La nonviolenza e' in cammino. 1017



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1017 del 9 agosto 2005

Sommario di questo numero:
1. Rasha Elass: Le parole per ricostruire un paese
2. Ernesto Milanesi: Albino Bizzotto, un prete contro tutte le bombe
3. Marina Graziosi: Infirmitas sexus. La donna nell'immaginario penalistico
(parte seconda)
4. Norberto Bobbio presenta "Pasqua di maggio" di Goffredo Fofi
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. INIZIATIVE. RASHA ELASS: LE PAROLE PER RICOSTRUIRE UN PAESE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di
Rasha Elass, corrispondente per "We News" da Kabul]

Kabul, Afghanistan. Un pomeriggio, nel maggio 1999, i Talebani batterono
Shukria Barakzai con una frusta di gomma, perche' si trovava fuori di casa.
Lei torno' a casa, decisa a combatterli, e fondo' una scuola clandestina per
le bambine, arruolando come insegnanti tutte le sue amiche che avevano
unistruzione.
Oggi la trentatreenne Barakzai, nata e cresciuta a Kabul, dice che i suoi
sforzi per contribuire alla ricostruzione dell'Afghanistan sono solo
all'inizio. Pochi mesi dopo la scomparsa dei Talebani da Kabul, aveva pero'
gia' dato vita al giornale "Aina-E-Zan" ("Lo specchio delle donne"), un
settimanale pubblicato nelle due lingue nazionali del paese, Pashtu e Dari,
nonche' la prima pubblicazione afgana che si rivolgeva alle donne.
"Senza la partecipazione delle donne, il processo democratico sarebbe come
un essere umano senza occhi", ha detto nel maggio scorso, quando ha ricevuto
a New York un premio per la sua attivita' di giornalista dall'Organizzazione
mondiale della stampa.
*
Barakzai, che ha tre figlie, e' oggi candidata alle prossime elezioni di
settembre per il Parlamento. "Anche prima dei Talebani la situazione era
molto brutta, spiega, Piu' di 65.000 civili erano morti nella sola Kabul a
causa della guerra e dei mujaheddin. E la violenza contro le donne era
sempre piu' alta, di giorno in giorno".
Gli Usa finanziarono la guerriglia contro l'occupazione sovietica
dell'Afghanistan e i Mujaheddin vennero da tutto il mondo per parteciparvi.
Quando i sovietici lasciarono il paese negli anni '90, il vuoto di potere
venne riempito dai Talebani. Costoro imposero una versione estremista
dell'Islam. Proibirono alle donne di lavorare fuori casa, imposero che tutte
portassero il burqa, le punivano con fustigazioni pubbliche per reati quali
"orgoglio" e "immodestia", e vietarono alle bambine di andare a scuola.
"Ero andata dal medico, quel giorno, nel 1999. Mentre tornavo a casa i
Talebani mi assalirono. Tentai di spiegare che ero malata, ma non
ascoltarono, e mi colpirono con lo 'shalock', la frusta di gomma". Lo
shalock veniva usato dalla "polizia morale" dei Talebani per punire
velocemente i civili, principalmente le donne, con una fustigazione sulle
gambe e sul dorso. Barakzai la subi' perche' si trovava all'esterno della
propria casa. Quel giorno vi torno' determinata a sfidare la nuova
oppressione che era caduta sul suo popolo. "Percio' pensai che avrei dato
inizio ad una scuola per le bambine. Per la prima volta in vita mia, divenni
un'insegnante. Ho amato molto quel lavoro, perche' capii subito quanto
avevamo bisogno di assicurare un'istruzione alle bambine. Ne avevamo bisogno
forse piu' che del cibo".
*
In circa tre anni Barakzai e le sue amiche volontarie, sostenute dalle
proprie famiglie, hanno insegnato a centinaia di ragazze di tutte le eta'.
"Le bambine arrivavano una per volta, racconta, Mai in gruppi, altrimenti
avrebbero potuto essere prese e punite dai Talebani. Nascondevano i libri e
la cancelleria negli indumenti intimi, sotto i burqa. Alcune erano cosi'
giovani che non capivano perche' dovevano nascondere tutto. Abbiamo dovuto
spiegare loro i motivi".
La scuola segreta funziono': molte delle studenti di Barakzai sono oggi al
liceo o all'universita', oppure gia' lavorano come impiegate e giornaliste.
"L'altro giorno ero all'Universita' di Kabul, e i professori mi hanno detto
che erano sorpresi dal fatto che molte ragazze avessero frequentato solo
'scuole domestiche'. Erano impressionati dal livello di istruzione delle
studenti della nostra scuola".
*
Ora nessuna legge impedisce alle bambine di avere un'istruzione, ma altri
ostacoli permangono. Shukria Barakzai dice che la mancanza di sicurezza
rende alcuni aspetti della vita ancora piu' terrificanti di quanto lo
fossero sotto il regime talebano. L'Onu ha di recente rilasciato una
dichiarazione assai preoccupata per il peggioramento delle condizioni delle
donne in Afghanistan. Il paese ha uno dei piu' alti tassi al mondo di
mortalita' correlata al parto: le statistiche Onu riportano che una madre su
nove e un bimbo su sei muoiono a causa di svariate complicazioni durante il
travaglio.
"Nelle zone piu' povere una madre deve camminare otto o nove ore per
raggiungere l'ospedale piu' vicino, commenta Barakzai, E quando e se ci
arriva, spesso scopre che l'ospedale stesso non e' attrezzato abbastanza per
aiutarla. Nel frattempo, per quanto si strombazzi a livello internazionale,
l'istruzione delle donne anche in campo sanitario e' lenta a migliorare.
Alle donne sposate, anche se sono giovanissime, non viene permesso di
frequentare scuole assieme alle ragazze nubili. Ci sono oltre un milione di
donne sposate che chiedono istruzione e formazione. Ben poco dei fondi
destinati all'istruzione delle donne viene indirizzato verso questa
richiesta. Ci sono solo due piccole scuole, a Kabul, con due classi
ciascuna, che servono circa 500 donne. E' niente. Eppure gli Usa le indicano
e dicono: Guardate cos'abbiamo fatto, come abbiamo aiutato le donne afgane".
*
Barakzai e' rimasta poco a New York, quando e' andata a ritirare il premio
giornalistico, perche' doveva occuparsi della propria campagna elettorale e
del settimanale che edita. "Lo specchio delle donne" ha una tiratura di
3.000 copie, ed informa le donne a proposito dei loro diritti rispetto alle
leggi dello stato e all'Islam. Pare che anche gli uomini apprezzino la
pubblicazione.
"Un giorno una coppia, marito e moglie, sono venuti nel mio ufficio per
dirmi che, grazie a me, la loro unione era piu' forte. Lui voleva
divorziare, ma aveva letto un articolo sul mio giornale che spiegava come
l'Islam non permetta ai mariti di maltrattare le mogli. Anche se un marito
pensa che la moglie abbia sbagliato ne deve discutere con lei, e
gentilmente. Quest'uomo fece cosi', comincio' a parlare con sua moglie, e
parlando insieme riuscirono a risolvere i loro problemi".
