Nonviolenza. Femminile plurale. 2



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 2 del 10 marzo 2005

In questo numero:
1. Nello Scardani: Ancora dieci parole della nonviolenza riflessi in dieci
volti di donne
2. Anna Bravo e Giovanna Fiume: Gli anni Settanta, la violenza, i movimenti,
le donne
3. Ida Dominijanni: Il taglio dimenticato
4. L'indice del numero tre di "Per amore del mondo"

1. MAESTRE. NELLO SCARDANI: ANCORA DIECI PAROLE DELLA NONVIOLENZA RIFLESSE
IN DIECI VOLTI DI DONNE
[Da "La nonviolenza e' in cammino" n. 600]

Carla Lonzi, o della forza della verita'

Piu' passa il tempo e piu' diventa chiaro
che quelle parole scritte sulla carta vetrata
trent'anni fa, ancora c'interpellano.

Piu' passa il tempo e piu' diventa urgente
quel nitore di sguardo e di voce
per contrastare l'orrore presente.
*
Maria Zambrano, o della coscienza

La coscienza e' l'esilio
e l'esilio e' il ritrovarsi.

Perso tutto, allora resti tu.

Ed il pensiero che pensa e che ricrea
un mondo intero infine abitabile
da tutte tutte le persone umane.
*
Marina Cvetaeva, o dell'amore

Nessuno mai amo' quanto Marina:
amo' la luce e la terra, i corpi e i sogni e le parole.

Amo' le vite delle persone
si oppose sempre al cenno del carnefice.
*
Violeta Parra, o della festa

Conosceva la tristezza dalla coda lunga
come la Ande e fino in Patagonia.

Sapeva stringere i denti e lottare
masticando le erbe piu' amare, senza arrendersi mai.

Smascherava i fascisti col grido e col riso
e col ragionamento,
insegnava ad ascoltare lo zittito, l'offesa, gli inermi.

Ed abbracciata alla chitarra con la voce
rompeva catene, cavalcava le nuvole, dava sollievo
muovendo al coro e alla danza.

Al popolo restituiva
la dignita' rubata dai padroni.
*
Georgia O'Keeffe, o della sobrieta'

Per arrivare all'essenzialita'
occorre liberarsi dai feticci
spogliarsi dai viluppi di fantasmi
alla lusinghe del superfluo dire no.
Ed asciugarsi, andare nel deserto.

E solo allora trovi la scala
che dalla terra porta alla luna.
*
Marianella Garcia, o della giustizia

Salvare anche i morti
restituir loro il volto,
allo scempio compiuto dai carnefici
opporre infinita la pieta'.

E cosi' salvare coloro che verranno
dalla ripetizione incessante dell'orrore,
cosi' salvare l'umanita' presente,
cosi' rendere bene per male.
*
Rosanna Benzi, o della liberazione

Io la ricordo come una voce
che mi giunse qualche volta da un telefono
da Genova, dal polmone d'acciaio.

Ma la ricordo anche come donna
che volle vivere una vita piena
di affetti e di lotte, di verita'
che affronta il dolore e nessuno abbandona
nelle fauci dell'orco, nessuno
nel pozzo nero della solitudine
lascia che sia gettato.

Di liberazione maestra
non piu' dimenticata.
L'apertura che Capitini disse
in lei si era incarnata.
*
Ginetta Sagan, o del potere di tutti

Partecipo' alla Resistenza
fondo' Amnesty International
rese l'umanita' piu' buona e piu' forte.

Ancora chiama la sua voce all'azione
e chiama te.
*
Emily Dickinson, o della bellezza

Si puo' condurre una vita segreta
e donare al mondo tanta luce
che io che leggo ogni volta mi chiedo
quanto dolore costo' tanta gioia
quanta fatica tale levita'.

Si puo' essere sola e in solitudine
essere gia' figura dell'intero
genere umano, e lieve silenziosa
essere gia' di quella
societa' delle estranee che il mondo
ha da salvare, da mettere al mondo.
*
Margarete Buber-Neumann, o della persuasione

I campi, e nei campi l'umanita'.
I campi, e contro i campi l'umanita'.

Dire la verita', salvare quel che resta
delle vittime, contrastare
il totalitarismo che genera i campi
ed ogni ora si riproduce.
Ed ogni ora devi contrastare.

Saper distinguere tra i ruoli, le idee
astratte, e concreta la carne che soffre.
Saper riconoscere il bene e non sottrarsi.
Fare la scelta di salvare le persone.

2. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO E GIOVANNA FIUME: GLI ANNI SETTANTA, LA VIOLENZA,
I MOVIMENTI, LE DONNE
[Dal sito www.donnealtri.it riprendiamo il seguente testo che costituisce
l'introduzione ai saggi pubblicati nell'ultimo numero della rivista
"Genesis". "Genesis" e' la rivista della Societa' italiana delle storiche.
Il numero in libreria si intitola Anni Settanta ed e' a cura di Anna Bravo e
Giovanna Fiume.
Anna Bravo, storica e docente universitaria, si e' occupata tra l'altro di
Resistenza, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; ha fatto parte
del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita
promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte. Opere
di Anna Bravo: La vita offesa (con Daniele Jalla), Angeli, Milano 1986; Una
misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia (con
Daniele Jalla), Milano 1994; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza,
Roma-Bari 1991; In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945 (con Anna
Maria Bruzzone), Laterza, Roma-Bari 1995.
Giovanna Fiume insegna storia moderna presso la facolta' di Scienze
politiche dell'Universita' di Palermo. Fa parte della direzione di "Quaderni
storici", della redazione della "Rivista di storia delle donne" e del
comitato scientifico di "Crime, histoire & societes". Ha pubblicato: La
crisi sociale del 1848 in Sicilia (Messina 1982); Bande armate in Sicilia.
Violenza e organizzazione del potere, 1819-1849 (Palermo 1984); La vecchia
dell'aceto. Un processo per veneficio nella Palermo di fine Settecento
(Palermo 1990). Ha curato il volume Madri. Storia di un ruolo sociale
(Venezia 1995) e Il santo patrono e la citta', San Benedetto il Moro. Culti
strategie, devozioni di eta' moderna (Venezia 1999). Con M. Modica ha
pubblicato Benedetto il Moro. Santita', agiografia e primi processi di
canonizzazione (Palermo 1998)]

