La nonviolenza e' in cammino. 864



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 864 del 10 marzo 2005

Sommario di questo numero:
1. Giulio Vittorangeli: Pietas
2. Anna Bravo: Noi e la violenza, trent'anni per pensarci (parte terza e
conclusiva)
3. Il "Cos in rete" di marzo
4. Enrico Peyretti: Del vincere e del perdere. Un film
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. GIULIO VITTORANGELI: PIETAS
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per
questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori
di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da
sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

Tutto parte dalla cruda realta' delle cose: dall'Italia al resto del mondo
globalizzato.
Da noi un panorama segnato da un lato dal declino industriale (dalla Fiat
alle acciaierie ternane) e dai crack delle grandi famiglie capitaliste,
dall'altro il dissolversi della Costituzione formale e materiale del Paese.
Basta vedere le leggi varate dall'attuale governo, in totale violazione del
dettato costituzionale: giustizia, scuola, immigrazione, partecipazione del
nostro esercito ad operazioni belliche... e si potrebbe proseguire a lungo.
E' la regressione autoritaria della societa': senza legge in alto e senza
diritti in basso. Giustamente Licio Gelli (il vecchio patriarca della P2) ha
detto ("La Repubblica" del 28 settembre 2003): "Guardo il Paese, leggo i
giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo.
Forse si", dovrei avere i diritti d"autore. La giustizia, la tv, l"ordine
pubblico. Ho scritto tutto trent'anni fa".
Sul resto del mondo, con le sue ingiustizie sociali, continuano a succedere
cose terribili.
Quante volte ci siamo detti ed abbiamo sentito ripetere che il 20%
dell'umanita' non puo' continuare in eterno a consumare l'80% delle risorse
del nostro pianeta?
Che la morte per fame, la crescente distanza tra ricchi e poveri, lo
sfruttamento sempre piu' feroce del lavoro, l'attacco generalizzato allo
stato sociale, la negazione dei diritti civili, la perdurante disparita'
sociale delle donne e la indiscriminata dilagante rapina della natura e la
privatizzazione dell'acqua e dei brevetti sui farmaci vitali, lo "sviluppo"
imposto a propria immagine e interesse dal Nord al Sud del mondo, non sono
connaturati alla condizione umana, ma un tragico effetto dell'esistenza di
una societa' basata sul potere, la prevaricazione, lo sfruttamento, la
violenza, l'ignoranza, di un sistema che su scala mondiale pone il profitto
e la ricchezza come unici valori?
Il neoliberismo insomma, il modello socioeconomico oggi vincente.
Adesso assistiamo alla guerra come normalita' dell'azione politica; o
meglio, alla coppia guerra-terrorismo: un circolo vizioso in cui l'una parte
produce l'altra, e questa le ragioni di quella. La guerra e' terrore, come
il terrorismo e' guerra. In entrambi i casi copre, rimuove, ottunde, riduce
i colori e le sfumature del mondo a un allucinante bianconero: amico/nemico,
e il nemico del mio amico e' mio nemico. Siamo ad un passaggio epocale dalla
societa' globale alla guerra globale, il loro coniugarsi segna il nostro
scacco.
*
Da questo scacco bisogna saper ripartire con la consapevolezza che
strettissimo e' il legame dell'utopia con il dolore: quello umano, quello
del mondo, quello della natura.
Quello che ci dovrebbe chiamare all'ascolto di qualunque cosa succeda
ovunque e alla compassione di ogni ferita ovunque si apra.
A metterci ogni volta dalla parte di ogni vittima, consapevoli che la
sofferenza delle dignita' umane calpestate porta spesso con se' rancori e
desideri di vendetta. E' quel sentimento che sempre ci prende di fronte alle
vittime, ma non sempre come sarebbe dovuto, nella stessa misura, perche' e'
piu' facile mettersi nei panni di un prossimo simile a noi che di uno
diverso.
Bisognerebbe interrogarsi maggiormente, piu' approfonditamente, sulla
necessita', la forza, di questo straordinario sentimento umano.
L'indimenticabile Luigi Pintor parlava della "pietas"; parola che comprende
la rettitudine e la tenerezza, qualcosa di netto e concreto come gli atti di
sorreggere e soccorrere qualcuno in difficolta'. "Non c'e' in un'intera vita
qualcosa piu' importante da fare che chinarsi perche' un altro, cingendoti
al collo, posso rialzarsi" (secondo l'espressione di Luigi Pintor).
Pietas, qualcosa che ti chiede di compatire, condividere la sorte
dell'altro, di soffrire con lui, di partecipare a una sventura che e' anche
la nostra. Non solo come gesto individuale, ma come gesto sociale e
collettivo. Equivale ai gesti del serbare e tramandare, dello scampare
qualcosa da dispersione e insensatezza. Per questo pietas non significa
affatto banale pietismo sentimentale e neanche generico senso di colpa, ma
integrale senso di responsabilita', o meglio di corresponsabilita';
riconoscendosi nell'interdipendenza della vita umana, nella limitatezza,
nella sostanza deperibile che fa l'essere umano uguale all'altro essere
umano.
Certo, che il destino degli uomini sia comune e cioe' uno solo, che tutti
gli uomini siano accomunati dallo stesso destino, non e' cosa ovvia ne'
pacifica. Quel che si e' perso davvero e' il senso dello spessore e
dell'interdipendenza della vita umana, che non si puo' ne' ridurre a
formuletta ne' liquidare come irrilevante.
Intorno a noi cresce il cinismo di chi afferma che l'uomo e' lupo per
l'altro essere umano (homo homini lupus), peraltro ora trapassato, nel senso
comune, a sinonimo di maturita' post-ideologica. La fine delle ideologie ci
ha lasciato in consegna la piu' sottile delle ideologie: l'ideologia della
"non ideologia".
Certo, non tutti sono cinici, ma tanta gente vive tirandosi indietro, si
rifugia nel limbo, che e' un inferno piu' dolce. Altri invece non sanno o
non vogliono o non possono vedere il dolore (l'ingiustizia che lo causa; le
forze e le potenze della distruzione e della morte); lo rimuovono
irridendolo, lo proclamano inesistente o lo trattano come fosse una
superstizione da antenati.