Guardando al futuro, Barakzai ha le idee chiare: "Le cose che servono alle
donne, le cose importanti, sono l'istruzione, la democrazia e la liberta'".

2. PROFILI. ERNESTO MILANESI: ALBINO BIZZOTTO, UN PRETE CONTRO TUTTE LE
BOMBE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 agosto 2005.
Ernesto Milanesi, giornalista, scrive sul quotidiano "Il manifesto".
Albino Bizzotto, impegnato in molte iniziative di pace e di solidarieta',
promotore e presidente del movimento nonviolento "Beati i costruttori di
pace", e' una delle figure piu' vive della nonviolenza in Italia]

Un prete strano, fuori dal comune. Un uomo mite che, con coraggio, offre un
contraltare all'indifferenza. Un pacifista radicalmente nonviolento: da
sempre. Un testimone di frontiera. Una vita spesa, da un quarto di secolo,
per gli ultimi. Un simbolo, perfino suo malgrado. Don Albino Bizzotto e' la
figura che coincide ed incarna "Beati i costruttori di pace", il movimento
di base esploso dentro la Chiesa del Triveneto nel 1985 e ancora in prima
fila contro ogni guerra. Don Albino in questi giorni, frenetici come sempre,
sta preparando le manifestazioni per i 60 anni dell'esplosione dell'atomica
ad Hiroshima e Nagasaki. "Facciamo tutto con lo stesso spirito di
condivisione e volontariato, che ci aveva spinto a marciare da Vicenza a
Longare contro le testate nucleari e poi fino al 'campo' di Comiso. Ci
ostiniamo a difendere la speranza, a denunciare gli squilibri del mondo, a
costruire ponti al posto delle trincee", spiega concitato fra una
telefonata, una riunione, una pedalata e una preghiera.
Don Albino lo conoscono tutti come l'animatore instancabile dei "Beati", ma
nessuno lo ha mai piegato a tradire la sua missione. E' fatto a modo suo. E
non cambia piu'. "Predicava" le ragioni della pace dai microfoni di Radio
Gamma5 senza concessioni alle nostalgie staliniste dei seguaci del generale
Pasti. E' saltato sui binari ferroviari, quand'e' scoppiata la guerra
globale, anche se continua a preferire don Milani ai Disobbedienti. Adesso
rilancia la battaglia contro il nucleare militare, nonostante la sua Chiesa
abbia espunto la teologia della liberazione. Un prete scomodo. Un uomo
convertito.
Racconta don Albino com'e' cominciato tutto: "Nel 1980 mi e' stato regalato
un viaggio in America Latina: 40 giorni in Brasile e Ecuador. Ho visto la
situazione nella baixada fluminense, vicino a Rio de Janeiro, con le case in
un fiume di scolo e un tasso di violenza indescrivibile. Ma anche Riobamba
con la piu' bella scuola del mondo, fatta per radio insieme agli indios. In
Ecuador ho conosciuto la storia di monsignor Romero, che era stato
assassinato in Salvador cinque mesi prima. In Italia si sapeva ben poco di
lui. Quando e' morto credo ci sia stato un piccolo lancio di agenzia: niente
altro. Quel viaggio, di fatto, ha cambiato la mia vita. Non sono piu'
riuscito ad andare in vacanza e la croce di cuoio che porto al collo viene
da Quito. E' diventata il mio habitus".
*
Nel "covo anarchico"
Don Albino nasce a Cassola (Vicenza) nel 1939 da una famiglia contadina. Fin
da bambino sente la vocazione, tant'e' che a soli 23 anni e' gia' prete
diocesano. A Padova, insegna religione alle superiori: al liceo artistico di
via Canal, scuola senza nome e con la fama di "covo anarchico", diventa
l'interlocutore preferito di una generazione di ragazzi che al talento
abbinano la rabbia. Don Albino tiene sempre la porta aperta nel piccolo
appartamento che si affaccia su piazza dei Frutti. Casa di tutti nella
stagione degli anni di piombo. Un via vai infinito di gente che aggiunge una
sedia spaiata o discute stappando l'ultima bottiglia in comune. In Curia,
quel prete troppo disponibile con i ragazzi e che si espone pubblicamente
perfino sul referendum sull'aborto proprio non piace. E dal vescovo partira'
un provvedimento disciplinare dopo l'altro: addio insegnamento, stipendio e
pensione; la pecora nera sconta l'emarginazione della Chiesa ufficiale; in
compenso, don Albino viene adottato dalle comunita' di base, cattoliche e
non.
Gli anni Ottanta, in Veneto, sono ancora segnati dalle trincee ideologiche:
il processo 7 aprile, il Pci impermeabile al rinnovamento, l'Autonomia
Operaia ancora organizzata. Don Albino "pacifica" con pazienza questo
scenario paralizzante. "Abbiamo cominciato con un'azione di solidarieta' con
il popolo del Salvador, che in quel momento si trovava nell'occhio del
ciclone, fino alla manifestazione in piazza, a Padova, il 23 marzo 1981. E'
stata l'iniziativa che ha spezzato il clima degli anni di piombo. Mi
ricordo, quella sera c'erano Raniero La Valle, Alberto Tridente e Marianella
Garcia. Alcune persone sono venute in lacrime a ringraziarmi: era la prima
volta che si manifestava insieme. In piazza tornava, finalmente, la gente
comune: vecchi, giovani, donne, bambini". E' un successo per il Comitato
popolare veneto per la pace, l'intuizione che don Albino aveva condiviso
(fra gli altri) con Michele Di Martino, Alberto Trevisan, Flavio Lotti e
Gianna Benucci. Si spalanca piu' di un varco alle bandiere dell'arcobaleno:
in marcia lungo la riviera berica, a fianco degli obiettori di coscienza e
dei pionieri dell'obiezione alle spese militari, nelle prime manifestazioni
contro i missili Cruise e Ss20.
Il "nuovo pacifismo" prende sostanza nel cuore del Veneto ancora
democristiano. "E' partita una scintilla che ha portato alla prima grande
manifestazione, dalla caserma Ederle di Vicenza alla base Usa di Longare.
Era il 30 agosto 1981. Subito dopo e' stata la volta della Perugia-Assisi e
il 24 ottobre la grandissima manifestazione nazionale", spiega don Albino.
L'anticipazione della stagione di Comiso: "Nel 1982 il primo campo pacifista
a Vittoria per preparare le azioni nonviolente davanti ai cancelli
dell'aeroporto di Comiso l'estate successiva. Il 6 agosto 1983, di nuovo
nell'anniversario di Hiroshima, contro l'installazione dei Cruise. E' stata
la prima volta che, insieme a noi pacifisti, hanno manifestato fianco a
fianco i ragazzi della Fgci e gli autonomi. Tutti insieme abbiamo preso le
cariche della polizia. Il 25 settembre c'e' stata un'altra azione
formidabile a Comiso: invece di passare per le entrate centrali, siamo
arrivati da un'altra parte. La polizia ci ha inseguito con gli idranti.