Gli anni Settanta (meglio, gli anni fra il sessantotto e la fine del
decennio successivo) trovano ormai regolarmente spazio all'interno della
storia dell'Italia repubblicana come "stagione dei movimenti", come inizio e
apogeo del terrorismo, come fase di passaggio dal blocco del quadro
politico, alla solidarieta' nazionale, al nuovo ruolo del Psi.
E' uno sguardo attento al contesto verticale, in cui vicende e fenomeni
rivelano le loro radici diverse e diversamente datate. Non si puo' parlare
di stagione dei movimenti senza rifarsi alla cultura e alla scolarizzazione
di massa, alle sottoculture giovanili nate anche in Italia nei decenni '50 e
'60, al mercato dei nuovi consumi, ai modelli familiari - e sono solo gli
aspetti piu' evidenti. Non si puo' parlare delle lotte operaie senza tenere
conto delle tensioni degli anni precedenti al '68, della grande emigrazione,
della nascita dell'operaio-massa, della durezza del sistema di fabbrica, che
l'autunno caldo disarticola e che la ristrutturazione industriale della
seconda meta' del decennio punta, fra ritorsione e esigenze produttive, a
restaurare.
La stessa pratica della violenza chiede di essere collocata sullo sfondo di
una politica dell'ordine pubblico storicamente aggressiva, della tradizione
antiriformista della sinistra, dei non pochi casi in cui in Italia e' stata
la piazza a decidere del destino dei governi, e non ultimo della profonda
debolezza dei sentimenti civici.
Al centro, spicca il problema della controversa modernizzazione italiana,
che incrocia da piu' punti di vista la storia delle donne e quella dei
giovani. Nel decennio Settanta si varano riforme importanti sui diritti dei
cittadini e sulla tutela del lavoro, dalla legge 180 per la chiusura
progressiva dei manicomi, all'istituzione delle Regioni, allo Statuto dei
lavoratori. Alcune leggi riguardano proprio i giovani (il riconoscimento
dell'obiezione di coscienza, l'abbassamento della maggiore eta' a 18 anni) e
le donne (l'introduzione del divorzio, il nuovo dritto di famiglia, la
creazione dei consultori familiari, la legalizzazione dell'aborto, la legge
in materia di parita' salariale e di tutela del lavoro); grazie a magistrati
che sollecitano un giudizio di costituzionalita' su singole norme dei vecchi
codici, nel '68 viene cancellata la norma del codice Rocco che considerava
reato l'adulterio femminile, nell'81 sono aboliti gli articoli che
concedevano attenuanti per il "delitto d'onore". Nell'insieme si tratta di
un programma di innovazione/incivilimento.
Ma a mancare - giudizio unanime - e' la riforma base, quella dello stato,
che resta una macchina autoritaria, inefficiente e inadempiente, in cui
tutti i servizi sono male amministrati e prevale l'interesse dei partiti,
che, compreso il Pci, in modi e misura diversi hanno invaso la societa'
civile e si curano ben poco di migliorare il funzionamento dello stato.
Peggio ancora quando l'applicazione delle riforme e' affidata alla capacita'
di mediazione della politica, che anzi accentua i suoi caratteri di chiusura
e autorefenzialita' - i Settanta sono anche gli anni della transizione dallo
stato dei partiti a un sistema di partiti di Stato. Il paradosso e' che si
seguono in via teorica i migliori principi, mentre nello stesso tempo si
lasciano immutate le condizioni che li vanificheranno. Se ogni paese ha la
sua anomalia, questa e' davvero vistosa. Ci sono poi casi in cui la
normativa e' ambigua all'origine, e fa testo la legge sull'aborto, che da'
l'ultima parola alle donne (maggiorenni), ma dopo un iter lungo il quale si
esprime e pesa il potere del medico.
La modernizzazione e' un punto chiave anche nei testi dove si mette invece a
tema il decennio seguendo piu' versanti, il passaggio dallo sviluppo
economico degli anni Sessanta all'arretramento dei Settanta, il diffondersi
e inasprirsi delle tensioni politiche e sociali, e naturalmente il ruolo dei
giovani e delle donne. Il paese mancato, di cui al titolo del libro di Guido
Crainz, non e' solo il paese dallo sviluppo caotico e dalle riforme sulla
carta (come la legge 180), e' anche quello dove uno spaccato di generazione
rimane stretto fra terrorismo, violenza statale, sordita' dei partiti e
fatica a convertire in passione civile quotidiana le grandi speranze
insoddisfatte - una difficolta' che convive con il segno profondo impresso
dai movimenti sulla cultura, sulle mentalita', sull'immagine della politica
e sulla sua pratica, i terreni piu' nettamente e durevolmente trasformati.
La deriva di molti giovani non e' la sola peculiarita' italiana, basta
pensare al "lungo '68" (su cui non e' stata detta l'ultima parola), al
terrorismo di sinistra (condiviso con la Germania, ma con un'area di
simpatia piu' ampia), allo stragismo della destra eversiva, ai reali o
presunti progetti di golpe.
*
L'attenzione al contesto orizzontale suggerisce ulteriori interrogativi.
Pensiamo, per esempio, ai limiti della tesi dell'individualismo acquisitivo
di fronte a una fase in cui la spinta al miglioramento di status non si
traduce in strategie a livello personale, ma in una stagione di lotta. Ai
meccanismi attraverso i quali un decennio che si apre con il sogno di
"despecializzare" la politica (e che in effetti rompe il monopolio dei
partiti), sbocca poi, sia nei movimenti sia nelle istituzioni, in una sorta
di revival di culture politiche da immediato dopoguerra, e si chiude con la
rispecializzazione della politica e con un diffuso disamore verso la cosa
pubblica. Pensiamo al problema della possibile parentela tra fenomeni
diversi, come le lotte in fabbrica e le spinte corporative in alcuni settori
dell'impiego pubblico, o la nascita dei micropartiti e il perdurare del
libertarismo. Sempre, naturalmente, che una parentela esista - non c'e'
alcun aspetto di riemersione o di carsismo nel movimento del '77, i suoi
attori sono semplicemente altra cosa rispetto agli studenti del '68.
Per Mariuccia Salvati sono due i lasciti riconducibili alla "stagione dei
movimenti": "l'amore (la solidarieta', la difesa del welfare, che si puo'