Chi invece fissa la sofferenza, il dolore umano, interrogandolo, sa che
appartiene ad ognuno e che manifestandosi in maniera feroce, ogni volta,
puo' lasciare gli individui soli davanti alla storia, in modi imprecisabili
e per un tempo indefinito.
La pietas, invece e' la dimensione umana della politica, in particolare
della solidarieta' internazionale: di chi vuole rimuovere le ingiustizie che
hanno attraversato e attraversano la storia dell'umanita'.
*
Soltanto la solidarieta' internazionale, lo sguardo che definisce il
momento, i compiti e le parole d'ordine, astraendo dalla quotidianita', puo'
dare la forza per affrontare le ingiustizie, piccole e grandi. Una
solidarieta' che sia capace di porsi accanto al dolore umano, e
contemporaneamente di sognare, di nutrirsi di un orizzonte utopico. Se e'
vero che tutte le cose piu' grandi della storia sono nate da sogni. Da
utopie accarezzate prima e cercate, progettate e organizzate politicamente.
Tutte secondo una logica storica che non permette di raggiungere la "terra
promessa" ma che, passo dopo passo, permette appunto di camminare, di
avvicinarsi sempre di piu' a cio' che si cerca, a quello che si desidera.
Perche', come sosteneva Oscar Wilde, "un mappamondo nel quale non figurasse
l'utopia non meriterebbe di essere guardato, perche' gli mancherebbe l'unico
paese che l'umanita' visita giorno dopo giorno".

2. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: NOI E LA VIOLENZA, TRENT'ANNI PER PENSARCI
(PARTE TERZA E CONCLUSIVA)
[Dal sito www.donnealtri.it riprendiamo il seguente saggio di Anna Bravo
pubblicato sull'ultimo numero della rivista "Genesis", saggio su cui si e'
sviluppato un ampio dibattito (sebbene molti degli interventi in tale
dibattito abbiano fatto riferimento piuttosto ad articoli giornalistici che
di esso davano sommariamente notizia che non al testo integrale di esso).
Anna Bravo, storica e docente universitaria, si e' occupata tra l'altro di
Resistenza, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; ha fatto parte
del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita
promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte. Opere
di Anna Bravo: La vita offesa (con Daniele Jalla), Angeli, Milano 1986; Una
misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia (con
Daniele Jalla), Milano 1994; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza,
Roma-Bari 1991; In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945 (con Anna
Maria Bruzzone), Laterza, Roma-Bari 1995]

Noi e il mito delle origini
In quasi tutti i testi e le interviste sul '68 e sui movimenti, la violenza
ha il suo mito delle origini nell'attentato milanese di piazza Fontana, il
12 dicembre 1969, con la scoperta della ferocia indiscriminata, delle
connivenze fra la destra estrema e spezzoni degli apparati statali,
dell'incapacita'/non volonta' delle istituzioni a scoprire i colpevoli; non
ultima, la paura del golpe che dilaga nella nuova e vecchia sinistra. Per i
movimenti, piazza Fontana sarebbe la fine dell'innocenza. Sull'onda di una
repressione molto piu' dura di quella riservata agli studenti e della
moltiplicazione degli scontri con i neofascisti, la fiducia in una nuova
politica si affievolisce, e i gruppi finiscono per ripiegare. "Straordinarie
energie giovanili furono disperse, scrive Vittorio Foa, nel riscoprire e
ripetere la Dottrina; nel ricostruire, spesso come caricatura, quello che si
era pensato di mandare al macero. In questo senso il '68, dopo aver fatto la
critica piu' acuta al vecchio mondo, vi e' restato dentro". Non del tutto,
naturalmente. Ma da quel mondo abbiamo mutuato vizi antichi e meno antichi,
dal rifiuto di distinguere fra democrazie e regimi autoritari (Terza
Internazione, quando finirai di fare danno?) alla tradizione delle strutture
di "autodifesa".
La tesi della fine dell'innocenza e' una verita parziale. Sono reali il
trauma, la sensazione improvvisa di una vulnerabilita' cui bisogna
rimediare. Reali la collera, la voglia di fare male, lo sgomento per la
costruzione a freddo del "mostro" anarchico e per il tentativo di azzerare
lo spartiacque storico fra violenza stragista della destra e violenza mirata
della sinistra. Quando, nella Ballata omonima, Pinelli dice: "un compagno
non puo' averlo fatto", rivendica precisamente quello spartiacque.
Bisognerebbe imparare a esprimere quel che si provava (si prova) pensando al
ferroviere anarchico che aiutava i ragazzi di "Mondo Beat" a stampare la
loro rivista, chiuso in una stanza della questura di Milano a morire chissa'
come tra facce ostili.
E' meno vero lo stato di grazia originario, una costruzione in cui
l'idealizzazione nostalgica e il desiderio di preservare un'autoimmagine
positiva sono tenuti insieme da qualche vuoto di memoria. Di una stretta
organizzativa (la forma partito) si parlava gia' a fine '68, le gerarchie
interne si erano stabilizzate, i militanti meno irreggimentabili messi sotto
osservazione; ed era iniziata quella rivisitazione del passato che si
accompagna a ogni discorso-esercizio-prospettiva di potere, poco importa
quanto piccolo. A palazzo Campana, fine '67 - inizio '68, si scherzava sui
professori che ripetevano di aver fatto la Resistenza e sugli allievi che la
studiavano - ironia affettuosa, ma anche sintomo del distacco da quel
passato. Tempo un anno o poco piu', la Resistenza e' diventata leggendaria,
tradita, di classe.
In una intervista recente su piazza Fontana Adriano Sofri riconosce la sua
portata periodizzante, ma aggiunge una riflessione su un "versante minore e
meno esplorato" - l'idea che gli innocenti abbiano il diritto di scagliare
la prima pietra e la nostra convinzione di esserlo, mentre anche prima del
12 dicembre "ci riempivamo la bocca di discorsi bellicosi, e forse la nostra
pietra l'avevamo gia' lanciata". L'innocenza in nome della quale ci
sentivamo legittimati a reagire, "non ci ha evitato la tragedia di
trasformarsi in lanciatori di pietre". Lanciatori di pietre maschi, bisogna
aggiungere.