Pioveva, era un giorno freddo: abbiamo preso acqua da sopra e anche da
sotto. Saremo stati un migliaio, avevamo bloccato tutti gli accessi e con la
polizia e' iniziato uno scontro diretto: noi bloccati li' per terra sotto i
teloni di nylon, loro con gli idranti. Se il getto ti arrivava sulle
orecchie, te le faceva saltare".
Due anni dopo, don Albino si lancia in una nuova avventura. Con il
comboniano Alex Zanotelli (il direttore di "Nigrizia" che aveva puntato
l'indice su Craxi e Spadolini) e con il saveriano Eugenio Melandri lancia
l'idea di "Beati i costruttori di pace". Riprendono il messaggio del
Concilio, vent'anni dopo. Dal confine del Triveneto scrivono l'appello
contro "l'aggressione che si fa crimine: gli armamenti, anche se non messi
in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di
fame".
Sono trascorsi vent'anni. Era davvero un altro mondo. Il pacifismo radicale
dentro la Chiesa rappresentava una vera rivoluzione. Don Albino riavvolge il
nastro della storia dei "Beati" e rivela qualche retroscena: "Servivano
promotori autorevoli per un simile appello. Il primo da cui sono andato e'
stato padre Germano Pattaro, il teologo veneziano dell'ecumenismo, molto
amato, che era ammalato gravemente. Lui ha mostrato il testo a monsignor
Luigi Sartori, presidente dei teologi italiani. E si sono aperte le porte.
E' stato molto bello l'incontro con monsignor Alfredo Battisti, vescovo di
Udine, che era stato il mio vicario generale a Padova e che conosceva bene
la mia vita e le mie vicende ai margini della Chiesa. Mi ha detto: 'Questi
contenuti sono evangelici'. Aderiva. Era fatta. Ma il nostro vero
interlocutore era l'incaricato per la Commissione Giustizia e pace della
Conferenza episcopale del Triveneto: il vescovo di Trieste, Lorenzo Bellomi.
E lui aveva bisogno del placet del patriarca Marco Ce'. Nel 1985, mi
guadagnavo da vivere come manovale. Mi mandarono a chiamare in cantiere:
Bellomi aveva telefonato e mi voleva parlare. Sono corso a casa e dall'altra
parte del filo la voce: 'Ti do l'adesione come commissione episcopale
Giustizia e Pace del Triveneto'. Cosi' l'appello puo' cominciare a venir
diffuso. Adesioni a valanga: cinquemila firme di preti, frati, suore. Si
sono aggregati anche i laici. Alla fine, siamo arrivati a quindicimila
adesioni".
*
Nel tempio della lirica
Il 4 ottobre 1986 i "Beati" organizzano il primo meeting all'Arena di Verona
dal titolo "Pace: diritto ed urgenza dei popoli" con migliaia di
partecipanti uniti dai colori dell'arcobaleno. Nel tempio della lirica
scaligera, l'appuntamento si ripetera': sfilano Rigoberta Menchu', Susan
George, David Maria Turoldo a sostenere le campagne sul disarmo, contro
l'apartheid. Con i "Beati" don Albino attraversa gli anni Novanta: in Bosnia
e Kosovo, ma anche in Palestina, si concretizzano le "azioni di diplomazia
popolare". Fra l'altro, le carovane de volontari dei "Beati" hanno garantito
il servizio postale da e per Sarajevo dall'estate 1993 fino al gennaio 1996
consegnando complessivamente ottocentomila lettere e pacchi.
Si chiude il Novecento e i "Beati" (nel frattempo costituiti in vera e
propria associazione) lasciano il segno in Africa. Febbraio 2001, l'azione
di "Anch'io a Bukavu": a Butembo, in Congo, oltre duecentomila persone hanno
accolto i partecipanti ad un altro piccolo grande "miracolo". Poi esplode la
guerra globale: don Albino ritorna a sventolare la bandiera dell'arcobaleno.
E' in buona compagnia: il "popolo della pace" invade piazze e balconi. E
come ogni 6 agosto, l'anima dei "Beati" che non va piu' in vacanza si
prepara ad ammonire: "Mai piu' Hiroshima".

3. STUDI. MARINA GRAZIOSI: INFIRMITAS SEXUS. LA DONNA NELL'IMMAGINARIO
PENALISTICO (PARTE SECONDA)
[Dal sito di "Jura gentium. Centro di filosofia del diritto internazionale e
della politica globale" (http://dex1.tsd.unifi.it/juragentium/it/)
riprendiamo il seguente saggio originariamente pubblicato in "Democrazia e
diritto", n. 2, 1993, pp. 99-143 (vi e' anche una traduzione spagnola - di
Mary Beloff e Christian Courtis -: Infirmitas sexus. La mujer en el
imaginario penal, in "Nueva Doctrina Penal", 1999/A, pp. 55-95; ristampata
in A. E. C. Ruiz (a cura di), Identidad femenina y discurso juridico,
Editorial Biblos, Buenos Aires 2000, pp. 135-17. Marina Graziosi insegna
sociologia del diritto all'Universita' "La Sapienza" di Roma, fa parte delle
esperienze di "Balena" e di "Antigone"]

3. Un doppio sistema punitivo?
Anche se in Italia il codice penale Zanardelli del 1889 sembro' chiudere
l'argomento escludendo il sesso come fattore minorante l'imputazione, per
opera in gran parte di Francesco Carrara - tra gli artefici del codice -,
contrario da sempre all'idea di una possibile diversa imputabilita' per le
donne (27), il dibattito continuera' a mantenersi vivo ancora per qualche
decennio e interessera' non solo i giuristi ma anche e soprattutto gli
scienziati e i medici positivisti, e in particolare - tra i medici - quelli
che facevano riferimento alla scuola di ginecologia positiva e ai suoi piu'
importanti esponenti, Muzio Pazzi e Luigi Maria Bossi (28).
Mai come in questo periodo la questione del corpo femminile fu cosi'
tematizzata e approfondita dalla riflessione giuridica, grazie anche
all'emergere degli studi di medicina legale, e alle figure dei suoi piu'
importanti esponenti, che molto spesso erano psichiatri. Identificando, in
accordo con gli orientamenti medici piu' moderni, nelle "condizioni
patologiche" "degli organi della maternita'" (29) l'origine di
un'instabilita' nervosa che potenzialmente puo' condurre al delitto, alcuni
proponevano per le donne diversi criteri di punibilita'. Anche Lombroso nel
suo ampio trattato sulla donna delinquente (30) aveva affrontato
fondamentalmente il tema del corpo femminile, partendo fin dalla descrizione
della normalita' e delle anomalie nelle femmine degli animali per risalire
via via fino alla donna. Ma la questione della pena e della imputabilita'
era stata posta solo marginalmente. La sua antropologia era infatti
rigidamente deterministica: in base ad essa non solo le azioni umane, ma
anche le attitudini, le inclinazioni e le doti morali e intellettuali delle
persone sono effetti meccanicistici della fisiologia o dalla patologia del
corpo umano; il libero arbitrio, quindi, non esiste, le persone sono diverse
l'una dall'altra in ragione delle loro differenze antropologiche, ed e'
difficile percio' poter parlare di imputabilita' e pena. Tuttavia nel
capitolo intitolato "terapia" aggiunto nell'edizione del 1927 del trattato
dalla curatrice Gina Lombroso (31) troviamo un Lombroso favorevole al
probation system, a una legislazione matrimoniale meno oppressiva per la
donna in cui sia contemplato il divorzio, e inoltre la proposta di leggi
piu' flessibili sull'aborto e sull'infanticidio.