tradurre anche in chiusura corporativa) e la rabbia (l'affermazione
individualistica, il rifiuto di ogni autorita', ma anche la scoperta delle
nuove ingiustizie della societa' moderna)". Aggiungeremmo il fermo sospetto
verso le verita' ufficiali. Che i due filoni trovino o meno credito "presso
i nuovi Peter Pan a noi spetta comunque il compito di aiutarli a distinguere
fra mito e realta'".
Il noi coinvolge prioritariamente gli studiosi/protagonisti, come sono
alcune delle autrici, cui tocca lo sforzo di far fruttare l'"esserci stato"
dello storico senza trasformarlo nella verita' della storia. Problema
dell'intera (e molto molto ex) "giovane sinistra", che non consiste tanto
nel diverso peso assegnato a alcuni momenti (e' anzi interessante, per
esempio, che esistano molte versioni della "fine del sessantotto"), quanto
nella difficolta' di selezionare gli eventi: se, come diceva Seurat,
dipingere e' l'arte di svuotare una tela, qui si tratta di svuotare una tela
di cui si e' parte; la tentazione puo' essere allora quella di farci entrare
tutto, le idee strutturate, quelle in farsi e quelle fisse, gli eventi e i
minimi particolari, i barlumi, le schegge: la mappa dell'impero, cosi'
accanitamente dettagliata da ridursi a una duplicazione inutile del reale.
Forse non e' l'ultima delle ragioni di una certa renitenza a studiare anni
cruciali sia per la storia dell'Italia repubblicana, sia per quella dei
giovani e delle donne del XX secolo.
*
Mentre il dilemma del testimone riguarda anche il femminismo, le sue
specificita' si palesano su altri piani, non necessariamente di contenuto.
Il movimento delle donne e' l'unico per cui si puo' parlare di decennio,
visto che i suoi inizi e la fine di una sua fase coincidono grosso modo con
i primi e gli ultimi anni Settanta. E' l'unico per cui ha qualche senso la
metafora del carsismo; sebbene le ragazze che negli anni Settanta sfilano in
corteo per l'aborto libero, gratuito e assistito possano sembrare del tutto
aliene agli occhi delle femministe originarie (e viceversa), le une e le
altre fanno parte di una medesima corrente di rifiuto del modello
emancipativo, e di ricerca di un'autenticita' fondata in se stesse e nel
rapporto con le proprie simili.
Non solo: il movimento delle donne e' quello che piu' ha vissuto e
denunciato i limiti della modernizzazione italiana - oltre all'aborto e alle
carenze dei servizi pubblici, la commercializzazione dell'immagine femminile
e l'accentuata identificazione fra la liberta' delle donne e la loro
disponibilita' sessuale, stereotipo di comodo cui il '68 e la nuova sinistra
hanno dato impulso e legittimita'. Infine, quello delle donne e' il
movimento che piu' ha inciso sulla trasformazione delle culture e dei
comportamenti quotidiani (molto meno sulla politica). Come conquista civile
o come segnaletica del politically correct, il linguaggio di oggi e' figlio
della strana coppia studenti del '68/donne degli anni Settanta, non meno che
di internet e della tv.
Una ricognizione sullo stato degli studi sul femminismo degli anni Settanta
deve essere ancora affrontato compiutamente sul piano storiografico.
Sporadicamente si e' ritornate su quella stagione storiografica per trarne
un bilancio complessivo o piuttosto locale (il femminismo milanese, il
movimento delle donne in Emilia Romagna, quello catanese, ecc.). Per diverse
buone ragioni la memoria di quegli anni non ne ha ancora prodotto la storia
e occasionali sono stati i tentativi di esprimere la ricchezza del movimento
per la difficolta' di travalicare la trasmissione orale di quegli anni e di
raccontare l'intreccio tra corporeita' e teoria; per le caratteristiche
della documentazione scritta e orale del movimento; perche' ci vuole tempo e
lavoro per trasformare la memoria in una fonte storica e, anzi, la memoria
puo' essere persino irriducibile; per "la mancanza di una interpretazione
consensuale del nostro passato politico"; per la rimozione di alcuni temi
decisivi, quale ad esempio la violenza; per la perdita di tensione tra
sessualita' e saperi; per la mancanza di domanda politica: a chi sarebbe
servito quel bilancio?
Anche per il femminismo siamo in attesa di una storia che metta vicende e
posizioni teoriche in confronto fra loro e in rapporto con gli eventi di
quegli anni.
Alla felicita' narrativa che si coglie in alcuni testi, contribuisce, credo,
la scelta di lasciare fra parentesi un "esterno" che in quegli anni e' piu'
che mai invadente, affascinante, confuso, a volte terribile, di costruire
una trama a se' e un campo di vincoli autonomo. Ma la liberta' delle donne,
compresa la liberta' dai canoni storiografici e dagli incroci obbligati fra
storia del femminismo e altre storie, ha un prezzo e un rischio. Ida
Dominijanni in una recensione a Non credere di avere dei diritti, a
proposito del patto sociale fra donne proposto dalle autrici, scrive che i
prezzi da pagare sono due: "il debito simbolico verso la madre" e "la
scotomizzazione di esperienza e di pensiero che una tale vincolante scelta
di fedelta' alle ragioni del proprio sesso comporta - a suo modo
l'elaborazione di un lutto". Punto di rischio, beninteso, non equivale a
punto debole, ne' la storia e' l'erede universale del passato; ci sono
esperienze che sarebbe velleitario spingere a forza al suo interno, e
autolesionista declassarle a scorie o a pulviscolo ornamentale. Resta il
fatto che uno dei testi piu' noti degli anni Ottanta, a meta' fra storia e
memoria, come Non credere di avere dei diritti, sorvola sul contesto sia
verticale sia orizzontale - il che, insieme al linguaggio disteso e poco
gergale, puo' essere una ragione del suo successo. Vale la pena di inserire
anche questa ipotesi nel dibattito sulle forme in cui si puo' trasmettere la
nostra storia.
*
Queste e altre ragioni hanno giocato a favore del silenzio delle donne sulla
storia di quegli anni. Un silenzio che rasenta la reticenza. Scrive Lea
Melandri: "Ma se e' calata sul primo femminismo una dimenticanza cosi'
tenace e' perche' la scrittura e la memoria del singolo [...] hanno
