la crisi del buon raccolto



da il manifesto - 09 Settembre 2005
 
La crisi del buon raccolto

Il declino dell'agricoltura italiana La rivolta dell'uva da vino e il
crollo dei prezzi dell'uva da tavola. I pomodori non ritirati dai
produttori e i prezzi dimezzati delle pesche. Tutti segnali di crisi da
concorrenza. La febbre è più spagnola che asiatica. Il produttore piange e
il consumatore non ride: al mercato il calo dei prezzi non s'è visto
ROBERTA CARLINI

«Enoi facciamo come la Puglia, andiamo per strada e blocchiamo tutto». La
minaccia rimbalza da un campo all'altro e i dirigenti delle varie
organizzazioni dei coltivatori italiani faticano a placare gli animi. La
rivolta dei produttori pugliesi di uva da vino - finita in tragedia, per la
morte di un manifestante a un blocco stradale, e sopita per ora con
l'elargizione di 79 milioni di euro da parte del ministero
dell'agricoltura-, ha acceso i riflettori su una crisi più larga. Dal
granoduro alle pesche, dall'uva all'olio, dalle albicocche alle susine,
fino all'oro rosso di cui l'Italia è il secondo produttore mondiale - e che
in questi giorni in grandi quantità marcisce nelle cassette al limitare dei
campi di pomodoro - i prezzi all'origine scendono, a volte in picchiata.
Mettendo in difficoltà i produttori - grandi e piccoli, nazionali e
familiari -, generando uno scontro all'arma bianca tra i contadini e gli
industriali che trasformano i loro prodotti, senza portare alcun vantaggio
per i consumatori finali. Che, al mercato, del grande crollo dei prezzi nei
campi non vedono alcun effetto.

Fuori mercato

«Prendiamo le pesche nettarine. Solo venti anni fa con quattro ettari di
terra ci mantenevi i figli all'università. Oggi, non ci vivi», dice
Fabrizio Marzano, presidente dell'Unaproa (organizzazione comune dei
produttori ortofrutticoli, associa 120 aziende e 300.000 ettari di terra
agricola italiana). Meno plateale di quella dell'uva, la crisi delle pesche
è arrivata per prima. La stagione «gialla» va da giugno a settembre. Nel
2004 i prezzi all'origine partivano dai 72 centesimi al chilo di giugno per
poi scendere a 43 a luglio, 33 ad agosto e 29 a settembre. Quest'anno, la
stagione si è aperta con un crollo dei prezzi: 53 centesimi a giugno, 33 a
luglio, 26 ad agosto. I redditi dei produttori si sono ridotti (gli
eventuali figli all'università si sono arrangiati), i prezzi ai consumatori
no. Analogo discorso si può fare per susine e albicocche, e problemi si
prevedono anche per le mele (sebbene più tutelate dai vari marchi che nel
settore si sono via via inseriti). E la crisi da prezzo non si ferma alla
frutta. Giuseppe Politi, presidente della Cia (la ex-Confcoltivatori, che
da sinistra cercava di espugnare le campagne al moloch dei Coltivatori
diretti: oggi ha circa 900.000 agricoltori iscritti), ricorda il granoduro
ai tempi della lira: «siamo passati da 40.000 lire a 11 euro al quintale.
Con quattro ettari, che è la dimensione media in Italia, fai 3.000-3.500
euro all'anno». Anche mettendoci sopra gli aiuti comunitari (che più o meno
raddoppiano la cifra), una famiglia non può mantenersi a granoduro. «Le
industrie della pasta accusano i produttori italiani di aver abbandonato le
produzioni di granoduro: in realtà sono loro a rivolgersi all'estero e a
pretendere qui da noi gli stessi livelli di prezzo». Con il che Politi
introduce la parola-chiave per capire molto (anche se non tutto) di ciò che
sta succedendo nei campi: concorrenza.