E' per le donne che piazza Fontana implica davvero una svolta. Piu' cresce
lo spazio della violenza e deperisce la politica, piu' la parola femminile
perde peso, e gia' non ne aveva molto, mentre la maggioranza delle militanti
rimane schiacciata alla base delle organizzazioni - i servizi d'ordine sono
ottimi canali per guadagnarsi la patente di affidabilita' e per accedere a
ruoli di leadership altrimenti inattingibili. Esito non nuovo ne'
irripetuto, e in situazioni tragiche; nella Resistenza il passaggio dalle
prime bande all'organizzazione militare vera e propria restringe gli spazi
per le partigiane, nell'Intifada il rovesciamento del '90, con l'avvitarsi
dello scontro nella spirale strage-reazione-repressione-vendetta-nuova
strage, toglie respiro alle iniziative delle donne.
Credo valga anche per le armi improprie quel che Simone Weil osservava a
proposito della guerra di Spagna: "un abisso separava gli uomini armati
dalla popolazione disarmata, un abisso in tutto simile a quello che separa i
poveri dai ricchi. Questo si sentiva nell'atteggiamento sempre un po' umile,
sottomesso, timoroso degli uni e nella sicurezza, nella disinvoltura, nella
condiscendenza degli altri".
Fra il '72 e il '73, in varie citta' i gruppi tentano di addestrare le
militanti allo scontro fisico con un corso di arti marziali; se nel
dopoguerra le donne sono state il simbolo piu' visibile della nuova politica
di massa, cosi' potrebbero diventarlo ora per quanto riguarda la
"despecializzazione" della violenza. Successo minimo, accettato senza troppo
rammarico, a conferma che l'idea di rivoluzione sta dislocandosi in un
orizzonte informe e lontano.
Se il '68 sia stato un evento "femminile", e' da discutere. Mi sembra invece
innegabile che i gruppi extraparlamentari, a dispetto delle moltissime
militanti e di un loro ruolo meno marginale di quanto si crede, siano stati
un fenomeno di genere prevalentemente maschile. E' stata maschile anche la
rilettura del passato, ridotto a un eterno braccio di ferro tra reazionari e
rivoluzionari, con Rosa Luxenburg svettante in qualita' di teorica, Dolores
Ibarruri di capopopolo, e la splendida ragazza con il fucile del manifesto
sulla liberazione di Milano in veste di icona da appendere formato poster
alle nostre pareti. Se La Resistenza taciuta, con le sue vite di partigiane
comuniste, dieci su dodici disarmate, fosse uscita qualche anno prima, forse
non ce ne saremmo accorte.
*
Di chi la responsabilita'?
Parlando del "noi" che si e' tenuto ai margini - non credo solo per una
questione di accesso ai media - del dibattito sulla violenza degli anni
settanta, intendo l'insieme di quelle che non hanno detto si' alle armi, non
hanno versato sangue altrui, non hanno visto nello scontro armato la sola
forma di lotta. Anche se non si puo' separare il terrorismo dal clima di
quegli anni, mi pare che alla parola dei suoi esponenti, donne e uomini,
vada dato uno spazio a se'; sapere di aver ucciso e' una condizione
fronteggiabile solo con un salto di coscienza che parta dal dolore per
l'irreparabile che si e' commesso. Ne ho trovate poche tracce nei loro
scritti e interviste, dove la coscienza della responsabilita' e' soffocata
dall'enfasi sulla dimensione soggettiva e sulla nuova persona che ormai si
e', dall'insistenza sul contesto di allora e sugli errori di analisi
politica, piu' che sui crimini che ne sono derivati. Le vittime stanno fuori
o sullo sfondo; a giudicare dall'intervista di una reduce del terrorismo,
non servono neppure per fare una cronologia: "Io ho un ricordo di quei tre
anni con le Br come di un tunnel nero. Dal '78 all'80 non so piu' bene cosa
sia capitato - mi ricordo benissimo del mio tipo di partecipazione agli
attentati, per carita' - (...) mi si confondono le cose... non ho neanche
voglia di andarle a cercare". Oggi mi sembra vero solo il dolore di chi,
fuori dal battage mediatico, ha cercato un contatto con le famiglie degli
uccisi, cosi' da riincontrarli come persone.
Al di qua della linea di confine, un arcipelago: le militanti dei gruppi
extraparlamentari, che hanno sfilato in corteo scandendo slogan truci,
partecipato a scontri di piazza e in qualche caso alle azioni dei servizi
d'ordine, le donne del sindacato, dei consultori, della "vecchia" sinistra,
le senza partito. E le femministe storiche, autonome dai gruppi, ma
apparentate dall'avversione al riformismo - anche se meglio motivata: per le
donne, riformismo equivale all'emancipazione gia' vissuta e respinta.
Importanti sul piano storico e del coinvolgimento personale, le distinzioni
lo sono meno se si guarda all'atmosfera di cui siamo state partecipi in
varie forme - una valutazione che mi sembra si possa estendere persino a
quante avevano denunciato il nucleo guerresco della politica maschile,
scegliendo, come Rivolta, di comunicare solo con donne. Se nessuno e' del
tutto libero da quello che lo ha preceduto, lo stesso vale per quel che gli
e' stato contemporaneo e per quel che seguira'. Da quegli anni e dalla
responsabilita' di cercare una misura onesta per raccontarli, e' difficile
chiamarsi del tutto fuori.
Il nostro relativo silenzio mi sembra un peccato specialmente negli ultimi
tempi, perche' spigolando fra i media a grande diffusione ho incontrato
riflessioni sulla responsabilita' che si addicono anche ai terreni elettivi
della presenza femminile - in genere le seconde e terze file della violenza,
il supporto organizzativo, le manifestazioni di piazza, il trasporto di armi
improprie. Uso come indicatori le parole di due uomini molto diversi fra
loro, entrambi ex di Lotta continua, gruppo simbolo della stagione dei
movimenti, Adriano Sofri e Erri De Luca, allora dirigente del servizio
d'ordine, sicuramente i piu' assidui fra i pochi che si sono esposti sul
tema della violenza.
Da molti anni Sofri si fa carico della distruttivita' agita in prima persona
da Lotta continua, e del rapporto fra violenza verbale e violenza materiale.
