Fw: «Se portano via il mio ragazzo mi incateno a lui»



IL DIRITTO ALLA VITA
Il giovane, cittadino italiano, potrebbe essere riportato oltre confine, dove non verrebbe più curato: «Dovranno trascinare via anche me, assieme a lui»

«Se portano via il mio ragazzo mi incateno a lui»

La vicenda di Antonio Trotta in stato vegetativo da due anni, conteso tra Italia e Svizzera, tra genitori ed ex moglie. Il padre: «Pronto a tutto per salvarlo»

Da Milano Lucia Bellaspiga

Non è solo una minaccia. È un'intenzione: «Se porteranno via mio figlio dovranno trascinare anche me. Io mi incateno a lui, lo giuro, ci porteranno via insieme, dovranno fare un sequestro di persona». È fragile e ha i nervi spezzati, ormai, ma il vigore gli viene dalla disperazione.
Gerardo Trotta, 63 anni, è il padre di Antonio, 38, in coma vigile dall'estate del 2005, dal giorno in cui un camion lo investì in Svizzera, dove il giovane italiano aveva aperto un ristorante insieme ad Anna, la ex moglie bosniaca. È la stessa disperazione che gli aveva dato la forza, il 7 dicembre dell'anno scorso, di caricarselo su un'ambulanza e portalo via da Lugano, di nascosto, per ricoverarlo oltre il confine, a Brebbia (Varese), in una attrezzatissima struttura riabilitativa, la Fondazione Borghi. Un colpo di mano per la vita, senza il quale oggi di Antonio certo non parleremmo più: «Dopo le prime efficaci cure a Basilea, era stato dimenticato in un ospizio per anziani a Lugano - si torce le mani Gerardo -. Lì non veniva più curato, stava morendo».
In pochi mesi i passi avanti raggiunti a Basilea - dove era nutrito naturalmente e si alzava persino in piedi, retto dagli appositi sostegni - scomparvero e il ragazzo divenne una larva: muscoli atrofizzati, infezioni, febbre alta. «Soffocava nel suo catarro ma non gli facevano la tracheotomia - balbettano papà Gerardo e mamma Violanda, costretti a parole impronunciabili -, i medici di Lugano ci spiegarono che una commissione aveva deciso che nostro figlio non valeva la pena curarlo, se gli veniva qualcosa bisognava lasciarlo morire, se no era accanimento...». Lo lasciavano soffocare come forma di rispetto.
Difficile credere che sia tutto vero, ma a parlare ci sono le carte, firmate dal primario dell'ospedale elvetico. La data è il 13 ottobre del 2006 (due mesi prima del "colpo di mano" dei genitori) e il linguaggio è sconvolgente nella sua inequivocabile chiarezza: si parla di "coma vigile dal maggio 2005", di grave in fezione polmonare, "temperatura ascellare a 40,3°", "rantoli diffusi"... poi si specifica che "nonostante il margine di miglioramento estremamente ridotto vi è una costante richiesta da parte dei familiari affinché, in caso di complicanze, si adoperino tutti i mezzi terapeutici possibili. Ma la Commissione di Etica clinica si è espressa contro trattamenti ritenuti futili di medicina intensiva visto che non c'è possibilità di guarigione o di una qualità di vita accettabile. Ci asteniamo pertanto da misure di rianimazione...".
Nero su bianco.
"Rapito" dai genitori, Antonio in Italia ha ripreso la sua risalita dall'inferno della morte lenta e indignitosa cui era stato condannato. «Il suo tutore nominato in Svizzera, un certo Pino Chianese, si opponeva, ma gli abbiamo fatto credere che lo avremmo trattenuto a Brebbia solo per un breve ciclo di riabilitazione - racconta Gerardo -. A Gallarate gli hanno fatto la tracheotomia, così non ha più febbri e respira autonomamente. E poi lo guardi: vede che ci ascolta?». Non parla, Antonio, non può farlo, ma piange, muove le labbra, si agita, cerca di esprimere qualcosa, stringe nella sua la mano di chi gli parla nel tentativo estremo di mettere in comunicazione due mondi abissalmente distanti. Però c'è. Ed è vivo. «Come può questo signor Chianese decidere sulla vita di nostro figlio? Non chiediamo nulla, vogliamo solo portarcelo a casa e curarlo come stiamo facendo adesso, che da dieci mesi giorno e notte siamo con lui, gli parliamo, lo accarezziamo, gli facciamo sentire che non è mai solo». È risaputo, infatti, che solo questa è la terapia possibile nei casi di coma vigile. «Trasfusioni di amore», le chiamano gli esperti, le uniche che a volte portino al risveglio.
Parla e piange, questo padre consumato, mentre con mano incerta scrive a fatica due righe al suo arcivescovo, cardinale Tettamanzi: "Come suo diocesano le chiedo aiuto e conforto per mio figlio Antonio. Ho paura che lo portino in Svizzera a morire". Si aggrappa a tutto. Domani infatti scade il termine che la Procura della Repubblica di Varese ha fissato perché una speciale commissione di tre medici valuti il caso del giovane: a luglio lo hanno visitato a Brebbia, hanno studiato le cartelle cliniche, hanno anche fatto un sopralluogo in casa Trotta, ad Albizzate, nel frattempo allestita con un letto speciale e le macchine per l'alimentazione. La risposta sarà depositata domani, «ed è da domani, quando scade la "tutela" legata al lavoro dei tre periti, che in teoria quel Chianese potrebbe venire con un'ambulanza e portarlo in Svizzera», spiega Pierpaolo Cassarà, il legale dei genitori. «La parola finale spetta al Tribunale di Varese, ma guai se intanto ce lo lasciamo scappare...». «Vengano, dovranno trascinare anche me», piange il padre, la catena e il lucchetto pronti, nell'attesa del responso.
«Qualunque sia questo responso me lo riporto in Svizzera», giura intanto dai giornali elvetici la ex moglie, separata da un anno prima dell'incidente. «È stata lei a nominare tutore il suo amico Chianese - dice il legale -, l'unico che secondo le leggi svizzere ha potere di decidere le modalità di cura e persino di valutare se la casa dei Trotta ha la strumentazione adatta al caso clinico». Di mestiere fa il pizzaiolo.