incontrato da subito le spinte opposte di una 'generalizzazione' che
subordinava a criteri di 'universalita'' e 'appartenenza' la materia
concreta di cui e' fatta ogni vita". Le stesse corde tocca Maria Luisa
Boccia: "Abbiamo desiderato, amato, detestato, subito e agito attraversando
ambivalenze e ricchezza di uno scambio tra individuale e collettivo che ha
costituito la cifra peculiare di un vissuto denso di politica. E' difficile,
per non dire impossibile, tradurre questa densita' in un bilancio
trasparente e lineare; molto piu' semplice e' congedarsi, come si addice al
tempo della giovinezza".
Luisa Passerini ha suggerito la difficolta' di separare il soggetto
dall'oggetto della ricerca e ha evidenziato tutti i rischi e limiti
dell'identificazione di storico e di testimone e tutti gli autori dei saggi
qui raccolti se ne dichiarano, a vario titolo e argomentazione, persuasi.
Alle riflessioni avanzate nei singoli saggi, occorre aggiungere non solo
"l'obiezione della donna muta", quella che non voleva essere interpretata e
rappresentata nei collettivi, nelle battaglie politiche e nemmeno nelle
teorizzazioni onnicomprensive e totalizzanti, ma anche quella di chi obietta
agli antropologi di volere mettere "la nostra vita nelle vostre opere".
E poiche' non e' accademico il fine del nostro interesse, questa domanda
apre un ulteriore fronte di discussione sulla necessita', avvertita sempre
piu' largamente, di fare un bilancio storico degli anni Settanta: essere
stati testimoni equivale ipso facto a essere legittimate a farne il
bilancio? Se "vita" e "opere" coincidono, di che bilancio si tratta? Si
produce una storia o una sua fonte? La presa di distanza consiste solo nel
fatto che e' purtuttavia trascorso un trentennio? E come ci si distanzia da
se stesse? Emmanuel Betta ed Enrica Capussotti argomentano la necessita' che
sia la generazione successiva a produrre quel bilancio per "decostruire i
miti di quella stagione, relativizzandone il progetto di trasformazione,
spesso annullandolo del tutto", come accade nei romanzi da loro citati, dove
e' "il giovane" a agire per la riconciliazione. La messa in discussione
della "egemonia della testimonianza" di chi puo' dire "io c'ero", che pesa
come un macigno su questo tema, sblocca finalmente la possibilita' di
confliggere sulla ricostruzione di quel "passato" e rende piu' evidenti gli
interessi in campo. D'altronde sappiamo bene come scrivere e riscrivere la
storia sia parte di un conflitto di legittimazione di cui la formula
dell'"uso pubblico della storia" e' stata una comoda e ideologica
semplificazione. E dunque?
Dunque parliamone. L'intento del numero della rivista, correndo i rischi
impliciti in questa proposta, e' quello di mettere in agenda la necessita'
di discutere degli anni Settanta in modo problematico, ma franco, aprendo,
in modo talvolta persino doloroso, una serie di fronti che aiutino a
ripensare uno snodo centrale della nostra storia individuale e collettiva.
*
Anna Bravo si concentra su un unico tema, la violenza, non quella dello
stato o dei gruppi neofascisti, ma quella di cui le donne attive negli anni
Settanta portano in vario grado una responsabilita' per averla agita,
tollerata, misconosciuta. Due gli ambiti presi in considerazione. Il primo
e' l'aborto, in cui il corpo femminile e' oggetto di manipolazione cruenta e
nello stesso tempo tramite dell'aggressione contro il feto. Dopo aver
delineato lo sfondo storico e le caratteristiche della campagna per la
depenalizzazione, l'Autrice sottolinea come spesso si siano trascurate le
ambivalenze dell'esperienza femminile, e soprattutto il tema del dolore.
Dolore della donna, possibile dolore del feto, che oggi vari studi di
fisiologia e psicobiologia prenatale ritengono sia da prendere in
considerazione a partire dalla diciassettesima settimana. Su quest'ultimo
punto, il movimento ha mostrato una mancanza di immaginazione che gli ha
impedito di distanziarsi dal discorso medico-scientifico, di cui stava
denunciando la simulazione di neutralita' su altri terreni.
Il secondo ambito e' la violenza della sinistra extraparlamentare, praticata
nelle manifestazioni di piazza e negli scontri con i neofascisti, una
violenza le cui radici di lungo e breve periodo erano cosi' forti da
offuscare la presenza di alternative che pure esistevano. Nonostante la
partecipazione di molte donne a azioni e manifestazioni, nonostante alcuni
tentativi di individuare forme specifiche di violenza femminile (per esempio
l'isteria), l'atteggiamento prevalente nelle varie componenti del femminismo
e' stato quello di ribadire il principio dell'estraneita', senza entrare nel
merito di derive devastanti, come la disumanizzazione della parte avversa e
la perdita di ogni compassione verso le sue vittime. Nei quasi trent'anni
trascorsi da allora, il dibattito sulle responsabilita' personali e
collettive non ha praticamente raccolto opinioni di donne, come se il
femminismo, nel suo aspetto di seconda nascita, avesse fatto tabula rasa dei
coinvolgimenti e delle storie precedenti. Che sulle violenze di oggi si
esprimano invece varie voci femminili fa pensare all'Autrice che il quasi
silenzio sugli anni Settanta sia soprattutto una questione di biografia
individuale e collettiva.
*
Si sofferma brevemente sulla vicenda dell'aborto Elda Guerra, che nella
ricognizione sullo stato degli studi dedicati al neofemminismo, ancora senza
scatti significativi rispetto alla produzione degli anni Ottanta, individua
alcuni fattori del ritardo, a partire da un approfondimento del significato
da attribuire alla stessa definizione di "femminismo degli anni '70": per
esempio, la complessita' del rapporto storia e memoria, i problemi sul piano
delle fonti e della loro traducibilita' che derivano dall'oralita' e dagli
scambi avvenuti all'interno dei gruppi di autocoscienza, lo sventagliarsi
del movimento in molte esperienze di grado e livello diversi.
Snodi cruciali del dibattito attuale, non solo italiano, come non sono solo
italiane la pluralita' e l'eterogeneita' (ormai tutti gli studi piu' recenti
