle
riserve monetarie e una minaccia reale di inflazione generalizzata. Come
diceva Lula: "Ho ereditato un Titanic che stava affondando e il mio primo
compito e' stato quello di blindarlo per evitare il caos economico e avere
poi la possibilita' di mantenere la mia promessa elettorale di socializzare
il potere con la crescita sostenibile, la partecipazione sociale e la
ridistribuzione della ricchezza".
Per realizzare questo audace programma ci vuole una tappa di transizione.
Questo concetto e' fondamentale se vogliamo essere giusti con il governo di
Lula e capire il senso delle sue politiche economiche e sociali. Come in
ogni transizione, c'e' una parte di continuita' e un'altra di innovazione.
Transizione da dove? Verso dove? Da uno Stato neoliberista, altamente
accentratore e senza politiche pubbliche consistenti, verso uno Stato
sociale, cioe', uno Stato che si ripropone di conferire centralita' al
sociale, creare simmetria fra diritti e doveri, incentivare in tutto il
Paese l'ideale civico della cittadinanza attiva e di una democrazia
partecipativa.
*
Per realizzare questo progetto il governo Lula si e' imposto la seguente
strategia: sul piano della continuita', mantenere inalterato il progetto
macro-economico neo-liberista e anzi radicalizzarlo con un surplus primario
del bilancio federale ancora piu' alto del precedente (4,75% del Pil); sul
piano dell'innovazione, inaugurare una politica sociale basata sui progetti
Fame Zero e la Borsa Famiglia.
Con la continuita' del progetto macro-economico il governo e' riuscito a
calmare i mercati e a guadagnarsi gli applausi del Fmi e della Banca
mondiale, ha potuto controllare in modo significativo l'inflazione e
garantire la stabilita' monetaria. Con l'innovazione sociale ha beneficiato
circa sette milioni di famiglie, il che vuol dire circa 30 milioni di
persone. Per queste moltitudini che prima mangiavano a malapena e vivevano
in grande miseria, questa politica pubblica ha significato una specie di
ingresso nel paradiso terrestre possibile.
Dove sta il problema fondamentale di questa strategia di transizione da uno
Stato neoliberista verso uno Stato sociale? Nell'immensa sproporzione fra le
parti. La parte del leone spetta al progetto macro-economico, che cede al
sistema economico-finanziario circa 10 miliardi di dollari mensili sotto
forma di pagamento dei tassi d'interesse, lasciando solo un miliardo per i
progetti sociali.
La domanda da porsi e': con questa ingegneria politico-sociale si puo'
realizzare una transizione che raggiunga l'obiettivo di rendere lo Stato
meno elitario, creare una crescita sostenibile con inclusione sociale e
ridistribuzione della ricchezza? Giorno dopo giorno cresce la convinzione
che questa politica economica sia inadeguata per la politica sociale.
Piovono critiche e c'e' delusione nei movimenti sociali. Lula e' cosciente
di questa sproporzione, si sente schiacciato e chiamato urgentemente a
decidere.
*
Che cosa fara'? Mettera' l'accento sul progetto macro-economico
neo-liberista o sul progetto social-popolare? Se opta per il progetto
macro-economico dovra' sacrificare massicciamente il progetto sociale. E se
opta per il progetto sociale dovra' cambiare sostanzialmente il progetto
macro-economico.
Ciascuna opzione avra' conseguenze non meno gravi dell'altra: o la
mobilitazione per le strade di migliaia e migliaia di persone dei movimenti
sociali per reclamare piu' politiche pubbliche, o le pressioni del mercato e
del sistema economico-finanziario capaci di produrre una grave
destabilizzazione economica.
In questo momento e' difficile sapere la direzione che prendera' Lula.
Forse, data la gravita' della crisi politica a causa della corruzione che
getta l'ombra del sospetto su settori importanti del suo partito, decidera'
di avvicinarsi di piu' alla sua base di appoggio sociale e assecondera' le
sue richieste di cambiamento nell'ambito economico.I prossimi mesi saranno
decisivi per Lula, anche per la prospettiva di rielezione alla fine del 2006
a cui aspira ardentemente.