Cosi' nella Memoria sull'omicidio Calabresi presentata al tribunale di
Milano e in molti altri scritti. Nessun uso assolutorio del contesto,
riconoscimento pieno delle miserie di allora - la fascinazione per la forza,
l'agonismo maschile, la facilita' al linciaggio morale - ma anche un
continuo rischio di slittamento dalla responsabilita' di gruppo alla
responsabilita' per il gruppo. Qualcuno puo' giudicarlo un atteggiamento
troppo generoso e insieme troppo orgoglioso, a meta' fra la logica del capro
espiatorio e quella del deus-ex-machina, come in fondo Sofri e' stato. A me
sembra piuttosto un lavoro di riparazione (la forma retrospettiva della
cura) per il dolore che la cattiva politica ha seminato in nome di un futuro
sempre piu' improbabile, e forse sempre meno auspicato. Un dolore che ha
colpito fra i "nemici" senza risparmiare gli amici, i compagni di strada, i
militanti, che spesso e' rimasto invisibile, che non ha necessariamente dei
colpevoli; e a cui in fondo non ci siamo opposte. Prendendo posizione
apertamente, avremmo contribuito a legittimare i dubbi di alcuni, a smontare
l'enfasi guerriera di altri - purtroppo non e' opera nostra il piu' bel
detournement che io ricordi, quando in calce alla scritta murale "Coi
fascisti non si parla, si spara", qualcuno ha aggiunto "Firmato: Buffalo
Bill".
Di De Luca cito un'intervista in cui la brevita' porta in superficie un
paradosso meno evidente in altri testi. "Siamo tutti corresponsabili di quel
che e' accaduto", nessuno ci obbligava, nessuno ci ha "mandato", dice De
Luca - precisazione che assolve la leadership di Lc dall'accusa di aver
portato allo sbaraglio centinaia di giovani, e che si completa nel rifiuto
di ogni attenuante offerta dalle cosiddette "condizioni oggettive". Se non
che, quando nella stessa intervista si legge che "ognuno di noi avrebbe
potuto uccidere Calabresi", ecco un'affermazione che sta in piedi solo
ipotizzando un contesto cosi' forte da schiacciare le differenze fra le
persone e da motivare in toto i comportamenti. O, in alternativa, un
assembramento davvero inusuale di personalita' "terroristiche" dentro uno
spaccato di generazione e in alcune citta' - i "volonterosi carnefici di
Sofri".
Dire "ognuno" non e' solo un'iperbole, e' la teoria del "tutti colpevoli",
che puo' facilmente rovesciarsi in "nessun colpevole", e che consegna
all'irrilevanza i contrasti interni. Non e' stato per caso o perche' non gli
era stato chiesto che qualcuno/a ha rifiutato di partecipare a determinate
pratiche, e anche fra chi ha accettato potevano esserci responsabilita'
diverse. Le donne avevano in genere meno informazioni, meno ascolto, meno
ruoli di decisione, meno compiti operativi - e' stato il beneficio del
genere sessuale, simile, fatte le dovute proporzioni, al beneficio dell'eta'
per i tedeschi nati dopo il '45. Ma - almeno su una cosa De Luca ha
ragione - si poteva essere estranei, innocenti no.
*
Incroci con la violenza
Finora non ho trovato in scritti o parole di donne lo stesso lavorio
mentale. Eppure mi sembra che all'epoca tacessimo meno di quanto si ritiene
oggi. Dico mi sembra perche' non ho fatto una ricerca sistematica; ma
sarebbe strano il contrario, se si pensa a com'erano totalizzanti quella
poltica e quel modo di vivere persino dopo che la coesione si era
sfilacciata. Nel condividere molto e nel parlare di tutto, entrava anche la
violenza, quanto meno nei dialoghi informali, di cui non bisogna
sottovalutare l'importanza. Ricordo una serie di interrogativi, qualche
polemica contro l'ideologia della forza come capacita' individuale e mito
virile, denunce (prudenti) della violenza interna alle famiglie proletarie,
adesioni alla cosiddetta linea dura. In un documento del Collettivo
Femminista di Modena, probabilmente del '74, si legge: "Fare la nostra
storia, la storia del neofemminismo, significa partire dalle barricate di
Berkeley, di Parigi, di Valle Giulia, di Berlino". Le genealogie almeno in
parte coincidevano con quelle maschili - nel '68 erano state le stesse.
Ma fino al '73-'74, quando il il movimento delle donne e' ancora in
incubazione, il rapporto con la violenza e' vissuto in modo piu'
frammentato, come e' frammentata la presenza femminile nei diversi
collettivi, nella vecchia e nuova sinistra, nel sindacato. Non esistono
momenti "unitari", per quanto ha senso usare questo aggettivo, ne' sembra
necesssario che un discorso sulla violenza venga dalle donne, anziche' dalle
organizzazioni di riferimento. Con il passaggio alla dimensione di massa il
problema si porra', anche se non si arrivera' mai a prese di posizione
paragonabili a quella condivisa contro l'aborto clandestino.
Non e' il solo cambiamento: da quando il movimento delle donne si e' imposto
come il soggetto piu' visibile della seconda meta' del decennio, le
organizzazioni armate cercano di reclutare al suo interno tendendo agguati a
vigilatrici carcerarie, medici, ostetriche, e fanno correre la voce che le
esecutrici siano donne. E' uno snodo drammatico. Colpendo figure come
queste, si chiama in causa direttamente il movimento delle donne - come
avviene per i gruppi che lavorano sulla malattia mentale quando gli
attentati si rivolgono contro gli psichiatri. Anche nel confronto con il
movimento del '77 agiscono donne "in quanto tali", e alle donne "in quanto
tali" sono diretti gli attacchi di polizia e neofascisti.
A Torino nel movimento dei consultori, '77-'78, la discussione piu' dura e'
sulla violenza, in particolare dopo il ferimento del ginecologo, quando alle
moltissime donne stravolte dall'abuso che e' stato fatto delle loro parole,
qualcuna ribatte: "Finche' lo stato borghese non dimostra la mia
colpevolezza io sono innocente". Nello stesso periodo, soltanto a Torino
viene ferita un'ostetrica e si contano due irruzioni in consultori
familiari, per portare via le schede delle utenti (che servirebbero a
"schedare le proletarie") e le spirali (che verrebbero utilizzate piu' di
una volta per risparmiare).