Quanto alle pene, "piu' che punire, basta nella maggior parte dei delitti
delle donne, educare, far loro capire che esse hanno agito male" (32). Con
quali sistemi? Le ipotesi punitive che vengono proposte si commentano da
se': "Nelle donne percio' il carcere e le pene afflittive sono tanto meno
necessarie che il loro reato, quasi sempre effetto di suggestione o di
passione, le rende meno terribili quando si allontanino dal suggestionatore
o dal tormentatore: amante o marito. Vista poi la grande vanita' femminile,
l'importanza che essa da' al vestito, ai gingilli e ai mobili della sua casa
si potrebbe sostituire molte volte nei reati di piccoli furti, di risse, le
pene carcerarie con delle pene afflittive della loro vanita', come il taglio
dei capelli, il sequestro degli ornamenti, dei mobili: soprattutto si deve
nei ricoveri imporre il lavoro alle oziose collo spauracchio della fame".
Neppure il punire le donne in modo particolare sembra essere una novita':
"Adottando speciali pene per le donne noi ritorniamo a quanto facevano i
nostri antichi, gli indiani, gli ebrei (Deuteronomio, XII), i Germani; anche
in Russia nel medioevo la donna che aveva colpito il marito doveva cavalcare
un asino al rovescio; in Inghilterra le donne che avevano rissato fra loro
dovevano percorrere le vie del villaggio sollevando un peso a cui erano
legate con catene, e le calunniatrici e ciarlone dovevano camminare con una
musoliera" (33).
Ma e' invece la questione del libero arbitrio quella che sembra essere la
piu' importante per chi, come il penalista Enrico Ferri, dara' una versione
direttamente giuridica delle teorie lombrosiane: "Tutti i criminalisti" -
scrive nel suo La teorica dell'imputabilita' e la negazione del libero
arbitrio del 1878 - "sono d'accordo nell'ammettere il sesso come circostanza
minorante la pena... La questione verte invece nel decidere se il sesso
debba ammettersi anche quale causa minorante il delitto o la imputazione"
(34).
Dopo aver distinto in generiche e specifiche le cause minoranti
l'imputabilita' potenziale, Ferri annovera il sesso femminile tra le
specifiche, insieme alla vecchiaia e al difetto d'educazione. Precisamente,
il sesso femminile e' per Ferri una causa permanente di diminuzione della
imputabilita' potenziale; a differenza delle cause che egli chiama
"generiche", come l'eta' minore e il sordomutismo "con discernimento", il
sonno e l'infermita' mentale "incompleti", l'ubriachezza semipiena e
l'impeto di affetti meno violento, che sono in qualche modo transitorie.
Nelle stesse pagine Ferri cita, in proposito, un'illuminante lettera di
Comte a Stuart-Mill del 16 luglio 1843. Comte scrive: "Per quanto imperfetta
sia tuttora da ogni lato la biologia, mi sembra che essa possa gia'
stabilmente affermare la gerarchia dei sessi, dimostrando anatomicamente e
ad un tempo fisiologicamente che in quasi tutta la serie animale, e
soprattutto nella nostra specie, il sesso femminile e' costituito in una
specie di stato di infanzia radicale che lo rende essenzialmente inferiore
al tipo organico corrispondente" (35).
Le tesi di Enrico Ferri - e in generale della Scuola positiva - sulla
disuguaglianza tra i sessi e sulla sua rilevanza penale, sono ovviamente
aderenti all'antropologia positivistica. L'imputabilita' delle donne,
pertanto, e' tendenzialmente negata al pari di quella degli uomini, essendo
considerata uno pseudoconcetto fondato sul pregiudizio del libero arbitrio
ed e' sostituita dalla categoria della pericolosita'. Una simile
antropologia vale a fondare "scientificamente" la differenza di sesso come
disuguaglianza e precisamente come inferiorita' della donna rispetto
all'uomo. Per questo nelle argomentazioni di Ferri, come in generale in
quelle degli altri positivisti, i riferimenti alle tesi romanistiche e piu'
in generale ai giuristi del passato sono piu' rare: la tesi
dell'inferiorita' della donna non ha infatti piu' bisogno di accreditarsi
con il principio d'autorita' ma s'inquadra perfettamente nella nuova
antropologia; tanto piu' che il nuovo indirizzo si presenta come
radicalmente innovatore rispetto alla tradizione e rifiuta
programmaticamente qualunque continuita' con la vecchia cultura penalistica.
Una tematica assai dibattuta - oltre a quella sulle ragioni e sull'origine
di una criminalita' femminile statisticamente cosi' poco rilevante rispetto
alle cifre globali - e' quella della discrasia tra penale e civile che si
verrebbe a creare ammettendo la piena responsabilita' e imputabilita' delle
donne. Se infatti a qualche studioso sembra, ad esempio, incoerente ed
ingiusto che, ad un'asserita incapacita' legale di agire autonomamente per
gestire la propria vita e i propri interessi, debba corrispondere una piena
responsabilita' penale (36), la proposta non e' quella di rimuovere
semplicemente le discriminazioni, che costringono la donna ad una
cittadinanza civile e politica non piena, ma quella di avanzare l'ipotesi di
un'imputabilita' minorata e addirittura di creare un doppio diritto penale.
Cosi tra gli altri il penalista Francesco Puglia che sebbene si dichiari -
in via di principio - contrario ad una minore imputabilita' delle donne, si
produce nella difficile prefigurazione di ipotesi punitive diverse per esse.
Dopo aver sostenuto che - pur essendo le differenze organiche fra l'uomo e
la donna circostanze determinanti la minore criminalita' della donna
rispetto all'uomo - esse non possono essere "ragioni giustificative per
stabilire come principio generale la minore imputabilita' di lei" (37), ci
spiega come possa giustificarsi, non solo la "concessione di circostanze
attenuanti o minoranti la responsabilita' in un numero maggiore di casi, che
non per gli uomini delinquenti" (38), ma anche la "necessita' di stabilire
un criterio penale speciale per la donna" (39). Accogliendo in parte le tesi
lombrosiane, Puglia classifica le donne delinquenti secondo tre categorie
fondamentali: le "criminali nate", le criminali pazze e le criminali
d'occasione. "Donde la conseguenza, che il sistema penale non puo' essere lo
stesso per tutte le donne delinquenti, e che quindi nell'interesse
dell'ordine giuridico o sociale e per non sacrificare inutilmente le donne
delinquenti ad un mal compreso principio di difesa sociale, bisogna che si
stabiliscano tre specie fondamentali di misure repressive che potrebbero
essere: le case d'incorreggibili per la prima categoria; i manicomi
criminali per la seconda; le pene restrittive della liberta' personale,
messe in armonia con taluni surrogati penali, per meglio adattare la
repressione all'indole della donna delinquente" (40). Sulle case
d'incorreggibili cui sono destinate le "deliquenti nate", Puglia non si
sofferma se non per chiedersi "se convenga la perpetuita' o la temporaneita'
della reclusione, poiche', quando la donna ha raggiunto un'eta' avanzata e'
nella impossibilita' di commettere delitti" (41).