5. STUDI. MARINA GRAZIOSI: INFIRMITAS SEXUS. LA DONNA NELL'IMMAGINARIO
PENALISTICO (PARTE TERZA)
[Dal sito di "Jura gentium. Centro di filosofia del diritto internazionale e
della politica globale" (http://dex1.tsd.unifi.it/juragentium/it/)
riprendiamo il seguente saggio originariamente pubblicato in "Democrazia e
diritto", n. 2, 1993, pp. 99-143 (vi e' anche una traduzione spagnola - di
Mary Beloff e Christian Courtis -: Infirmitas sexus. La mujer en el
imaginario penal, in "Nueva Doctrina Penal", 1999/A, pp. 55-95; ristampata
in A. E. C. Ruiz (a cura di), Identidad femenina y discurso juridico,
Editorial Biblos, Buenos Aires 2000, pp. 135-17. Marina Graziosi insegna
sociologia del diritto all'Universita' "La Sapienza" di Roma, fa parte delle
esperienze di "Balena" e di "Antigone"]

4. L'internamento delle donne
Le differenze di trattamento delle donne nell'esecuzione penale riguardano
naturalmente la pena carceraria, la sua nascita e la sua trasformazione.
Mentre per gli uomini il carcere sembra configurarsi rapidamente, alle
origini della modernita' penale, come luogo di esecuzione di pena, per le
donne la pratica della reclusione ha sempre funzioni non solo punitive ma
anche di generico controllo sociale.
La nascita del carcere in senso moderno e', come e' noto, fortemente
intrecciata alla metamorfosi di quelle importanti strutture di internamento
per i poveri, per i mendicanti e per i vagabondi, che nel corso del Seicento
e del Settecento furono istituite un po' dovunque in Europa. E' infatti in
quest'epoca che si sviluppa - dapprima in forme arbitrarie e poi sulla base
delle prime severissime, se non sempre efficienti, leggi in tema di poverta'
e di vagabondaggio - un imponente fenomeno di internamento di strati sociali
emarginati, ambiguamente collocabile tra assistenza, beneficenza e
repressione.
L'ambiguita' del luogo di internamento che nel caso del recluso maschio vede
definito con un processo abbastanza rapido il suo connotato di carcere come
luogo di pena, o alternativamente di ospedale o di ricovero temporaneo,
sembra sia stata per i minori, e in modo assai piu' evidente e rilevante per
le donne, mantenuta piu' a lungo nel tempo. Se il carcere, come luogo di
espiazione di una pena, o come mezzo di emendare un condannato, ha ben
presto avuto alle spalle come antecedente la commissione di un vero e
proprio reato e la relativa condanna, e non un semplice comportamento
deviato, cio' e' accaduto prevalentemente per gli uomini adulti. Per cio'
che riguarda le donne, e talvolta i minori, la storia del carcere ha infatti
tempi diversi. La confusione tra funzioni penali e funzioni disciplinari
dell'internamento carcerario, del resto, non solo si protrae piu' a lungo
per le donne ma e' anche piu' risalente nel tempo.
E' la peculiarita' della devianza delle donne, stigmatizzate prevalentemente
per reati assai frequentemente attinenti alla sfera sessuale, che
contribuisce a mantenere una sorta di continuita' tra il carcere e le
istituzioni internanti concepite a salvaguardia dell'onore, o della salute
dell'anima e del corpo. Spesso sono gli stessi luoghi che, da ricovero
volontario, ritiro, conservatorio od ospedale, attraverso le razionalizzanti
sistemazioni settecentesche fino alle ristrutturazioni nel corso
dell'Ottocento, si trasformano in carcere.
Per le donne un massiccio internamento preventivo fu praticato a lungo e in
varie forme in eta' moderna, da un lato nei conventi, dall'altro in quelle
istituzioni di protezione come i conservatori cui si accedeva normalmente
nella prima infanzia o nell'adolescenza, quando i pericoli di "caduta"
divenivano incombenti, e non necessariamente in seguito ad una mancanza o ad
una infrazione alle regole ma per questioni prevalentemente di sussistenza.
Gli stessi conservatori, anche nel corso dell'Ottocento e in epoca
postunitaria, mantennero a lungo questa funzione preventiva, anche se, per
ognuno di essi, erano previste importanti distinzioni che ne determinavano
le caratteristiche e ne orientavano le funzioni di controllo sociale, in
base all'origine e agli intenti per i quali erano stati fondati.