Si discute anche sul modello femminile che quelle azioni propongono, e sulla
linea di confine fra "noi" e "loro". "Impressionavano non poco queste donne
giovani, determinate, che uscivano spesso dalla media borghesia, e che
avevano scelto di prendere le armi, guardando sdegnosamente al femminismo,
come a cose di donnette o di borghesi annoiate" - scrive Maria Schiavo senza
acredine - c'era in loro "una serieta' disperatamente astratta. Un rifiuto
totale di accettare di essere determinate dal corso del mondo". Colpisce la
morte di Mara Cagol, nella cui dedizione a Curcio qualcuna vede una
somiglianza con le donne della resistenza, "umbratili, sacrificali sotto
l'atteggiamento coraggioso". Assimilazione discutibile, ritrosia (comune a
molti/e) a prendere posizione sulla violenza terroristica.
A Torino, dove la situazione e' tesissima, con il rapimento Moro le
femministe della Libreria delle donne devono tener testa alle insistenze del
Pci e dei gruppi perche' si schierino con lo stato, alle pressioni delle
militanti dell'Autonomia per attirarle a se'. A Bologna, il cuore del '77,
secondo una protagonista "c'era una convergenza parallela tra un'ala dura
del movimento delle donne e un'ala dura di autonomi, e una convergenza tra
un movimento delle donne molto piu' largo, politicizzato, e il movimento
degli studenti come movimento di opinione; e comunque non si riusci' a
gestire nessuna differenza, nessuna autonomia (...) di fronte al Goliardo
murato la sensazione fu che eravamo state usate come capri espiatori".
Ad alcune militanti dell'Autonomia, che propongono di creare Ronde o Pantere
rosa per reagire in prima persona agli attacchi della polizia, altre
rispondono con la tesi dell'estraneita' femminile come "scelta politica di
separazione di un pensiero femminile differente da quello maschile",
rivendicando in un documento l'isteria come forma propria di violenza delle
donne. La libreria di Torino riprende il tema del "rifiuto del sangue della
croce, del sangue delle Rivoluzioni, il cui prezzo e' costantemente la
morte", e nel '78, in un documento pubblicato anche su "Lotta continua",
descrive la violenza "di tutta la fase anteriore, come del resto la violenza
terroristica, come il frutto di una societa' in cui gli esseri che
riproducono la vita sono sottomessi e sfruttati in e per questa loro
capacita' dai gruppi dell'altro sesso". Sono anni in cui, su "Quaderni
piacentini", "Ombre rosse", "Aut Aut", "Inchiesta", intervengono Bianca
Beccalli, Jasmine Ergas, Anna Rossi-Doria, Manuela Fraire, che denuncia la
ripetitivita' degli argomenti usati nello scontro fra giovani e partiti di
sinistra: "In mezzo alle accuse di codismo e insurrezionalismo non e'
passato nulla che gia' non sapevamo della violenza e del suo rapporto con la
rivoluzione", mentre le donne "semplicemente anche in questo caso hanno
sentito la necessita' di ridefinire il loro modo di analizzare la realta'".
Nell'insieme il movimento si ritrae in nome della propria differenza, con
una posizione assimilabile a quella che la Libreria di Milano esprimera' a
proposito del disvalore sociale dell'essere donna e della necessita'
dell'affidamento: "Tra donne e uomini non c'e' patto sociale, gli uomini non
hanno mai voluto che ci fosse", "in questo senso l'irresponsabilita'
femminile e' giusta". Si arrivera' comunque a scontri e spaccature, sebbene
il conflitto "generazionale" che oppone i giovani del '77 alle femministe e
a quel che resta della nuova sinistra, sia meno duro che fra i maschi.
Il piu' doloroso e' probabilmente il distacco dal movimento del 1977, di cui
alcuni temi riecheggiano quelli delle donne - l'accento sull'individualita',
il rapporto fra personale e politico, l'interesse per le forme di
comunicazione e di autorappresentazione, con Radio Alice, i girotondi, le
facce colorate degli indiani metropolitani. Ma l'ala creativa e' appena una
parte del '77, e meno influente e coesa dell'Autonomia, che teorizza la
violenza come risposta alla presenza sempre piu' invasiva della polizia nel
tessuto sociale. Dopo un conflitto, a volte non solo verbale, con i leader
del '77, che porta alcune a scegliere l'Autonomia, molte si spostano
dall'area dei movimenti verso i partiti, l'impegno culturale, l'abbandono
della politica militante - anticipazione del disamore che esplodera' negli
anni Ottanta.
*
Fra violenza materiale e violenza simbolica
Ci sono vicende laterali, che hanno il pregio di mostrare come il conflitto
sulla violenza emerso nel cuore degli anni settanta serpeggiasse da qualche
tempo, senza trovare la forza di precisarsi e dichiararsi. Come nella storia
torinese e "lottacontinuista" che provo a sintetizzare, e che probabilmente
non e' unica.
Nei primi anni settanta (esistevano gia' i Collettivi femministi comunisti
del "Manifesto" e altri gruppi di matrice marxista), una piccola minoranza
di donne apre una controversia interna sul rapporto uomo/donna e sullo
scarso impegno nel lavoro sociale con le proletarie, interlocutrici preziose
ma non uniche, perche' - si prevede - quello femminista sara' un movimento
prevalentemente di ceto medio; sull'onda di alcune iniziative avventurose,
nel contenzioso entrano le forme di lotta. Mimetizzato dietro la vecchia
etichetta di "commissione femminile", c'e' il tentativo di tenere insieme
femminismo e lotta di classe, lealta' all'orgaizzazione e una moderata
azione di disturbo.
Scarso il successo politico e di immagine, come spesso succede a chi vuole
fare da ponte fra realta' in conflitto e sceglie la "doppia militanza", con
il risultato di trovarsi cucita addosso l'etichetta di agente doppio. Nel
servizio d'ordine e fra gli operai, il risentimento per le riunioni
separate, la critica ai comportamenti personali, l'abbandono della militanza
di fabbrica, e' tale che un giorno (fra il '72 e il '73) sui muri della sede
torinese compare la scritta: "compagne femministe, state lottando invano,
riprenderete presto il nostro c... in mano" - Lotta continua non era poi
quel movimento romantico, anarchicheggiante, quello "stato d'animo" di cui
ha parlato Rina Gagliardi. O forse lo era, e proprio per questo gli scrivani
anonimi si erano resi conto che la prima radice del dissidio era la
sessualita' femminile. Se non siamo uscite in quel momento, e' stato per la
promessa di felicita' che ci teneva stretti, che ci incattiviva contro chi
sembrava minacciarla - e che oggi ci consente di ricordare senza rancori.