Quanto alle pene pecuniarie, esse non sembrano proprio essere adatte a
colpire le donne: e cio' deriva dalla ovvia considerazione che le donne
hanno con il denaro un rapporto assai mediato, in altre parole, che il
denaro che hanno non e' il loro e che anche se lo fosse non ne potrebbero
disporre interamente e liberamente. Osserva Puglia che "di pene pecuniarie
non bisogna parlare, quando trattasi di delitti commessi da donne, perche'
data la loro speciale posizione sociale, o la pena pecuniaria verrebbe
convertita in pena restrittiva della liberta' personale o sarebbe di niuna
efficacia per la condannata" (42). Meglio allora sarebbe la pena corporale
con l'obbligo del lavoro - e qui Puglia si riferisce prevalentemente ad una
pena di tipo detentivo - "la quale per essere efficace dovrebbe essere
regolata diversamente avuto riguardo non solo all'indole della rea, ma anco
alla natura particolare del delitto commesso" (43).
Le posizioni piu' comuni tra i giuristi sono tuttavia quelle, non estreme,
che propongono per le donne delle semplici mitigazioni di pena. Ma le
motivazioni che essi adducono sono le piu' diverse: alle donne spetterebbe
una pena piu' lieve in nome della loro minore razionalita' e
responsabilita', o in proporzione alla loro maggiore fragilita' fisica (44),
o ancora - se il senso della pena e' prevalentemente la sua azione
deterrente - una pena ridotta tanto quanto basti, in astratto, a spaventare
una donna. Al di la' delle differenti ipotesi, quello che sembra comune e'
il bisogno che emerge comunque, anche se in forme diverse, di mettere in
evidenza il fatto che il femminile porta con se' una permanente minorazione,
e che il giurista ne e' consapevole (45).
Da un versante del tutto opposto si muove la riflessione di Valeria Benetti,
esponente del movimento politico femminile che nel suo La donna nella
legislazione italiana (46) conduce un'attenta critica della legislazione
vigente, non solo in materia civile, ma anche in quella penale.
Il metodo e' quello di cercare di spiegare, nel modo piu' chiaro e
accessibile, non solo i luoghi delle piu' macroscopiche differenziazioni, ma
anche tutti quei punti in cui, ad un'apparente parita' di diritti,
corrisponda una discriminazione di fatto nei confronti della donna, o
l'aggravio delle responsabilita' che ad essa, in concreto, competono.
Riprendendo lo schema classico del contrasto tra l'esclusione dai diritti
politici e la piena responsabilita' penale, fin dall'inizio del suo saggio
Benetti dichiara che un principio di equita' avrebbe dovuto far
corrispondere alle "limitazioni fatte alle donne nei diritti civili nonche'
all'esclusione assoluta dai diritti politici" anche delle limitazioni nelle
responsabilita' che comportano una pena. Il legislatore, invece, ha disposto
in senso contrario. "Riguardi speciali al sesso dovevano suggerire
limitazioni nelle responsabilita', che portano a subire una pena morale e
materiale, e non in quelle che, come corrispettivo, offrono il godimento di
diritti". La legge invece riconosce alla donna una imputabilita', "una
capacita' volitiva e intellettiva eguale a quella dell'uomo dinanzi alla
responsabilita' del delitto" e "l'esercizio della capacita' giuridica e'
esteso alla donna essenzialmente in ragione inversa del vantaggio, che ad
essa puo' derivarne" (47).
Sulla questione della imputabilita' penale delle donne quindi anche Benetti,
si pronuncia per una minore responsabilita' ma con argomenti assai diversi
da quelli incontrati finora.
La donna non si trova in una condizione mentale di minor razionalita' ma
piuttosto in una storica "relativa irresponsabilita' e incapacita'" indotta
dalla "condizione effettiva di dipendenza in cui e' posta la donna rispetto
all'uomo", "sia determinando in lei una relativa irresponsabilita' e
incapacita', sia compiendo nella sua psiche una vera e propria selezione dei
sentimenti di remissivita', di acquiescenza, di incondizionata obbedienza"
(48).
E' sotto questo profilo che Benetti analizza il codice penale, passando
cosi' in rassegna i luoghi che ritiene piu' significativi, come ad esempio
la figura della correita'. Infatti, essa dovrebbe essere considerata
diversamente quando il correo e' una donna che e' spesso legata a chi ha
commesso il reato da vincoli affettivi, o quando, anche in nome di questi
vincoli, si possa ipotizzare che la volonta' femminile sia stata coartata.
Benetti critica anche con forza il fatto che la posizione di preminenza del
marito si mantenga intatta nella famiglia, anche quando questi sia stato
condannato a pene lunghe e per reati infamanti. Infatti, se il giudice lo
consente, l'uomo puo' mantenere intatto l'esercizio della patria potesta' e
addirittura dell'autorizzazione maritale.
E critica inoltre, avendo sempre presente la concretezza delle fattispecie
che possono verificarsi, la formulazione di molti reati, dall'abuso dei
mezzi di correzione e dei maltrattamenti in famiglia, alla riduzione in
stato di schiavita', l'adulterio, il ratto, la violenza carnale, il delitto
d'onore. Con acutezza si sofferma anche sulle piu' evidenti contraddizioni
di quest'ultimo, sostenendone l'abolizione, se non altro per
l'impossibilita' di stabilire una vera e propria eguaglianza di trattamento
fra i sessi. "Difatti e' razionalmente esclusa dalla legge la considerazione
del caso in cui la sorella uccida il fratello sorpreso in illecito
concubito" (49). E ancora una serrata critica, sposando la tesi della pena
come difesa sociale, all'esclusione o diminuzione dell'imputabilita' per i
reati commessi in stato d'ubriachezza dando per scontato che essi vedano
quasi sempre come vittime delle donne.
*
Note
27. F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale (1857), X ed.,
Cammelli, Firenze 1907, I, p. 232: "Sara' minore il numero delle donne che
delinquono; ma la donna che ha delinquito, appunto perche' la eccezione e'
piu' rara, bisogna dirla piu' corrotta e malvagia dell'uomo che fa
altrettanto: o per lo meno bisogna dirla ugualmente responsabile, e tanto
basta. Affermisi pure se vuolsi, che le donne sono piu' morali degli uomini
perche' piu' raramente delinquono; ma la donna che ha delinquito non puo'
trovare scusa alla sua immoralita' nella moralita' delle sue compagne".