Sulla base di un'articolata gerarchia si prevedeva da un lato l'internamento
di donne vedove o orfane di condizione "civile" o aristocratica il cui onore
era garantito dal loro stesso nome, e che tuttavia avevano bisogno di un
ricovero; dall'altro lato quello di donne di condizione subalterna, oneste
da distinguere dalle "pericolanti", dalle "pericolate" e ancora dalle
ravvedute o pentite (50).
L'ingresso nei conservatori avveniva spesso a seguito di una "supplica" che
gli stessi genitori della fanciulla, o un tutore, o adulti comunque
responsabili per lei, o la fanciulla stessa indirizzavano, spesso appoggiati
da qualche eminente protettore, a chi sovrintendeva alla pia istituzione.
Ancora diversa la situazione delle opere pie che accoglievano donne il cui
onore era gia' compromesso, prostitute pentite, convertite, donne "cadute di
fresco ma non esposte al pubblico", "quelle che sono in pericolo prossimo di
cadere o in sospetto di gia' seguita caduta" (51). E ancora perfino donne
riottose all'autorita' familiare e per questo fatte internare spesso su
istanza di mariti, o di fratelli, o di sindaci e parroci (52).
Talvolta le domande di internamento a scopo di riabilitazione potevano
pervenire anche da luoghi in cui e' piu' chiaro il carattere carcerario:
cosi' ad esempio, come scrive Laura Guidi, le domande per essere ammesse
all'asilo napoletano di Santa Maria Maddalena (fondato nel 1852) per donne
pentite che aveva una funzione di recupero e di riabilitazione, "provenivano
in parte dalla 'sala di correzione' dell'ospedale di Santa Maria della Fede,
fondato dai francesi per prostitute affette da mali venerei. Le suore
addette alla sorveglianza operavano una selezione, scegliendo le ragazze
piu' giovani - spesso appena entrate nell'adolescenza - e quelle che davano
maggiori segni di pentimento" (53). Inoltre, "tra le donne dall'onore in
pericolo o perduto si tendeva a separare quelle recuperabili ad una poverta'
onesta e laboriosa da altre per le quali si presentava, prima ancora del
problema del recupero, quello del controllo, appena un gradino al di sopra
dei provvedimenti di polizia e della reclusione in carcere. Dai luoghi di
pena, d'altra parte, si accedeva, per premio, ai conservatori per pentite e
pericolate, cosi' come nelle carceri venivano trasferite, per punizione, le
internate dei luoghi pii che si fossero macchiate di gravi colpe" (54).
Tra le prime a sollevare in Italia il problema delle carceri femminili e' la
marchesa Giulia Falletti di Barolo Colbert, che a partire dal 1814,
sollecitata dall'esempio dell'inglese Elizabeth Fry che nel 1813 aveva
visitato il carcere di Newgate (55) denunciandone le terribili condizioni,
comincia un'opera infaticabile di carita'. Non sono solo le condizioni
materiali, pure terribili, a preoccuparla, ma ancor piu' lo stato di miseria
morale che rende queste donne, secondo le sue parole, delle malate
nell'anima cui dovrebbe darsi un sano nutrimento spirituale. Con queste
idee, la marchesa di Barolo Colbert si faceva promotrice di una serie di
iniziative benefiche e assistenziali, assai apprezzate dai suoi
contemporanei: tra cui la riorganizzazione del carcere delle Forzate, che
essa trasformo' in un istituto di pena modello, introducendovi le suore e
discutendone l'intero regolamento con le detenute; l'apertura a Borgo Dora
nel marzo 1823, su sua proposta accolta dal re Carlo Felice, di una casa di
lavoro e ricovero per donne distintesi in prigione per buona condotta o per
donne "coupables" che fuori della prigione avessero dato segni di
pentimento; l'istituzione nel 1833 del monastero delle Maddalene, destinato
ad accogliere, in clausura, donne convertite e penitenti (56). Come e'
ovvio, e' proprio in luoghi come questi che il confine tra funzioni penali e
disciplinari dell'internamento non esiste. E che si ribadisce,
soprattutto,la funzione moralizzatrice della reclusione femminile.