Dopo il 6 dicembre 1975, quando a Roma in una manifestazione di sole donne
per l'aborto si arriva allo scontro fisico con i militanti del servizio
d'ordine di Lotta continua di Cinecitta' decisi a entrare nel corteo, il
femminismo esplode nell'organizzazione con una turbolenza proporzionale
all'attivismo delle militanti e alla loro voglia di rivincita. La
maggioranza delle donne (rafforzata dai "maschi riformisti") da un lato, i
servizi d'ordine e moltissimi operai dall'altro, si costituiscono in
schieramenti contrapposti, accelerando una crisi poltica gia' in atto. A
Torino, dove domina la questione della violenza, le assemblee e i rapporti
personali sono segnati da tensioni insopportabili; in compenso, la
Commissione femminile si dissolve felicemente all'interno di una nuova
"tribu'" coesa e aggressiva. A marzo il dissenso viene formalizzato in due
documenti alternativi sulla violenza.
Il nostro - un esercizio di equilibrismo che dovrebbe servire a legittimare
argomenti gia' avanzati e respinti - e' imbarazzante da rileggere, interno
com'e' all'ideologia del gruppo, afflitto dal repertorio delle formule
d'epoca. Segnalo soltanto qualche tenue punto di frizione, la critica della
disciplina come valore in se', la denuncia della separatezza dei servizi
d'ordine, la necessita' di "una presa di coscienza collettiva e individuale
che affronti le contraddizioni dentro la classe, il partito, dentro ciascuno
di noi". Nella cattiva coabitazione fra vecchio e nuovo, il culmine e' dove
si auspica "la costruzione e l'uso autonomo della forza delle donne,
l'individuazione degli obiettivi e dei nemici da colpire", con
"l'imposizione ai medici di praticare aborti, la persecuzione personale di
quanti si dimostrano nemici ostinati". A dispetto delle cautele, la frattura
diventa un abisso - a Torino, epicentro del terremoto lottacontinuista, e'
sparito letteralmente ogni spazio di dialogo.
Qui siamo sul piano della distruttivita' nelle relazioni, che il femminismo
non ha avuto paura di riconoscere e tematizzare all'epoca e in seguito.
Molto meno gli altri movimenti del decennio. Vale allora la pena, in
chiusura, di citare un fatto-simbolo, il II congresso di Lotta continua, che
si tiene a Rimini nell'autunno '76 e che e' ricordato come il momento
dell'autodissoluzione e come uno straordinario caso di autocoscienza
collettiva. A Rimini, dove gli schieramenti sono gli stessi, ci si scontra
(ci si sbrana) sui rapporti uomo/donna in politica e nel privato, le
militanti occupano in massa il palco della presidenza, operai e servizio
d'ordine minacciano di aggredirle; si chiamano i leader (e non solo loro) a
rendere conto dei loro comportamenti, si parla accesamente della mancanza di
democrazia interna, dello sradicamento provocato da una militanza
totalizzante, della marginalizzazione di chi ha figli, di maternita'
desiderate e negate da mariti e compagni, di aborti caldamente consigliati
in nome del primato della militanza.
Sulla scia delle donne, si affaccia tardiva e ironica l'omosessualita':
"Sono Silvio, un frocio di Lotta Continua. Se avete dei problemi, magari
mandatemi del bigliettini (...). Fra tutti verra' sorteggiata una serata
premio o con Adriano Sofri o con la segreteria, a scelta, tanto sia il
nostro caro segretario generale che la segreteria sono di tutti i tipi e per
tutti i gusti. Per ulteriori spiegazioni, comunque, sono disponibile tutta
la notte. A questo punto, se la natura viene imposta dai maschi come termine
repressivo, e' lotta dura contro natura, vero?".
Forma estrema e benefica di disordine, quel congresso e' pero' anche una
sorta di processo popolare alla leadership, una messa in scena con un suo
gioco delle parti, e un di piu' di teatralita' e di ripetitivita'. Almeno
rispetto ad alcune situazioni.
Penso ancora a Torino, dove il congresso di preparazione a quello nazionale
e' stato un muro contro muro di insulti e accuse urlate e scandite, un corpo
a corpo non solo metaforico; nessun vincitore, dolore e rabbia per tutte/i,
la sensazione netta che la storia comune e' finita e non c'e' piu' niente da
dire. Ecco perche' ad alcune torinesi, Rimini si prospetta in un certo senso
come una replica, sia pure su vasta scala, un copione sempre meno vitale via
via che viene riproposto. Gridare che il re e' nudo quando tutti sanno che
lo e' ha poco senso, reiterare le stesse denunce, le stesse ritualita', le
stesse invasioni di palchi, sa piu' di spettacolo che di politica. Fra le
ragioni per cui alcune (parlo per me e per poche altre) hanno deciso di
disertare Rimini, c'era la convinzione che un buon smascheramento debba
essere imprevedibile e una tantum; che in materia di ribellione fosse meglio
il faccia a faccia che un coro di fischi. C'era, soprattutto, la
consapevolezza che se da un'assemblea si esce in lacrime, quello non e' piu'
posto per noi.
Ancora oggi non mi e' chiaro se e quanto la violenza agita in quelle
occasioni fosse inquinata dalla volutta' di capovolgere il binomio
vittima/carnefice con la forza che veniva dall'approdo al femminismo. Le
donne di Lotta continua ci erano per lo piu' arrivate in massa, senza vivere
pienamente il lutto del distacco dalla organizzazione di origine, e
gettavano nella mischia l'orgoglio e la sicurezza dalla nuova appartenenza.
E' qui che mi sembra trovi il suo posto elettivo il topos della seconda
nascita. Per molte, il femminismo ha rappresentato una cesura radicale, in
cui il passato perdeva peso e addirittura tendeva a scomparire.