«Siamo fuori mercato, l'agricoltura italiana è fuori mercato: dobbiamo
saperlo, per prendere i provvedimenti che servono a non scomparire», dice
Fabrizio Marzano. Il «fuori» sta in questo: i prezzi dei prodotti
all'origine sul mercato internazionale sono inferiori ai costi che i
produttori italiani si sobbarcano per lo stesso prodotto. E' successo con
il granoduro e le farine, sta succedendo per tutti gli altri prodotti.
L'aumento del costo del gasolio (è a 1,20 euro al litro: più 13%
dall'inizio dell'anno, ha denunciato la Coldiretti) ha gettato sale sulle
piaghe, ma non è l'unica causa. E i temutissimi cinesi, con le loro mele e
il loro concentrato di pomodoro, c'entrano fino a un certo punto.
L'«invasore» abita molto più vicino e parla quasi come noi: è l'agricoltura
spagnola, i cui prodotti non solo arrivano nei nostri mercati ma
soppiantano le esportazioni italiane. «Verso i nuovi entrati nell'Unione
europea abbiamo perso il 10% dell'export agroalimentare, a beneficio della
Spagna», dice Politi. Stessa moneta, stesso clima (più o meno), stesse
regole comunitarie, norme sul lavoro non diversissime... qual è la marcia
in più dei contadini spagnoli? Per una volta, nessuno parla di costo del
lavoro - sempre bombardato quando si parla dei divari di competitività. Il
fatto è che gli spagnoli «sono più strutturati, fanno sistema, all'interno
e all'estero», è il giudizio di Marzano, che cita come contraltare quel che
è successo da noi ai primi segnali di crisi: un agitarsi di tutti contro
tutti, industriali, contadini, commercianti, consumatori. Guerre tra
poveri - o tra ricchi - «senza alcuna proposta coerente di filiera», cioè
della catena che va dal campo al banco del mercato.

Una catena che in Italia è un puzzle. Lo spezzatino inizia dai campi. «La
dimensione media delle aziende agricole italiane è la più bassa d'Europa,
quella spagnola è molto più alta e questo incide sui costi di produzione»,
spiega Paolo Cupo, docente alla facoltà di Agraria dell'università di
Napoli Federico II. Con il che, torniamo ai vecchissimi nodi della riforma
agraria. Complicati da altri problemi concorrenti, tra i quali Cupo cita
«il valore fondiario dei terreni», ma anche «la scarsa diffusione delle
cooperative, con le quali i produttori avrebbero potuto esercitare un
controllo maggiore sui prezzi». Invece i produttori vanno sul mercato in
ordine sparso, e non c'è stato verso di organizzarli. Risultato: «il
produttore agricolo è un price-taker, ciascuno controlla solo una minima
parte dell'offerta complessiva». Il suo potere contrattuale è assai
prossimo allo zero e «quando arriva la crisi è l'anello debole, quello che
paga per primo», dice Marzano. Secondo il quale però il problema dello
spezzatino non si ferma ai campi. «Prendiamo il caso del pomodoro: abbiamo
5.000 aziende agricole grandi e organizzate, grossi produttori, una vera
lobby. La produzione si fa per metà al Sud, per metà nel Centro-Nord. Ma
l'industria conserviera ha una realtà diversissima tra Mezzogiorno e resto
d'Italia: oltre 130 soggetti tra Puglia e Campania, una trentina nel
Centro-Nord. Al Sud abbiamo il caso assurdo dei pomodori pugliesi che
devono essere portati in Campania per la trasformazione: 200 chilometri di
distanza, per un prodotto `povero' come il pomodoro sono decisamente
troppi». A parere di Marzano, la frammentazione dell'industria e
l'abitudine di procedere ognuno per suo conto «è uno dei motivi del
fallimento: non siamo riusciti a portare una piattaforma comune».