*
5. Reclusione e separazione
Negli anni '30 e '40 dell'Ottocento si apre e si diffonde anche in Italia,
un largo dibattito su come trasformare e migliorare il carcere.
Partendo dalla constatazione che ovunque il carcere e' un luogo malsano dove
regnano la promiscuita', la violenza e la sopraffazione, la discussione, che
dara' luogo ad un'ampia pubblicistica sull'argomento, verte - anche sulla
base delle esperienze americane, divulgate in Europa dal rapporto di G. de
Beaumont e A. de Toqueville del 1833 (57) - sul problema della sorveglianza
e dell'isolamento dei detenuti. Si ritiene infatti che l'isolamento e i modi
della sua realizzazione, contribuiscano in modo essenziale al pentimento e
alla trasformazione morale del reo. Come praticare l'isolamento e la
separazione e i modi e i tempi di attuazione di questi, e' solo una
questione di metodo, da attuare attraverso una minuziosa classificazione dei
diversi tipi di reclusi selezionati sulla base dell'eta', del reato
commesso, del tipo di pena che essi devono scontare. Tutti questi dati -
insieme a quello importantissimo del comportamento tenuto in carcere, che
puo' dar luogo a premi o a punizioni - contribuiscono alla determinazione di
una sorta di punteggio che costituisce appunto la base della
classificazione.
Anche per le donne, il criterio cui gli studiosi-riformatori del primo
Ottocento sembrano volersi ad ogni costo informare, e' quello della
separazione. Tuttavia, quello che sembra essere il criterio guida per
l'isolamento e la classificazione delle donne, riguarda questioni
strettamente connesse alla specificita' del sesso femminile. In primo luogo
le donne devono essere separate dagli uomini eventualmente rinchiusi in
parti diverse dello stesso carcere, per evitare qualsiasi contatto; in
secondo luogo esse devono essere protette dagli abusi sessuali che possono
essere commessi da guardiani e percio' preferibilmente affidate ad altre
donne. In terzo luogo infine, la classificazione comprende, di fatto, solo
due categorie di recluse, poiche' sono le meretrici, le donne di cattiva
fama, che devono essere separate dalle altre qualsiasi reato abbiano
commesso. Un punto importante poi e' quello che riguarda il destino dei
figli delle detenute: in generale se ne prevede, ove non sia possibile la
consegna a parenti prossimi, l'affidamento a quelle istituzioni che si
occupano di fanciulli abbandonati, raramente si ipotizza che possano restare
fino a una certa eta' con la madre.
Anche uno dei piu' importanti studiosi di quegli anni - l'ispiratore delle
riforme di Carlo Alberto di Savoia in materia penitenziaria - Carlo Ilarione
Petitti di Roreto, propone come criterio base della reclusione femminile la
separazione e l'affidamento delle detenute ad altre donne, sottoposte
comunque alla supervisione un direttore di sesso maschile. Il suo lavoro
principale, il trattato Della condizione attuale delle carceri e dei mezzi
per migliorarla, pubblicato a Torino nel 1840, e' uno dei primi
significativi saggi apparsi in Italia in materia penitenziaria. Ma l'opera
di Petitti non si limita a questo e ad altri scritti. Egli e' anche
fortemente coinvolto dagli aspetti piu' concreti del problema; infatti
compira', su incarico del sovrano, una serie di ispezioni nelle carceri del
regno in vista delle riforme, partecipando, in seguito, ai numerosi progetti
di miglioramento e di razionalizzazione del sistema penitenziario sabaudo.
L'importanza delle riforme di Carlo Alberto non e' tanto nei risultati che
verranno ottenuti, quanto piuttosto nel fatto che esse costituiranno una
sorta di primo nucleo da cui avranno origine le linee portanti del futuro
sistema italiano (58).
La presenza delle donne in carcere, anche se minoritaria, non e' ignorata da
Petitti, che anzi dedichera' alla gestione del carcere femminile numerose
pagine. Una preliminare e non marginale preoccupazione anche di questo
riformatore, e' quella della separazione delle femmine dai maschi, siano
essi custodi o detenuti, la cui continua raccomandazione ci segnala
utilmente situazioni di fatto, altrimenti di non facile ricostruzione. Non
e' chiaro tuttavia se la ratio dell'autore sia la tutela delle recluse dagli
abusi sessuali, o un generico criterio di buon costume. Egli scrive infatti:
"Nelle carceri esclusivamente destinate poi alle donne condannate osservasi
ancora, che talvolta i custodi o guardiani maschi sono troppo liberi nelle
relazioni loro con esse" (59). Inoltre, "In molte carceri di primo arresto o
di deposito sono necessariamente sostenuti individui dei due sessi.