Estremizzando, si potrebbe dire che l'innocenza perduta con piazza Fontana
veniva recuperata con la scoperta dell'essere donne, non solo perche'
storicamente oppresse e lontane dal potere (quel paradigma era al colmo del
successo) ma perche' rese nuove al mondo dalla consapevolezza di se'. Troppo
nuove, direi oggi, fino a rischiare la dispersione di quel che eravamo
state - militanti proteiformi, anima dei mercatini, asili, ambulatori, mense
proletarie, disturbatrici o mediatrici, interpreti per eccellenza di un
mestiere sociale nato lungo gli ultimi anni sessanta e gli anni settanta,
grazie al quale si creavano legami e si consolidavano linguaggi comuni negli
ambienti piu' diversi, una riunione di insegnanti, un'assemblea operaia, un
campeggio al sud, un salotto di simpatizzanti. Ragionare in termini di
rigenerazione anziche' di seconda nascita avrebbe reso il cambiamento piu'
duro, ma oggi sarebbe una buona precondizione per lo sguardo critico e
solidale di cui c'e' bisogno per raccontare quei migliori e peggiori anni di
tante vite.
Mi chiedo del resto se l'illusione del "nate ieri" non abbia riguardato
anche molte altre, a partire dalle femministe storiche - anni prima,
ovviamente, ma neppure quelli erano tempi propizi al vaglio fine di ogni
angolo cieco della dissociazione dal maschile.
*
Microchiosa
Spesso e' alla fine di una ricerca che si capisce quali indicazioni di
metodo siano state davvero utili. In un lavoro agli inizi, e incerto di se',
riesco al piu' a elencare qualche elemento di comparazione con altre storie
e altri modi di raccontare la violenza propria e della propria parte
politica, nella prospettiva di capire il senso proprio dei nostri
atteggiamenti.
Non siamo ovviamente le prime ne' le uniche a doverci misurare con la
questione. Conosco una quantita' di narrazioni orali e scritte di donne
della Resistenza, e ho trovato di rado cenni alla violenza partigiana, o
giudizi che non fossero una riproposizione, magari piu' conflittuale, di
quelle ufficiali. Forse nel loro riserbo si rifletteva, oltre che il legame
affettivo e ideologico, un modello introiettato di divisione degli spazi
narrativi secondo il genere sessuale. Nel nostro conta, credo, l'impasto di
nostalgia e di irritazione, di vicinanza e di distacco, con cui guardiamo ai
protagonisti della violenza, i nostri migliori amici/nemici, in fondo i soli
possibili. Il tempo in cui il cuore di una donna era un altare per la
memoria delle imprese maschili e' finito, ma non diamo per completato il
passaggio a una serena infedelta'.
Tanto piu' che molti discorsi di quel periodo - parlo della sinistra di
tutte le eta' - sembrano venire da un passato profondissimo, e a riportarne
dei brani si ha l'impressione di doverli non solo contestualizzare, ma
"umanizzare" con un corredo di spiegazioni. Naturalmente parlano da soli, e'
semplicemente difficile accettarli - se nella storia delle donne e nel
femminismo i mutamenti del linguaggio fossero stati altrettanto netti,
saremmo a nostra volta infastidite dal ricorrere di alcune espressioni e
schemi discorsivi. Su violenza e nonviolenza, in particolare, la
sensibilita' e' cambiata fino a trasformare in luogo comune (a volte
rinnegato nei fatti) la tesi secondo cui non c'e' progetto, non c'e' ideale
personale o collettivo che giustifichi lo spargimento di sangue. Cresce
cosi' la fatica di riportare alla luce i gesti e le parole di allora nella
loro poverta' e grossolanita', cresce la tentazione di setacciarle in cerca
delle schegge e briciole in cui ci si puo' riconoscere oggi - come se non
fossimo anche la', in quella palude che converra' scandagliare con spirito
di sopportazione.
Non siamo le uniche persone a ritenere che la propria esperienza sia troppo
complessa per esssere tradotta nella narrazione storica. Basta pensare agli
ex del sessantotto e dei gruppi, ai protagonisti della Resistenza, ai reduci
della grande guerra. L'"intraducibilita'" e' una ideologia che prospera in
molti movimenti e fra le persone, ed e' una strategia narrativa che puo'
nascondere una sfida, una captatio benevolentiae, un alibi per non esporsi -
o la superbia dell'unicita'. Nel nostro caso lascio in sospeso l'ultima
alternativa, per nominare due aspetti che non mi sembrano meno rilevanti
della natura policentrica del femminismo e del primato dell'oralita' (tratti
del resto comuni a altri movimenti).
Il primo punto e' il carattere costitutivo che hanno avuto i terreni piu'
intimi, ambivalenti, in fondo misteriosi, che sfuggono anche a una buona
storia di soggetti collettivi - penso all'aborto come ai meccanismi e
risvolti della violenza.
Il secondo e' il destino della nuova sinistra; la politica con cui
condividevamo piu' idee ha perduto, e secondo molte e' meglio sia andata
cosi' - il che da' alla violenza dei "nostri" il peggior marchio possibile,
aver sofferto e fatto soffrire per niente. Per questo, penso, alcune e
alcuni si sono costruiti una controeredita' - l'impedimento quasi fisico a
separare la violenza dalla sofferenza cui da' luogo, il desiderio accanito
di dialogo - che puo' farli scambiare per estremisti della moderazione.
Credo che parlare di quegli anni sia utile in molti sensi. Se rispetto
all'aborto ci e' mancata, almeno sul nodo del dolore, l'immaginazione
necessaria a staccarci da vecchie forme mentali; se per la violenza e' stata
la fretta di prenderne le distanze a farci scavalcare la questione della
responsabilita', oggi, fuori da scadenze e imperativi, puo' essere un buon
momento per dare a ciascuno e a ciascuna il suo (storico e storiografico).
(Parte terza. Fine)

3. STRUMENTI. IL "COS IN RETE" DI MARZO
[Dagli amici dell'"Associazione nazionale Amici di Aldo Capitini" (per
contatti: l.mencaroni at libero.it) riceviamo e diffondiamo]

Vi segnaliamo l'ultimo aggiornamento di marzo 2005 del "C.O.S. in rete"
(sito: www.cosinrete.it).