usano il plurale feminisms o movements), e la differenza fra la ricchezza
del pensiero e della ricerca femminista, e la scarsa presenza del femminismo
nella storiografia delle donne.
Al centro dell'analisi e' comunque il caso italiano, al cui interno due nodi
in particolare interessano l'autrice: il primo e' il rapporto tra il
femminismo e gli altri movimenti degli anni Settanta, un rapporto non
univoco, segnato da discontinuita' e temporalita' diverse, e variamente
interpretato a seconda che si sottolinei il contesto dei movimenti o quello
verticale costruito, a partire dal primo femminismo, sul filo
dell'iniziativa pubblica delle donne. L'opinione dell'Autrice e' che nei
movimenti molte donne trovino maggiori possibilita' di esprimersi, ma anche
di sperimentare in prima persona gli squilibri legati alle relazioni tra i
sessi e i generi.
Il secondo punto e' il tema delle fasi, dei passaggi e delle trasformazioni
intervenute alla fine del decennio. Nel dibattito sulla capacita' o meno del
femminismo di andare oltre la meta' degli anni Settanta, Guerra propone una
visione in cui "il movimento" rappresenta solo una delle forme e delle
articolazioni possibili della cultura delle donne, che vive anche in un
reticolo diffuso di centri, librerie, case delle donne, riviste, che fanno
sentire la loro influenza nella sfera pubblica. Ne nasce una periodizzazione
che porta la vicenda del femminismo contemporaneo oltre il passaggio degli
anni Settanta, nel cuore degli anni Ottanta e del "femminismo diffuso" e che
nutre l'auspicio di una visione del femminismo come espressione sul piano
politico della soggettivita' femminile: molti femminismi, dunque, da
studiare nel loro rapporto con la transizione e la crisi di fine secolo, in
altre parole con la crisi della modernita'.
*
La forte affermazione dell'importanza della presenza delle donne in molti
passaggi della storia politica dell'Italia repubblicana, malgrado la loro
assenza nei luoghi della decisione politica, caratterizza il saggio di Paola
Gajotti che, pur nella consapevolezza dell'ambiguita' di una ricostruzione
che intreccia memorie personali e ricerca, legge in un'ottica di genere il
tema dei cattolici di fronte alla battaglia per l'aborto, "concentrandosi
sull'interazione fra una oligarchia politica prevalentemente maschile e una
pressione femminile piu' esigente e determinata". L'incredulita', la
sorpresa, lo spiazzamento della chiesa e dei cattolici di fronte agli esiti
delle battaglie referendarie, la sottovalutazione degli effetti dello
sviluppo e delle nuove liberta' sulle donne e sulle relazioni familiari, la
semplificatoria visione dell'evoluzione del mondo delle donne da parte delle
grandi organizzazioni femminili cattoliche di fronte allo "emergere di una
parte oscura e mai detta della storia umana, rimossa, esorcizzata e coperta
[...] che improvvisamente riaffiorava con il suo 'diritto di cittadinanza',
fuori da ogni categoria concettuale sistemata", stanno tutti dentro il
paradosso della societa' italiana a partire dal dopoguerra di "un processo
di modernizzazione politicamente guidato da cattolici che ha prodotto [...]
un intenso processo di scristianizzazione".
Pensare all'aborto come peccato, come caduta etica, banalizzare la
sessualita' e la liberta' delle donne, fare una battaglia teorica di
principio tagliava fuori i cattolici dal governo dei fenomeni sociali. La
ricostruzione delle fratture nel campo cattolico, della difficolta' del
dialogo tra le donne e del carattere di duro scontro politico che si
instauro', conduce a un giudizio severo sulla sconfitta del movimento
cattolico, sulla debacle parlamentare, sull'immobilismo della classe
politica che non pago' l'errore fatto fino alla battaglia referendaria del
1981, quando "si e' di fatto consumato il ruolo del cattolicesimo
democratico in Italia".
Di contro, le donne non si impegnarono a tradurre la loro forza e il loro
successo politico in una strategia di modernizzazione del paese, aggravando
ancora di piu' il loro rapporto con i partiti che viravano verso una
professionalizzazione del ceto politico, il rafforzamento delle correnti, lo
stretto legame tra politica e affari. Il rapporto tra riequilibrio di genere
della rappresentanza e i caratteri del sistema politico sono strettissimi e,
nell'opinione dell'Autrice, se le donne non assumeranno la leadership del
rinnovamento, dovranno accontentarsi a vivere di cooptazione.
*
Posto che il tema della violenza rappresenta il non detto, il rimosso, il
problema irrisolto, Emmanuel Betta e Enrica Capussotti, raccolgono la
provocazione e, quasi a chiudere il cerchio delle argomentazioni, additano,
avvalendosi anche della produzione letteraria e cinematografica, la
difficolta' delle ricostruzioni della storia dell'Italia di quegli anni a
confrontarsi con questo problema, la costruzione di un senso comune che
identifica gli anni Settanta con gli anni di piombo e li proietta
all'indietro, saldandoli alla stagione dei movimenti, trasformati cosi' nel
brodo di coltura delle manifestazioni successive, la necessita' di
recuperare la complessita' dei fenomeni studiati - la violenza era di destra
e di sinistra - radicandoli nel loro contesto. La difficolta' di raccontare
quella stagione manifesta "un grumo identitario che esprime retaggi ed echi
di stagioni passate nelle quali l'analisi doveva confrontarsi con l'accusa
di collateralismo o di fiancheggiamento". Forse e' la generazione
anagraficamente successiva, a cui i nostri due storici appartengono, a
proporre un rapporto disincantato con quella stagione, a fare diventare la
violenza un oggetto di studio come un altro, senza schiacciarlo con lo
stigma morale che pesa sugli "sconfitti", osando additare limiti e difetti
di progetti rivoluzionari e osando indagare dentro le ambiguita',
contraddittorieta' e rischiosita' di connessioni e rotture, contribuendo, in
definitiva, a che la generazione degli anni '70 elabori il lutto sulla fine
di una fase di grandi speranze di trasformazione sociale e politica per
potere tornare a interrogare la propria storia.

3. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: IL TAGLIO DIMENTICATO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 marzo 2005. Ida Dominijanni,
giornalista e saggista, e' una prestigiosa intellettuale femminista]

Fra i molti paradossi che la storia repubblicana ci consegna ce n'e' uno che
negli ultimi anni si rinnova puntualmente ad ogni 8 marzo, e consiste nella
beatificazione delle donne pagata al prezzo della dannazione del femminismo.
E' il filtro che la storia e la politica ufficiale impongono alla
rivoluzione femminile per spuntarne gli elementi originali e irriducibili:
la modernizzazione si', la critica della politica no; la parita' di diritti
si', la voce della differenza sessuale no. Si aggiunge a questo il
revisionismo spontaneo che parte dall'interno del femminismo come di tutti i
movimenti degli anni '70 per consegnare quella stagione alla vulgata del
"decennio maledetto", e ne rinfocola la memoria solo per deformarla e
addomesticarla a uso del mercato, o mercatino, politico di oggi.
Le donne contro il femminismo? La storia delle donne contro il punto di
vista della differenza nella storia? Il paradosso e' in atto. Vorrei
rileggere in questa chiave il dibattito suscitato nell'ultimo mese da un
saggio di Anna Bravo, Noi e la violenza. Trent'anni per pensarci, pubblicato
sulla rivista della societa' italiana delle storiche "Genesis" [ripubblicato
anche nei numeri 862-864 de "La nonviolenza e' in cammino"] e rilanciato con
clamore da un'intervista di Simonetta Fiori all'autrice su "Repubblica" del
2 febbraio. Replicando a una serie di successivi interventi polemici, Anna
Bravo ha rimproverato alle sue interlocutrici di non avere ben letto e
ponderato il suo saggio. Giuro che per parte mia l'ho letto e riletto, e non
per questo mi ha convinto piu' dell'intervista, anzi. Si tratta, come ormai
le/gli interessati sanno, di una lunga perorazione della tesi per cui "le
tante che negli anni '70 si sono sentite continuativamente, a tratti, in una
sola occasione parte del femminismo" avrebbero, anzi avremmo, perso la
bellezza di trent'anni senza nominare e rielaborare il nodo del rapporto fra
donne e violenza, su un doppio versante: la violenza verso il feto implicata
nell'aborto, e la violenza verso terzi implicata in alcune pratiche
politiche della nuova sinistra, dell'estremismo e del terrorismo.
*
La ricostruzione dell'autrice parte dalla "autoricerca" di un gruppo di
tredici ex-sessantottini durata tre anni, usata dall'autrice per quel che
sulla violenza dice e per quel che tace. Il rovello di fondo e' che il
femminismo - "rivoluzione pacifica, sostanzialmente vittoriosa, durevole" -,
vissuto dalle sue protagoniste come una "seconda nascita", abbia fatto
tabula rasa sulle "responsabilita' precedenti" delle militanti della nuova
sinistra e dell'estremismo, e non sia riuscito a smontare "le categorie
correnti sul nodo della violenza e della sofferenza".
Dell'aborto, Bravo dice che c'era fra le femministe "fatica a districarsi
fra la consapevolezza di essere vittime e quella di non essere solo vittime,
e non le sole": era ed e' vittima anche il feto, della cui "sensorialita'"
non ci saremmo mai occupate, questione che riporta a interrogativi di
bioetica e biopolitica che oggi, in tempi di procreazione assistita e
ricerca sulle staminali, diventano ancor piu' decisivi, primo fra tutti
quello della "responsabilita' anche verso chi non e' persona, chi non lo e'
ancora e non lo diventera', chi neppure sa di esserci".
Della violenza politica dei gruppi della nuova sinistra, Bravo denuncia la
mancanza - che in verita' non colma - di un pensiero originale che andasse
oltre "l'idea che la violenza sia un dato costitutivo della politica" o "la
vecchia distinzione fra azioni difensive e offensive"; il confronto mancato
con le pratiche di nonviolenza che pure nel '68 c'erano; l'identificazione
vincente nel "combattentismo maschile". Alle donne che prima della o
contemporaneamente alla pratica femminista condivisero la militanza
nell'estrema sinistra, rimprovera il silenzio sulla violenza allora e oggi.
Alle donne di Lotta Continua, organizzazione da cui proviene, Bravo
rimprovera - par di capire - un "esercizio di equilibrismo" fra fedelta'
all'organizzazione e scoperta femminista, mal compensato dalla pur eclatante
rottura nel congresso di Rimini del '76.
*
Nel merito di queste due tesi, entrambe a dir poco sorprendenti, molto e'
gia' stato contestato da quante sono intervenute su "Repubblica",
"Liberazione", "l'Unita'", contrapponendo alla versione di Anna Bravo non
solo altre memorie, ma documenti (il sito della Libreria di Milano sta
ripubblicando i piu' significativi sull'aborto), testi e bibliografia che
lei non considera (Paola Di Cori, su "Liberazione", e' stata particolarmente
severa sul punto) o considera senza crederci.
Sull'aborto, l'immagine del femminismo come un esercito incosciente
all'assalto di un diritto facile e gaudente urta la memoria sia delle
emancipazioniste, che tornano a mettere l'accento sui meriti della battaglia
contro la "piaga sociale" dell'aborto clandestino, sia delle femministe, che
lo mettono - lo mettiamo - sulla piega autocoscienziale che l'analisi
dell'aborto prese nei collettivi, costruendo un discorso diverso da quello
del diritto d'aborto di matrice radicale, e basato piuttosto sull'analisi
del desiderio di essere-non essere madre, delle fantasie legate alla
gravidanza, dei lapsus dell'inconscio, che portavano a gravidanze
indesiderate in anni di uso di massa della pillola, dei sensi di colpa verso
il non-nato, delle fantasie sui destini dell'embrione, della distanza fra il
vissuto femminile dell'aborto e la disinvoltura dell'intervento medico:
potrei raccontare ad Anna Bravo, che evidentemente nel frattempo faceva
altro, centinaia di ore di autocoscienza in materia.
Sulla violenza politica, e' stato fatto presente all'autrice che la sua
esperienza all'interno di Lotta continua a Torino, e il suo occhio puntato
piu' sul femminismo della "doppia militanza" che sul femminismo separatista,
le confonde la mappa facendole sovrapporre quelle che condividevano le
pratiche violente con quelle che le rifiutavano (Maria Schiavo, su
"Liberazione").
Condivido e sottoscrivo; e tuttavia non credo che la contestazione possa
limitarsi a uno scontro fra memorie diverse, la parola di una contro quella
dell'altra affogate in una plurale equivalenza in cui i media possono
pescare a piacimento secondo i capricci del momento. Sul femminismo degli
anni '70 siamo ancora davvero a questo grado zero dell'acquisizione
condivisa? Il conflitto - inevitabile e potenzialmente perfino fecondo - fra
memorie diverse non trova argine in alcuna tradizione sedimentata? Detto
altrimenti: qual e' il criterio - politico, prima che storiografico - con
cui trent'anni dopo si guarda a quell'inizio, e con quale fine?
*
Piu' che l'enormita' delle sue tesi sull'aborto e sulla violenza politica
distintamente prese, colpisce nel saggio di Bravo la mancanza di un nesso
fra loro, salvo quello della presunta insensibilita' femminile per il dolore
del feto e per il dolore delle vittime. Che e' molto, ma non e' abbastanza,
se si tiene conto della ricchezza di nessi che, al contrario, il discorso
femminista fu capace di costruire in quegli anni fra la critica della