Quantunque si tengano in stanze separate, o sia per trascuranza dei custodi,
o sia per la viziosa distribuzione interna de' casamenti, la separazione non
si puo' dire assoluta e frequentemente ne seguono indirette relazioni
nocevoli in sommo grado ai costumi. Di fatto le finestre prospicienti, i
corridoi comuni, le camere attigue, o non separate in modo che riesca
impossibile il passaggio della voce, de' suoni e dei segni; le corti
praticate alternativamente, la vista in esse, dalle finestre dei rispettivi
quartieri, dei ditenuti d'altro sesso; la cappella comune o da insufficienti
separazioni divisa, sono tanti inconvenienti frequentissimi, che scorgonsi
nelle carceri, dai quali inconvenienti derivano atti di scostumatezza troppo
facili ad immaginarsi" (60). Altro problema e' quello della separazione tra
recluse, in particolare delle giovani dalle anziane, ma soprattutto dalle
donne di malaffare. Una soluzione, per non confondere le giovani con donne
corrotte, e' per Petitti la creazione di "Ergastoli per femmine di mal
affare" collegati con l'"ospizio celtico". "Gli ergastoli per femmine di mal
affare debbono essere collocati in vicinanza delle grandi citta', ove
sogliono per lo piu' convenire molte di quelle disgraziate. Siccome la
salute di esse spesso e' travagliata dai mali che derivano da una vita
dissoluta, e' savio ed opportuno consiglio quello di aggregare ai detti
istituti di penitenza un ospizio celtico, onde curarvi le infette. I due
istituti pero' vogliono essere interamente distinti, perche' le regole
correttive dell'uno per molti rispetti non sarebbero applicabili all'altro,
atteso che l'umanita' languente richiede maggiori riguardi. La direzione e
l'amministrazione puo' essere tuttavia cumulata, con che da chi vi presiede
si osservino rispettivamente le diverse discipline stabilite. Nell'ergastolo
sono praticabili tutte le regole delle carceri correttive femminili, colla
sola eccezione, che il tempo della ditenzione vuol essere in certo modo
lasciato all'arbitrio della direttrice, la quale scorgendo segni di
ravvedimento, e mezzi d'onesto collocamento, debbe poter mettere in liberta'
con annuenza della superiore autorita' politica. Nell'ospizio celtico le
regole della segregazione, del silenzio, del lavoro e simili non possono
praticarsi, e debbono piuttosto prevalere le norme di vita comune usate
negli spedali.
D'altronde in quest'ospizio possono anche accogliersi, pero' in quartieri
separati, donne o fanciulle, che non siano di mala vita, e solo trovinsi
infette non per propria colpa, si' che sarebbe men conveniente che quel
ricovero avesse aspetto, e nome di casa di penitenza. E' inutile ripetere,
che la stessa esclusione de' maschi debbe aver luogo per tali istituti,
eccetto il direttore, il cappellano ed il chirurgo" (61).
Egli si soffermera' ancora sul problema delle guardiane ed esporra' la sua
tesi favorevole all'affidamento delle carceri femminili a delle donne. Per
le carceri a cui sono destinate delle condannate Petitti suggerisce infatti
che: "La direzione interna vuol essere affidata a matrone o suore di
Carita', provette e bene esperte onde conoscano i femminili raggiri, con
esclusione assoluta di qualsiasi maschio dalla custodia ed ingerenza nella
disciplina interna. Un direttore maschio pero', uomo provetto ed esperto,
quanto prudente, castigato e severo, debbe soprantendere al governo della
casa, concertandosi colla matrona o suora direttrice per ogni atto d'interna
disciplina e d'amministrazione, di cui dara' conto alla direzione centrale.
L'alloggio del direttore vuol essere separato dalla carcere, ed al suo
ingresso in essa egli debb'essere accompagnato sempre dalla direttrice, o da
altra persona del sesso di questa, incaricata di supplirla.