28. Sul dibattito tra ginecologi, psichiatri e criminalisti - tutti di fede
positivista - cfr. V. P. Babini, F. Minuz e A. Tagiavini, op. cit.
29. E. Ferri, Prefazione a B. Fera, La donna e la sua imputabilita' in
rapporto alla psicologia e patologia del suo apparato genitale, Athenaeum,
Roma 1913, pp. 3-5. Muovendo dalla tesi che "la personalita' organica e
psichica della donna e' la risultante della sua grande funzione specifica,
la maternita'... che esige dalla donna non l'attimo fuggente di volutta' che
da' l'uomo, ma il sacrificio organico della gravidanza, del parto, del
puerperio e dell'allattamento, si spiega", secondo Ferri, "come la donna
resti nel suo sviluppo personale fra il fanciullo e l'uomo adulto". Questa
spiegazione, avverte Ferri, in quanto connette alla maternita' sia "talune
superiorita'" della donna sull'uomo, "come lo spirito di sacrificio e
l'altruismo", sia "le aberrazioni individuali e sociali della donna"
parimenti legate alle "condizioni patologiche degli organi della
maternita'", non e' solo un'acquisizione scientifica ma e' anche "di
un'importanza decisiva e suprema, cosi' per il benessere materiale e morale
delle famiglie, come per la vita sociale, come per la giustizia civile e
penale". E rappresenta la base per una riforma penale che, nella prospettiva
di "una giustizia penale piu' veramente umana" e "regolata dalle speciali
condizioni della donna", si fondi sulla necessita' che "anche per le donne
delinquenti bisogna che la clinica criminale adotti e adatti particolari
provvedimenti", secondo il principio generale che "ad ogni categoria di
delinquenti" devono sempre "adattarsi i provvedimenti di profilassi e di
difesa che corrispondano alle loro particolari condizioni personali di
riadattibilita' sociale".
Il nesso tra funzioni intellettive e funzioni riproduttive delle donne era
gia' stato sostenuto da E. Spangenberg, op. cit., pp. 169-170. La tesi sara'
ripresa e sviluppata da Herbert Spencer: cfr. A. Rossi Doria, Le idee del
suffragismo, in Ead. (a cura di), La liberta' delle donne. Voci della
tradizione politica suffragista, Rosenberg e Sellier, Torino 1990, p. 302.
30. C. Lombroso e G. Ferrero, La donna delinquente. La prostituta e la donna
normale (1892), V ed. F.lli Bocca, Torino 1927.
31. Sul modo in cui lavorava Lombroso con sua figlia Gina, cfr. il bel libro
di D. Dolza, Essere figlie di Lombroso. Due donne intellettuali tra '800 e
'900, Angeli, Milano 1990.
32. C. Lombroso e G. Ferrero, op. cit., p. 446.
33. Ibid.
34. E. Ferri, La teorica dell'imputabilita' e la negazione del libero
arbitrio, Barbera, Firenze 1878, pp. 583 ss.
35. E .Ferri, loc. cit.
36. Si veda, per esempio, G. Michelet, La donna (1856), Libreria editrice
moderna, Genova 1914, p. 18: "La legge civile dichiara la donna inferiore
all'uomo e la condanna ad un'eterna interdizione. L'uomo si e' costruito
abusivamente suo tutore: ma quando si tratta degli errori ch'essa puo'
commettere, delle pene nelle quali puo' incorrere, oh! allora la donna e'
trattata come se fosse maggiorenne, ed e' tenuta severamente responsabile di
tutte le sue azioni. Eterna contraddizione delle antiche leggi barbariche!
Ella e' ceduta altrui come una cosa, ma punita come una persona". La stessa
tesi fu sostenuta dal medico legale G. Morache in un saggio intitolato La
responsabilite' criminelle de la femme differente de celle de l'homme e
apparso su "La Revue" del 15 settembre 1901, nel quale, tra l'altro, egli
critica i calcoli statistici di Lombroso, che gonfiavano quantitativamente
la criminalita' femminile facendovi rientrare la prostituzione e riprende
tuttavia la tesi della particolare labilita' della psiche femminile partendo
dalla tossicita' post-partum per poi considerare gli altri "periodi" di
instabilita' femminile. Su quest'ultima questione, si veda anche, di G.
Morache, Grossesse et accouchement, etude de socio-biologie et de medecine
legale, F. Alcan, Paris 1903.
37. F. Puglia, Le donne delinquenti e la legge penale, in "La Scuola
Positiva nella giurisprudenza penale", III, 1893, p. 585.
38. Ibid.
39. Ibid.
40. Ivi, p. 586.
41. Ibid.
42. Ivi, p. 588.
43. Ibid.
44. Cosi', per esempio, Tancredi Canonico pone il sesso tra le altre
"considerazioni che consigliano una diminuzione nel grado della pena":
"Parlando del grado del reato, gia' abbiamo riconosciuto che ne' la
vecchiaia ne' il sesso femminile non sono cause che scemino l'imputabilita':
perche' la maggiore debolezza o la maggiore sensibilita' nell'organismo non
diminuisce la pienezza ne' dell'intelletto, ne' della libera volonta'. Ma
questa minore vigoria fisica renderebbe in realta' piu' pesante pel vecchio
e per la donna la pena ordinaria: per conseguenza esige una diminuzione nel
grado della pena. La medesima cosa si dica di quelle altre fisiche debolezze
che venissero da infermita' o da gracilissima costituzione. Per cio' i
Romani raddolcivano pel vecchio la pena corporale, non la pecuniaria. Per
cio' il codice penale del 1859 stabilisce che sia mitigata la pena dei
lavori forzati pel settuagenario, per la donna, e per chi fosse riconosciuto
fisicamente inetto al genere di lavori prescritti" (Del reato e della pena
in genere. Memorie delle lezioni, Utet, Torino 1872, p. 329).
45. Cfr. M. Manfredi e A. Mangano, op. cit., p. 46; V. Babini, op. cit., pp.
29 ss.
46. Edito per la prima volta nel 1904 dall'associazione "Per la donna" e in
seguito nel 1908 a cura del Consiglio nazionale delle donne italiane, in
occasione del primo Congresso femminile nazionale delle donne italiane,
l'opuscolo, stampato su due colonne, da un lato riporta gli articoli piu'
significativi del codice civile e di quello penale, dall'altro lato il
commento. La figura di Valeria Benetti e' ricordata da F. Pieroni
Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia. 1848-1892,
Einaudi, Torino 1963, pp. 266 e 275, e da M. De Giorgio, Le italiane
dall'Unita' a oggi, Laterza, Bari-Roma 1992, pp. 13 e 331. Cfr. anche M.
Manfredi e A. Mangano, op. cit., p. 53.
47. V. Benetti, La donna nella legislazione italiana, cit., p. 47.
48. Ivi, pp. 48-49.
49. Ivi, p. 68.
(Parte seconda - Segue)

4. LIBRI. NORBERTO BOBBIO PRESENTA "PASQUA DI MAGGIO" DI GOFFREDO FOFI
[Dal sito www.lindice.com riprendiamo la seguente recensione di Norberto
Bobbio al libro di Goffredo Fofi, Pasqua di Maggio. Un diario pessimista
(Marietti, 1988) apparsa sulla rivista "L'Indice", nel n. 1 del 1989.