sessualita' e la critica della politica, tracciando un'analitica della
violenza in verita' un po' piu' spessa del "siamo tutti responsabili" di
Erri De Luca che Anna Bravo porta ad esempio di un "lavoro" ancora da fare.
C'era un nesso eccome, fra la domanda "per il piacere di chi abortiamo?" e
la domanda "per il piacere di chi dovremmo fare politica come la fanno i
nostri compagni?". C'era un nesso eccome, fra l'esercizio microfisico della
violenza nei rapporti quotidiani e il ricorso alle forme violente di lotta
nella vita pubblica; fra il godimento maschile nell'aderenza ai modelli
della forza e del potere, e il senso di estraneita' (o viceversa il
mimetismo) femminile nei loro confronti. Che altro voleva dire "il personale
e' politico" se non questo taglio del discorso? E a che cosa rispondeva, se
non a questo taglio del discorso, il taglio politico operato con la scelta
di separarci dai compagni e inventarci un'altra politica?
Il vero problema del saggio di Anna Bravo, a mio avviso, e' che a questo
taglio non da' alcun valore, e non ne fa principio di interpretazione
storica. Si spiega cosi' la mappatura approssimativa - sorprendentemente
approssimativa, per una storica riconosciuta come lei - del "noi" a cui fa
riferimento, accomunando nella colpevole responsabilita' del silenzio sulla
violenza "le militanti dei gruppi extraparlamentari, che hanno sfilato in
corteo scandendo slogan truci, partecipato a scontri di piazza e in qualche
caso alle azioni dei servizi d'ordine, le donne dei sindacati, dei
consultori, della vecchia sinistra, le senza partito", nonche' "le
femministe storiche autonome dai gruppi", comprese "quante avevano
denunciato il nucleo guerresco della politica maschile scegliendo di
comunicare solo con donne"; e sostenendo che ogni distinzione storica e
biografica cade di fronte all'"atmosfera di cui siamo state partecipi in
varie forme" e da cui nessuna puo' "chiamarsi fuori".
Chiamarsi fuori? E da quale atmosfera? Qui siamo al punto. Evidentemente
presa dal vecchio equivoco del separatismo come estraneita' femminile, Bravo
non riesce a vedere nella nascita del femminismo "storico" e "autonomo"
quello che fu, cioe' - rubo l'espressione a Lia Cigarini - un taglio che
spacco' la sfera pubblica, dimostrando che un'altra politica, basata sulla
relazione e non sullo scontro di piazza, sul conflitto e non sulla guerra,
sul rapporto fra personale e politico e non sulla loro scissione, sulle
pratiche discorsive e non sui muscoli e la violenza, era - e' - pensabile e
possibile. Non fu un gesto di estraniazione: fu un gesto di lotta politica,
pacifico in superficie ma a sua volta non poco "violento" sul piano
simbolico e psicologico. Il che rende la "seconda nascita" femminista, e per
fortuna, molto meno innocente e naive di quanto Bravo la dipinga; ma esente
dalla dipendenza, dai sensi di colpa, dai pentimenti nonche' dai moralismi
rispetto all'"atmosfera" di quegli anni che Bravo manifesta. Non abbiamo di
che pentirci in verita': ne' in parole ne' in opere ne' in omissioni. E
nemmeno di che immunizzarci da quell'atmosfera, che non fu solo violenta e
luttuosa ma feconda e felice.
*
Non e' per mettere i puntini sulle i del "noi" e delle sue interne
differenziazioni che questo punto va ribadito. Il fatto e' che senza quel
taglio, che ha creato ex novo il luogo di enunciazione per la presa di
parola di tutte, non ci sarebbe stato allora ne' oggi nessun "noi" di donne,
e nessuna politica della differenza. Ma c'e' di piu'. Quel taglio fece
venire alla luce per il passato, e rese praticabile per il futuro,
l'imprescindibile asimmetria della posizione femminile rispetto alla
politica e del femminismo rispetto agli altri movimenti: dopo quel taglio,
e' impossibile ricostruire gli anni '70, nonche' gli '80 e i '90,
continuando a vedere nelle donne il femminile della politica maschile, nel
femminismo un derivato del '68, nella parola femminile un'aggiunta o un
correttivo di quella maschile (da questo punto di vista si puo' leggere come
un contraltare al saggio di Anna Bravo quello di Maria Luisa Boccia, Il
patriarca, la donna, il giovane. La stagione dei movimenti nella crisi
italiana, nel secondo volume su L'Italia repubblicana nella crisi degli anni
'70, a cura di Fiamma Lussana e Giacomo Marramao, Rubbettino).
La differenza sessuale - intesa, c'e' ancora bisogno di dirlo? non come
identita' di genere ma come significante aperto della dialettica sociale e
politica - domanda di entrare nei criteri politici e storiografici. Ma non
sembra orientare ne' il saggio di Anna Bravo ne', per la verita', l'intero
numero di "Genesis", da cui il femminismo esce come un fenomeno di late
comers, secondo, mancante, sovraordinato dal contesto, fermo alla sua
esplosione iniziale, privo di una tradizione di pensiero gia' sedimentata:
piu' una gravidanza interrotta che una seconda nascita, tanto per restare in
metafora.
*
Ancora un punto cruciale, forse il piu' cruciale.
Nei suoi rimproveri alle donne per aver mancato di parola sulla violenza,
Anna Bravo sembra dimenticare quale fossero, negli anni '70, le condizioni
della presa di parola pubblica femminile; quali difficolta' avesse la lingua
femminista a sfondare la rappresentazione massmediale melensa del femminismo
come movimento in gonna a fiori; quale conflitto fosse e sia tutt'ora
necessario per contrastare la traduzione e il tradimento (ne ha scritto
Luisa Muraro nel sito della Libreria delle donne) del pensiero della
differenza nelle compatibilita' correnti del discorso politico accreditato.
E quel che e' piu' grave, la dimenticanza dell'autrice continua per l'oggi.
Almeno nella sua replica, Bravo avrebbe potuto utilmente riflettere sul
contesto in cui il suo saggio cade e viene recepito e utilizzato: in tempi
in cui l'accusa di aver ridotto l'aborto a un diritto allegro e incosciente
nutre tutta la campagna a favore della legge sulla procreazione assistita;
in tempi in cui la riduzione degli anni '70 a anni di piombo e di violenza
nutre il peggior revisionismo sulla storia repubblicana, e troppi
protagonisti di allora stanno al gioco per guadagnarsi il passaporto di
bravi cittadini e cittadine, come ha gia' osservato Maria Serena Palieri
sull' "Unita'". O forse perche', come scrive Boccia, di fronte a un bilancio
denso e non lineare di quegli anni "molto piu' semplice e' congedarsi, come
si addice al tempo della giovinezza, consegnando alla sua acerbita' ogni
eccedenza".
Fatto sta che il dialogo con le generazioni piu' giovani ne risulta
irrimediabilmente compromesso. Nello stesso numero di "Genesis", due giovani
ricercatrici, Emmanuel Betta e Enrica Capussotti, accusano i protagonisti e
le protagoniste degli anni '70 di farsi portatori e portatrici di una
"memoria possessiva, che sembra bloccare la possibilita' di altri punti di
vista" sul passato suscitati dalle domande di oggi. Io credo che abbiano
ragione. Finche' la memoria del femminismo e degli anni '70 rimarra'
appannaggio di chi li ha direttamente vissuti, sara' una memoria
identitaria, bloccata, narcisista, noiosa nelle sue ritornanti controversie.
A me parrebbe piu' interessante aprirla a relazioni di differenza: con le
donne piu' giovani, e con gli uomini che subirono il taglio femminista e
poco o nulla ci hanno mai detto di come ne sono rimasti segnati.