Per gli atti coattivi che fossero necessari verso le ditenute proterve,
oltre alle matrone o suore incaricate della custodia e vigilanza, si
dovranno avere alcune serve robuste, le quali sieno in grado di praticare
tali atti, senza che occorra chiamare alcun maschio, tranne il caso di
aperta ribellione, in cui si chiamera' la guardia esterna della milizia.
Questa debb'essere stanziata in modo da non avere la menoma relazione di
vista o di parole colle ditenute" (62). Analogamente per le minorenni si
prevedono "Le stesse norme esposte nell'articolo precedente (regole pe'
giovani inquisiti)... se non che si debbe avvertire, ch'esse voglionsi
affidare alla continua custodia di matrone o di suore di Carita', le quali
impieghino quel tempo di preventiva reclusione a cercare di volgerle ad
abiti migliori di vita. L'ingresso in quelle case di arresto vuol essere
vietato ai maschi, e lo stesso direttore della carcere non debbe avere
facolta' d'entrarvi, che accompagnato dalle dette matrone o suore: dicasi
altrettanto degli ispettori" (63).
Il problema della separazione delle donne a tutela della "moralita'
sessuale" tuttavia non e' nuovo. Esso sembra infatti aver sempre assillato
l'organizzazione della reclusione carceraria femminile. Scrive per esempio
Priori, Pratica criminale, (Venezia 1678): "Le donne prigionate siano tenute
separate da gli huomini o pure con altre donne o in altro luogo, parlando de
le donne honeste et in casi gravi, et non se fossero impudiche... et
guardisi il Custode in pena della vita di usare con esse carnalmente non
dovendosi far ingiuria al loco publico, etiam che le fossero meretrici"
(64). Analogamente, un secolo prima, Paulus Ghirlandus raccomandava: "Mulier
honesta in causis criminalibus, si crimen sit leve, vel de non atrocioribus,
non debet personaliter detineri, neque incarcerari, sed fideiussoribus
relaxari, si habet facultatem fideiubendi... si vero non haberet
fideiussorem, similiter non detinetur, sed statur suae iuratoriae cautioni
et relaxari. Si autem crimen esset de atrocioribus, tunc non incarceratur
apud viros, sed intruditur in monasterium vel assisterium custodienda, vel
apud honestas matronas conservatur" (65). E ancora nel 1931, a proposito del
diritto vigente, scriveva Vincenzo Manzini: "Le donne, anche quando non
subiscono l'isolamento continuo, devono essere custodite separatamente dai
maschi... e quelle di 'facili costumi' sono separate dalle altre" (66).
In epoca postunitaria emerse non solo la necessita' di riordinare le opere
pie in generale, ma anche il problema di risolvere in qualche modo gli
internamenti femminili forzati. Furono ordinate cosi' varie ispezioni a
funzionari ministeriali, che ci hanno lasciato nelle loro relazioni una
chiara immagine dell'eterogeneita' di questo genere di internamento. Vi si
raccomanda soprattutto una separazione e classificazione delle donne
internate dividendo le giovani dalle anziane, le sane dalle malate, le
condannate dalle penitenti. Venne disposto anche che molte delle recluse,
ove lo desiderassero e ne avessero la possibilita' materiale, uscissero e
ritornassero in famiglia, anche se raramente cio' avvenne.
Nei luoghi di internamento femminile, la presenza di religiose era stata
sicuramente frequente, ma non generalizzata. Anche nelle carceri vere e
proprie, sia per gli uomini che per le donne la presenza di religiosi aveva
mantenuto, talvolta fino alle soglie dell'Ottocento, un carattere ancien
regime, di occasionale sostegno morale e materiale. Era accaduto inoltre che
alcuni tipi di detenuti fossero affidati a congregazioni religiose perche'
provvedessero al loro sostentamento. Questa tradizionale ma saltuaria e
irregolare presenza di confraternite di carita' di carattere religioso,
esigeva ad un certo punto di essere ufficializzata e regolata. Estesa al
nuovo regno la legge penale del 1859 (ad eccezione delle province toscane),
si provvide cosi' a compilare un nuovo regolamento per tutte le Case di pena
che sanci' in modo definitivo l'ingresso delle suore, insieme a quello delle
guardiane, nei luoghi di pena femminili. Un esperimento in tal senso era
stato gia' realizzato in Piemonte, nel carcere femminile di Pallanza, dopo
la sua ristrutturazione del 1834, e dopo essere stato caldeggiato per anni
da filantropi e riformatrici come la gia' ricordata Giulia di Barolo.