Nello spirito del Cos di Capitini, le nostre e le vostre risposte e
osservazioni a quello che scrive la stampa sui temi capitiniani:
nonviolenza, difesa della pace, liberalsocialismo, partecipazione al potere
di tutti, controllo dal basso, religione aperta, educazione aperta,
antifascismo.
Tra gli interventi: I fedeli della violenza; La democrazia partecipativa;
Serve il controllo dal basso; Parita' sulla violenza; Ragione e nonviolenza;
La violenza a Londra; I nonviolenti e gli Usa; Le guerre non necessarie;
Aborto e Shoah; La resistibile forza della guerra mitica; Scioperi e potere;
Pagare piu' tasse e tutti; I miracoli; L'aggiunta religiosa all'opposizione;
ecc.
Piu' scritti di e su Capitini utili secondo noi alla riflessione attuale
sugli stessi temi.
Ricordiamo che sui temi capitiniani sopra citati la partecipazione al
"C.O.S. in rete" e' libera e aperta a tutti mandando i contributi a:
capitini at tiscali.it, come pure la discussione nel sito blog del cos a
http://cos.splinder.com
Ricordiamo che il sito con scritti di e su Aldo Capitini ha cambiato
indirizzo in www.aldocapitini.it

4. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: DEL VINCERE E DEL PERDERE. UN FILM
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo
intervento.
Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno
dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di
nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere",
Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998;
La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe
Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine
(Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale
ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte
nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in
appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus,
Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e
una recentissima edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo
notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org,
www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di
Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario.
Clint Eastwood, attore, regista e produttore cinematografico, e' stato
protagonista e autore di molti film assai noti, e di alcune opere di
autentico valore. Tra i film diretti da Clint Eastwood segnaliamo
particolarmente Bird (1988), intenso, commosso ritratto di Charlie Parker]

Il film dai molti oscar, di Clint Eastwood, lo vedi volentieri, ti
appassiona. Un po' di ribrezzo ti cresce dentro, davanti a tutti quei pugni
sul muso, da donna a donna, e sangue a fiotti da nasi, bocche e da occhi
spiaccicati. Ma le persone in gioco, l'allenatore, la ragazza, il vecchio
nero, ci sono, hanno sentimenti come noi, hanno un cuore. E' una ragazza
povera, famiglia un po' disgraziata, che cerca il riscatto nella boxe, e
diventa Million dollar baby. La societa' non concede di meglio che spaccare
musi (di altri poveracci) a chi ha solo qualche buon muscolo e la tecnica
adatta, che si impara con lunghi sacrifici, come ogni cosa importante. La
folla attorno non manca, perche' "alla gente piace la violenza" e la boxe
"permette di acquistare il rispetto di se', togliendolo all'avversario". Con
la folla, i pugni, e le vittorie, arrivano i soldi.
Pugni tra donne, certo. Ma non si deve forse conquistare la parita' in
tutto? Donne soldato, donne pugili. Anzi, la ragazza e' "un pugile". Non so
se c'e' gia' anche in Italia, il pugilato tra le donne. Ci deve arrivare
presto, perche' impariamo e importiamo tutto, da quella democrazia (vecchia
di 250 anni, ma piu' difettosa della nostra appena cinquantenne, oggi
periclitante), che somiglia piu', nei termini hobbesiani, allo stato di
natura che allo stato civile. Bisogna emancipare anche le nostre ragazze
dall'assenza di combattivita'. Questo film dara' una mano. Infatti, il
cinema, come la tv (lo dice bene Popper) e' sempre educativo, o
maleducativo, lo voglia o no, ci pensi o no. Il messaggio c'e' sempre, anche
dove non vuole esserci. Ogni parola, e di piu' ogni immagine, e' insinuante
messaggio. Tanto piu' efficace quanto meno criticamente avvertito, come
sanno i pubblicitari (del commercio o della politica).
Non e' un film sull'eutanasia (sarebbe il terzo importante, e c'e' chi
reagisce, ma il problema e' comunque serio): e' un film sulla societa' del
vincere. Esiste chi vince, come esiste chi appare. Non esiste chi non vince,
chi non emerge dal nulla, che e' la condizione di tutti quelli, casalinghe,
camerieri, che campano e muoiono "senza aver avuto la loro occasione". I
piu' poveri, ma non rassegnati, anche loro abbracciano questa filosofia di
vita: vincere. Uscire dal mucchio. Picchiando, se non hai altro che le tue
braccia. Altri picchiano con altri mezzi. Prima del film, la pubblicita' di
un'auto diceva (in inglese, naturalmente): sii uno come nessuno.
Soltanto, c'e' un problema: vincere, combattere, e' a un pelo dal perdere.
Incontri prima o poi cio' che ti puo' distruggere. Nello stato di natura,
anche il piu' forte, in qualche momento dorme. Qualche piccolo trucco l'hai
usato anche tu: "Colpiscila sui seni, che senta il dolore, e alle reni,
senza che l'arbitro veda". Ma l'altra fa di peggio. Dall'altare, in un
attimo cadi nella polvere. E' arrivato il colpo sleale, vigliacco, e il tuo
corpo, tutto cio' che hai, che la societa' - tifo, applausi e soldi - ti
premiava, e' perduto. Non puoi piu' "batterti", non sei piu' nulla.
"Battersi" e' la prova dell'esistere, dal cow boy dei film di ieri al pugile
donna di oggi. Ma battersi comporta anche l'essere battuti. In questo, il
film e' onesto: puoi perdere. Se perdi non in un gioco, ma nell'esistenza,
e' la fine.
Ma non del tutto. La ragazza e' serena. Ha colto "la sua occasione", dunque
e' esistita, ha avuto cio' che non e' di tutti. L'espressione e' tipica,
quasi un emblema ideale di quella societa'. La vita della ragazza trova
senso in questo. In questo ha senso la vita. Imparate, vecchia Europa,
vecchie barbose filosofie. Occasione, opportunita', queste parole hanno
persino - ma in senso un po' piu' pieno, perche' e' dato a tutti - il loro
precedente biblico: kairos. Sono i momenti che rispondono al bisogno di
salvezza, nientemeno. Ma chi si salva? Che cosa ci salva? Che cosa cogliere
nell'occasione?

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 864 del 10 marzo 2005

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