Norberto Bobbio e' nato a Torino nel 1909 ed e' deceduto nel 2004,
antifascista, filosofo della politica e del diritto, autore di opere
fondamentali sui temi della democrazia, dei diritti umani, della pace, e'
stato uno dei piu' prestigiosi intellettuali italiani del XX secolo. Opere
di Norberto Bobbio: per la biografia (che si intreccia con decisive vicende
e cruciali dibattiti della storia italiana di questo secolo) si vedano il
volume di scritti autobiografici De Senectute, Einaudi, Torino 1996; e
l'Autobiografia, Laterza, Roma-Bari 1997; tra i suoi libri di testimonianze
su amici scomparsi (alcune delle figure piu' alte dell'impegno politico,
morale e intellettuale del Novecento) cfr. almeno Italia civile, Maestri e
compagni, Italia fedele, La mia Italia, tutti presso l'editore Passigli,
Firenze. Per la sua riflessione sulla democrazia cfr. Il futuro della
democrazia; Stato, governo e societa'; Eguaglianza e liberta'; tutti presso
Einaudi, Torino. Sui diritti umani si veda L'eta' dei diritti, Einaudi,
Torino 1990. Sulla pace si veda Il problema della guerra e le vie della
pace, Il Mulino, Bologna, varie riedizioni; Il terzo assente, Sonda, Torino
1989; Una guerra giusta?, Marsilio, Venezia 1991; Elogio della mitezza,
Linea d'ombra, Milano 1994. A nostro avviso indispensabile e' anche la
lettura di Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, 1977; Profilo
ideologico del Novecento, Garzanti, Milano 1990; Teoria generale del
diritto, Giappichelli, Torino 1993. Opere su Norberto Bobbio: segnaliamo
almeno Enrico Lanfranchi, Un filosofo militante, Bollati Boringhieri, Torino
1989; Piero Meaglia, Bobbio e la democrazia: le regole del gioco, Edizioni
cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1994; Tommaso Greco, Norberto
Bobbio, Donzelli, Roma 2000. Per la bibliografia di e su Norberto Bobbio uno
strumento di lavoro utilissimo e' il sito del Centro studi Piero Gobetti
(www.erasmo.it/gobetti) che invitiamo caldamente a visitare.
Goffredo Fofi, nato a Gubbio nel 1937, ha lavorato in campo pedagogico e
sociale collaborando a rilevanti esperienze. Si e' occupato anche di critica
letteraria e cinematografica. Tra le sue intraprese anche riviste come
"Linea d'ombra", "La terra vista dalla luna" e "Lo straniero". Per sua
iniziativa o ispirazione le Edizioni Linea d'ombra, la collana Piccola
Biblioteca Morale delle Edizioni e/o, L'ancora del Mediterraneo, hanno
rimesso in circolazione testi fondamentali della riflessione morale e della
ricerca e testimonianza nonviolenta purtroppo sepolti dall'editoria -
diciamo cosi' - maggiore. Opere di Goffredo Fofi: tra i molti suoi volumi
segnaliamo almeno L'immigrazione meridionale a Torino (1964), e Pasqua di
maggio (1989). Opere su Goffredo Fofi: non conosciamo volumi a lui dedicati,
ma si veda almeno il ritratto che ne ha fatto Grazia Cherchi, ora alle pp.
252-255 di Eadem, Scompartimento per lettori e taciturni, Feltrinelli)]

Ci siamo conosciuti, credo, molti anni fa, in occasione del processo a
Danilo Dolci di cui si parla nel libro a p. 166. Io avevo scritto la
prefazione a Banditi a Partinico (1955), lui non ancora ventenne si era
unito "da pochissimo tempo, appena laureato maestro" al "piccolo gruppo" dei
collaboratori di Danilo. Poi ho letto molti suoi articoli prima sui
"Quaderni Piacentini", da ultimo su "Linea d'ombra", se pure
disordinatamente.
Non sapevo di avere con Fofi tanti pensieri, maestri, amici, comuni. L'ho
scoperto leggendo questo bel libro, amaro e aspro (sin troppo aspro, a mio
parere, in certi giudizi su alcune persone). Sapevo della sua amicizia con
Panzieri, che aveva affascinato molti giovani come lui per il rigore
dell'impegno politico mai disgiunto dalia passione per la ricerca. Avevo,
invece, un'idea vaga della sua ammirazione ed amicizia per Aldo Capitini,
cui e' dedicata, insieme con Panzieri ed Elsa Morante, la prima sezione del
libro, intitolata "Tre maestri" (curiosamente scrissi anch'io molto tempo fa
un articolo con lo stesso titolo, ma si trattava piu' dimessamente di tre
professori del mio liceo). Recentemente ho appreso, leggendo "Linea
d'ombra", della attrazione esercitata su di lui dallo sconosciutissimo, in
Italia, Guenther Anders, da cui anch'io avevo avuto la prima ispirazione,
presentando la traduzione italiana di un suo libro, segnalatomi da Renato
Solmi, ad interrogarmi sulla minaccia della guerra atomica. Tanto forte
questa attrazione da provocare un serio contrasto con Panzieri, come si
legge nelle pagine che lo riguardano, per quel tanto di "settario" che aveva
impedito al gruppo di capire che Anders, con il suo pensiero critico e
fideistico, era "piu' vicino alla verita'" (p. 34). Abbiamo condiviso
l'amicizia con Ada Gobetti, di cui Fofi mette bene in evidenza l'utopia
concreta - l'averci insegnato che tra il dire e il fare non c'e' di mezzo il
mare, ma solo la nostra pigrizia e la gioiosa generosita'. Non avrei
immaginato infine di trovare, fra i personaggi del libro, Manlio
Rossi-Doria, del quale serbo tanti cari ricordi: i miei primi viaggi negli
Stati Uniti e l'ultima passeggiata di qualche anno fa per le vie di Torino,
a passo lentissimo, osservando cose e costumi dei torinesi e discorrendo dei
meridionali immigrati. Nell'elogio di Rossi-Doria sono elencate le qualita'
del maestro ideale: l'indipendenza di pensiero, la tensione pratico-utopica,
la chiarezza dei rapporti tra mezzi e fini, entusiasmo e "persuasione"
(parola il cui profondo significato solo un capitiniano puo' capire) (p.
175).