Si tratta di un momento di svolta, di un evento apparentemente ovvio ma
assai importante. Sia per gli effettivi poteri, che furono attribuiti alle
suore e alle superiore, di governo delle coscienze e di mediazione fra le
detenute e gli amministratori dell'istituzione, sia perche' la loro
presenza - con tali poteri - si prolunghera' indefinitamente, passando
indenne dal regime liberale a quello fascista fino alla attuale repubblica.
Questa presenza contribuira', in modo decisivo, a conferire al carcere
femminile e a perpetuare nel tempo - oltre ogni ragionevole
modernizzazione - quel carattere di forzata espiazione morale e di
rigenerazione attraverso la pena anche quando una simile ideologia sara'
completamente tramontata (67).
*
Note
50. Cfr. L. Guidi, L'onore in pericolo. Carita' e reclusione femminile
nell'ottocento napoletano, Liguori, Napoli 1991, p. 44.
51. S. Cavallo, Assistenza femminile e tutela dell'onore nella Torino del
XVIII secolo, in "Annali della Fondazione Luigi Einaudi", XIV, Torino 1980,
pp. 142-143.
52. L. Guidi, op. cit., pp. 48-49. Cfr. anche A. Groppi, "Un pezzo di
mercanzia di cui il mercante fa quel che ne vuole". Carriera di un'internata
tra Buon Pastore e manicomio, in Subalterni in tempo di modernizzazione.
Nove studi sulla societa' romana dell'Ottocento, in "Annali della Fondazione
Lelio e Lisli Basso", VII, 1983-1984, Franco Angeli, Milano 1985.
53. L. Guidi, op. cit., p. 47.
54. Ivi, p. 46.
55. Si veda, di E. Fry, Observations on the Siting, Superintendance, and
Government, of Female Prisoners, Arch, London 1827. Sull'opera di Elizabeth
Fry, cfr. R. P. Dobash, R. E. Dobash, S. Gutteridge, The Imprisonment of
Women, Basil Blackwell, Oxford 1986, pp. 41-56 e passim.
56. Su queste iniziative riformatrici della marchesa Giulia di Barolo, cfr.
P. Galli, Assistenza e internamento. Il caso di Torino: Giulia di Barolo e
le donne carcerate, in La scienza e la colpa. Crimini, criminali,
criminologi: un volto dell'Ottocento, a cura di Umberto Levra, Electa,
Milano 1985, p. 194. Cfr. anche R. Canosa e I. Colonnello, Storia del
carcere in Italia, Sapere 2000, Roma 1984, p. 102, che riporta taluni
articoli del regolamento della casa di Borgo Dora: in particolare l'art. 1,
che stabiliva: "Si riceveranno nella casa di ricovero solamente povere donne
o zitelle giuridicamente od economicamente punite, ovvero colpevoli, ma
ravvedute de' loro falli che desiderino volontariamente di darsi a stabile
lavoro, ed avranno dato non dubbie prove di pentimento". Alle internate era
fatto obbligo di osservare le regole della casa sotto pena di esserne
espulse "e bisognando secondo il loro mancamento saranno rimesse
all'autorita' competenti per essere castigate"; e l'art. 6, che attribuiva
alla superiora il potere di "determinare se alcuna delle ricoverate abbia
dato bastante saggio di sua perseveranza nella conversione, e di speranza di
condotta savia e morigerata per l'avvenire, per poterle permettere di
collocarsi in matrimonio o di stabilirsi altrimenti al servizio di qualche
famiglia o nell'esercizio di qualche arte o mestiere". Cfr. inoltre T.
Canonico, Cenni biografici sulla vita intima e sopra alcuni scritti inediti
della Marchesa Giulia Falletti di Barolo-Colbert, Torino 1864, citato da M.
Beltrani-Scalia, Sul governo e sulla riforma delle carceri in Italia,
Tipografia G. Favale, Torino 1867, p. 418.