4. RIVISTE ON LINE. L'INDICE DEL NUMERO TRE DI "PER AMORE DEL MONDO"
[Dal sito www.diotimafilosofe.it riprendiamo l'indice del terzo numero della
bella rivista on line "Per amore del mondo"]

"Dire il senso delle proprie relazioni con il mondo trasforma il mondo,
trasformando il nostro rapporto con esso"

Presentazione
Per amore del mondo
*
Per cominciare
Carla Lonzi, Per immettere me nel mondo
*
Strano ma vero
Catrin Dingler, Congratulazioni per Elfriede Jelinek
*
Taglio del presente
Ida Dominijanni, Lost in Transition
Fina Birules, Difference, Freedom, and Violence. Women and Politics
*
Sentimento del mondo
Mario Tronti, Mundus pulcherrimus nihil. Una lettera
Chiara Zamboni, Weltliebe: amore del mondo. A proposito di un libro di
Andrea Guenter
*
Pratica filosofica
Maria Isabel Pena Aguado, Bettina Schmitz, Einleitung
Maria Isabel Pena Aguado, Bettina Schmitz, "Brief an die Leserin und den
Leser" Vorwort zu Das zerstueckelte Leben. Ein philosophischer Briefwechsel
Maria Isabel Pena Aguado, Bettina Schmitz, "Carta a la lectora y al lector"
Introduccion a Das zerstueckelte Leben. Ein philosophischer Briefwechsel (
La vida fragmentada. Una correspondencia filosofica)
Elisabeth Schaefer, "Brief an Marianne und Raquel" Nachwort zu Das
zerstueckelte Leben. Ein philosophischer Briefwechsel
Adela Vidal, Visiones de una comadrona o mediar en la maternidad
*
Lingua materna
Parlando ancora con Jacques Derrida
Chiara Zamboni, Derrida, tra lingua materna e lingua dell'altro
Nadia Setti, Langue maternelle en langue autre
*
Femminismo
Luisa Muraro, La scommessa del femminismo
Luisa Muraro, L'enjeu du feminisme
*
Filosofe
Intervista a Maria Zambrano (1988)
Entrevista a Maria Zambrano (1988)
Chiara Paganini, "Tutta la Vita lasciata in disparte dal pensiero" Dal
convegno su Maria Zambrano
*
Presente remoto
Luisa Muraro, Andare liberamente tra sogno e realta'
Maria-Milagros Rivera Garretas, La mediacion femenina en la historia
Ida Travi, Una rimozione storica
*
Misandria
Diana Sartori, Collezionisti. Spunti per una generalizzazione indebita
*
Al lavoro
Anna Maria Piussi, Approfittare della liberta' femminile. Dare anima e corpo
al lavoro e alla formazione in tempi di postfordismo
*
Parole sante
Politicamente scorretto
*
Il lavoro del negativo
Wanda Tommasi, Sofferenza di donne: figure di trasformazione
*
A memoria
Mariella Baldo, Re-reading Susan Sontag
Barbara Verzini, L'importanza di mantenere un filo
*
Tradizione filosofica
Chiara Turozzi, Caverne cibernetiche
*
Note a margine
Eleonora Graziani, In cerca di un codice
*
Scritture
Giulia Ponsiglione, Segni e sensi del "tu" in alcune liriche di Emily
Dickinson
Federica Giardini, Marguerite Yourcenar, Il tempo grande scultore
*
Visioni
Barbara Verzini, Las ventanas del alma / Le finestre dell'anima
Odilia Mezqia
*
Materiali del grande seminario
Diana Sartori, Connesse: la politica nella rete 1. La terza navigazione
Barbara Verzini, Connesse: la politica nella rete 2
Federica Giardini, Matri_x - Ostica matrice
Ida Dominijanni, La ferita espropriante. Guerra, lutto, amore
*
Ho letto
Giorgio Rimondi, Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata. Maria
Zambrano e i suoi insegnamenti
Giovanni Invitto, Sul femminile. Scritti di antropologia e religione . La
lettura di Angela Ales Bello
Annarosa Buttarelli, Liliana Rampello (a cura di), Virginia Woolf fra i suoi
contemporanei
*
Tesi
Gemma Del Olmo Campillo, Lo divino en el lenguaje
Eleonora Ievolella, La seduzione nei film di Jane Campion
Arianna Ballabio, Il corpo parlato dalle donne

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 2 del 10 marzo 2005