Pomodoro fritto

Quest'anno la raccolta del pomodoro è stata particolarmente buona. Il clima
benigno però si è risolto in una vera catastrofe per i produttori, che
hanno visto il raccolto già contrattato, cioè già venduto, accumularsi
nelle cassette. Come mai? «Non li ritirano», denunciano tutte le
organizzazioni agricole, secondo le quali l'industria del pomodoro
quest'anno ha aperto in ritardo sui raccolti e sta andando al rallenty.
«Terremo fede ai patti, la scadenza è il 20 settembre», dicono gli
industriali. Ma il pallino del gioco ce l'hanno loro: sanno che i
produttori non possono rischiare di perdere anche l'aiuto comunitario - che
per i pomodori è ancora «accoppiato» al prodotto effettivamente ceduto
all'industria - e premono per lucrare in extremis condizioni migliori.
Sullo sfondo, c'è il temibile concentrato di pomodoro made in China: i cui
derivati non possono essere venduti in Italia (salvo frodi, sempre
possibili), ma la cui lavorazione impegna l'industria anche nei mesi in cui
si raccolgono i pomodori freschi e le cui esportazioni fanno diretta
concorrenza a quella dei pelati. I rappresentanti delle regioni del
pomodoro fanno un incontro dietro l'altro - dalla Campania viene la
proposta di un provvedimento che vieti alle imprese di lavorare il
concentrato nei mesi della raccolta del prodotto fresco - ma il 20
settembre si avvicina e le cassette continuano ad accumularsi nei campi.

La battaglia dell'uva

Rischia di marcire anche l'uva da tavola, nella quale la parte del leone la
fa ancora una volta la Puglia. Il raccolto di quest'anno è «ottimo e
abbondante», i prezzi sono da brivido: gli intermediari offrono da 0,10 a
0,20 euro al chilo, racconta Politi. Un crollo verticale, rispetto ai
prezzi dell'anno scorso, quando secondo le voci riportate dagli agricoltori
l'eccedenza dell'uva da tavola andò a finire nelle cantine, con il
risultato che queste ultime, piene di mosto, quest'anno hanno rifiutato
l'uva da vino: gli effetti si sono visti nella guerriglia di fine agosto,
quando i blocchi stradali in Puglia sono stati tolti solo dopo che ci era
già scappato il morto e dopo un intervento del ministro Alemanno che dalle
parti delle organizzazioni dei produttori ha ricevuto consensi meno che
tiepidi. «79 milioni di euro per tutte le aziende vitivinicole che ne fanno
richiesta: in tasca a ciascuno arriverà ben poco, m,olto meno dei 3.000
euro che sarebbe il tetto massimo», dice il presidente della Cia Politi.
Per di più, è di pochi giorni fa la doccia fredda europea: la distillazione
di crisi, chiesta dall'Italia con ritardo di tre-quattro mesi rispetto agli
altri paesi mediterranei, è stata concessa per una quantità di prodotto
pari a un terzo della richiesta e alla metà di quanto ci si aspettava
davvero. Dunque, non è detto che la guerra dell'uva da vino sia finita: in
compenso, quella dell'uva da tavola è appena cominciata. E anche qui la
causa principale della crisi non è la sovraproduzione: «se avessimo una
crisi da eccedenza, sarebbe più semplice affrontarla», dice Marzano, che
tornando a parlare di interventi «sul sistema» cita il ruolo cruciale della
grande distribuzione: il fatto che le catene distributive sono tutte
straniere e - salvo la Coop - è sparita la distribuzione italiana «ha
penalizzato la nostra agricoltura, sia nel mercato interno che nelle
esportazioni». Eppure dell'italianità dei supermercati si parla assai meno
che di quella dell'Antonveneta e della Bnl.

Infine, i consumatori

A proposito di supermercati: la riduzione dei prezzi all'origine non arriva
neanche per un pezzetto al consumatore finale. «E' il vecchio problema
della forbice tra i prezzi all'origine e quelli al consumo, noi della Cia
da anni proponiamo una legge che imponga di indicare il doppio prezzo»,
dice Politi. Il professor Cupo spiega il meccanismo: è il «funzionamento
asimmetrico dei margini», ossia della percentuale di incassi che va al
folto gruppo degli intermediari. In sostanza, quando il mercato tira, i
margini aumentano e dunque se ne avvantaggiano i redditi di tutti questi
soggetti che stanno tra il produttore e il consumatore e che hanno il
potere di «fare il prezzo». Quando la domanda langue (sia all'interno che
per l'export) e i costi dei produttori salgono, gli intermediari mantengono
intatto il loro margine di guadagno. Al figlio dell'agricoltore che non può
più permettersi l'università non resta che dare un consiglio: da grande,
fai l'intermediario.