57. G. de Beaumont e A. de Toqueville, Le systeme penitentiaire aux
Etats-Unis et son applications en France, suivi d'un appendice sur les
colonies penales et des notes statistiques (1833), in A. de Toqueville,
Oeuvres completes, Gallimard, Paris 1984.
58. Cfr. P. Casana Testore, Le riforme carcerarie in Piemonte all'epoca di
Carlo Alberto, in "Annali della Fondazione Luigi Einaudi", XIV, Torino 1980,
pp. 281-329. All'indomani dell'Unita' la legislazione sabauda del 1859
verra' estesa a tutta la penisola, eccettuata la Toscana in attesa che con
il nuovo codice penale, promulgato poi nel 1889, venisse risolta la
questione della pena di morte, prevista dal codice sardo-italiano ed esclusa
invece da quello toscano. E naturalmente la gestione del carcere, parte
organica della riforma penale, sara' ovviamente estesa, anche se con le
opportune modifiche, anche al resto d'Italia. Cfr. anche C. Ghisalberti, La
codificazione del diritto in Italia 1865-1942, Laterza, Roma-Bari 1985.
59. C. I. Petitti di Roreto, Della condizione attuale delle carceri e dei
mezzi di migliorarla, G. Pomba, Torino 1840, pp. 35-37.
60. Ivi, p. 35.
61. Ivi, pp. 313-314.
62. Ivi, pp. 308-309.
63. Ivi, p. 308.
64. Citato da V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano,
Utet, Torino 1931, vol. I, p. 37.
65. De relaxatione carceratorum, in Repertorium per Ioan. Bap. Ziletum,
Venezia 1580, p. 312.
66. Trattato cit., vol.III, p. 480.
67. Per avere un'idea del potere che le religiose hanno avuto fino ai giorni
nostri all'interno delle carceri femminili, e che da solo e' valso a
caratterizzarle, basterebbe leggere qualche articolo del regolamento per gli
istituti di prevenzione e pena emesso nel 1931 a seguito dell'entrata in
vigore, l'anno prima, del codice Rocco. Questo regolamento si segnala per
alcune disposizioni non secondarie che riguardano le donne; prima di tutto
il potere del medico, arbitro - quando c'e' - di molti aspetti della vita
quotidiana femminile, tra cui ad esempio le punizioni (da tre a dieci giorni
a pane, acqua, e pancaccio) che non possono avere esecuzione senza il suo
parere favorevole (art. 154); in secondo luogo il potere delle suore e delle
guardiane, attraverso cui le detenute hanno l'obbligo di passare per esporre
i propri reclami, a differenza dei detenuti di sesso maschile che possono
rivolgersi "direttamente" al direttore (art. 91).
(Parte terza - Segue)

6. RILETTURE. MARGARETE BUBER NEUMANN: DA POTSDAM A MOSCA
Margarete Buber Neumann, Da Potsdam a Mosca, Il Saggiatore, Milano 1966, pp.
496 (ma ve ne e' una nuova edizione presso Il Mulino, Bologna 2000). Le
memorie di Margarete Buber-Neumann (1901-1989) dall'infanzia al 1937.
Margarete Buber-Neumann e' stata una delle fondamentali testimoni della
dignita' umana nel secolo dei totalitarismi (pagine splendide su di lei ha
scritto Tzvetan Todorov in Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti,
Milano 2001).

7. RILETTURE. MARGARETE BUBER-NEUMANN: PRIGIONIERA DI STALIN E HITLER
Margarete Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e Hitler, Il Mulino, Bologna
1994, 2005, pp. XVIII + 424, euro 14. Una testimonianza fondamentale. In
questa edizione con un saggio introduttivo di Victor Zaslavsky che
ricostruisce la figura dell'autrice "testimone del proprio secolo".

8. RILETTURE. MARGARETE BUBER-NEUMANN: MILENA, L'AMICA DI KAFKA
Margarete Buber-Neumann, Milena, l'amica di Kafka, Adelphi, Milano 1986,
1999, pp. 312, lire 18.000. "La vita di Milena Jesenska' raccontata
dall'amica che la conobbe nel campo di concentramento di Ravensbrueck"; un
libro che vivamente raccomandiamo.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1018 del 10 agosto 2005

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