Mi trovo a concordare quasi sempre coi giudizi che nel libro si leggono su
opere e autori. Per esempio, quando a proposito della Storia di Elsa Morante
scrive che essa "fu anche una messa in guardia rivolta, dalla parte delle
vittime della Storia, alle vittime stesse e a coloro che si assumevano il
compito di guidare la loro liberazione, col perenne rischio di ripercorrere
strade che avevano portato a nuovi domini e oppressioni" (p. 38). Sono
anch'io convinto che L'orologio di Carlo Levi, che Fofi chiama "bellissimo",
sia "il miglior romanzo politico della nostra letteratura". Credo anch'io
che Palomar, che egli definisce "un'autobiografia filosofica", sia il libro
piu' affascinante di Calvino (ne ho parlato io stesso su questa rivista
qualche tempo fa). E infine sono anch'io un ammiratore di Altan (e'
difficile non esserlo). E poiche' Fofi ne cita alcune vignette, mi sia
permesso di citarne a memoria una anch'io, feroce, in segno di omaggio. Un
padrone passa accanto a un operalo che lavora con due uncini al posto delle
mani e gli dice: "Coraggio, piu' di due volte non puo' succedere".
*
Il libro ha per sottotitolo Diario pessimista. Ma Fofi e' davvero un
pessimista? Non direi. O almeno e' un pessimista scontento di esserlo, che
si sforza di non esserlo. A una continua polemica con gli ottimisti faciloni
(una razza che si va estinguendo pero'), per i quali viviamo nel migliore
dei mondi possibili, fa da contrappunto una polemica altrettanto serrata coi
pessimisti faciloni, per i quali, il mondo va in rovina ma non c'e' niente
da fare. Vi e' un passo in cui vengono distinti tre tipi d'intellettuali:
coloro che si appagano di cio' che esiste, gli apocalittici "non
riconciliati", i "non soddisfatti", i quali non rinunciano a immaginare un
mondo migliore e si danno da fare, senz'illusioni, a cambiarlo (p. 106).
Fofi si schiera decisamente con questi ultimi, anche se, ma questo lo
aggiungo io, per i primi non ha che disprezzo, coi secondi, invece, sente il
bisogno di confrontarsi, perche' chi ha elevato a suo maestro Anders corre
il pericolo continuamente di "apocalittismo". Ma contro la disperazione
dell'apocalittico reagisce: "Sono portato a credere anch'io che il mondo va
verso la sua rovina, ma in ogni caso, fino a un minuto prima che questo
avvenga, occorre battersi per contrastarlo" (p. 177). C'e' anche un passo in
cui confessandosi con estrema sincerita', dice: "Sono un po' apocalittico
anch'io" (p. 105). A proposito del Palomar di Calvino, protesta contro la
"piccola rigorosa apocalissi da camera" che esso c'insegna, ma precisa
subito dopo: "Non abbiamo nulla contro le apocalissi e ci pare impossibile e
insensato non sentirsi oggi degli apocalittici" (p. 181). Ma una volta
assunta l'ipotesi dell'apocalissi, come si fa a stare con le mani in mano ad
attenderla, a non fare nulla per impedirla? A questo punto, nel continuo
sforzo che Fofi compie per definire la sua posizione di "chierico" gli si
presenta un'altra contrapposizione, quella fra "iperrealisti" che si
consolano di cio' che quotidianamente accade anche se ne provano orrore, e
"serafini", che "dall'alto dei cieli guardano disincantati le miserie nostre
e le macerie della storia, con gaudente e corrucciato fervore" (p. 181).
Tutti e due, se pure per ragioni opposte, stanno a guardare. A chi rifiuta
di appartenere agli iperrealisti e ai serafini occorre invece una "morale
attiva", che non rinunci ai valori tradizionali ma li sostanzi di "analisi
radicali" invece che di progetti velleitari. Chi parla cosi' e' uno che e'
passato di delusione in delusione in questo "sgradevolissimo paese" (p. 13).
Ma, come si vede, le delusioni non lo hanno scoraggiato. Aveva cominciato il
suo tirocinio di utopista concreto con Danilo Dolci, ma a un certo punto si
rende conto che questa pur nobile esperienza si e' isterilita, e lo
abbandona. Inizia a collaborare a "Il Nuovo Corriere", "uno dei migliori
quotidiani d'Italia", ma era un giornale troppo libero per i duri comunisti
d'allora e viene bruscamente soppresso. Partecipa al gruppo della sinistra
radicale di Panzieri, ma quando si accorge che questo radicalismo non e'
radicale abbastanza di fronte alla negazione della violenza, se ne va e
considera ''definitivamente chiusa'' questa nuova prova. Poi e' venuto il
'68, che ha suscitato nei giovani non conformisti tante speranze, ma anche
questa grande agitazione e' finita male in ''fallimenti brucianti" (p 177).
Si legga, esemplare, la Lettera a Lotta Continua sulla violenza (p. 62 e
ss.). Cosi il mai soddisfatto ha finito per trovarsi sempre dalla parte dei
perdenti. "Purtroppo finiscono per vincere sempre loro" (p. 55). ''Abbiamo
fallito quasi in tutto" (p 55). Non poteva del resto essere altrimenti per
chi ha sempre creduto che la vera vocazione del chierico fosse quella, come
gli aveva insegnato Elsa Morante, di mettersi dalla parte delle vittime.
Aveva cominciato molto presto a Parigi, negli anni cinquanta, a provare, da
un lato, una profonda antipatia per tutto cio' che sapeva di Terza
internazionale e, dall'altro, per i valori sbandierati e non creduti del
mondo occidentale. E gliene era venuto un profondo disgusto per "l'enorme
inesauribile capacita' degli intellettuali di scendere a patti, di mentirsi
e mentire, di voltar gabbana, d'inventarsi fittizie autonomie nel momento
del piu' brutale servizio verso questo o quel potere" (p. 189). Si capisce
che un giovane che aveva avuto cosi' presto simili avversioni era
predestinato alla solitudine, a diventare, come si legge nella prefazione,
"un piccolo savonarola esacerbato e scontento". In un breve saggio su
Orwell, ammirato per l'onesta' e il coraggio, scrive le parole piu'
sconsolate, che sembrano preannunziare il rifiuto definitivo del mestiere
sempre piu' impraticabile e inutile del chierico: "Un modello, Orwell,
seguire il quale e' oggi un'impresa piu' difficile che mai perche' sempre
piu' ci si domanda che senso puo' avere ancora, nella presente situazione,
scrivere e parlare. In nome di che cosa. Per chi" (p. 191).
Nonostante tutto, nonostante "l'abominevole contesto che ci macina" (p.
217), Fofi crede ancora alla speranza che nasce dalla disperazione. Anche la
speranza che nasce dalla disperazione, egli dice, ha le sue ragioni (p.
183). Ma sono "ragioni", o non sono forse impulsi, affetti, emozioni,
volonta' di credere? Inutile chiedere una risposta a questa domanda. La sola
risposta, che rinvia a un'ulteriore domanda, e' quella secondo cui la
speranza che nasce dalla disperazione deve essere sorretta da "una morale
superiore" e nutrita da "una ostinata aspirazione alla liberazione di tutti"
(p. 188). "Liberazione di tutti" e', come ognun vede, una espressione
capitiniana. Il messaggio di Aldo Capitini e' forse l'unico che per Fofi si
sia salvato dal "disastro" in cui sono precipitati tutti i movimenti. Ma e'
rimasto sinora inascoltato.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1017 del 9 agosto 2005

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