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"imparare a guardare in un modo nuovo"



Intervista a padre Kizito, per "Testimonianze" n° 407 sett. Ott. '99
AUTORE: Stefano Girola
TITOLO:
IL VANGELO E LA CULTURA AFRICANA UN INCONTRO POSSIBILE

Sottotitolo: Intervista a Padre Renato Kizito Sesana

Domanda
L'immagine dell'Africa più diffusa e radicata è di un continente disperato,
alla deriva, sconvolto da miserie e guerre endemiche. Sebbene tu non
nasconda i drammi attuali del continente africano, leggendo il tuo libro ne
emergono anche altri aspetti, che lasciano aperto uno spazio alla speranza.
Quali sono i presupposti di questo tuo sguardo positivo sull'Africa ?

Risposta
Spesso ho sottolineato che l'idea che possiamo farci dell'Africa è
radicalmente diversa a seconda che consideriamo le statistiche economiche
oppure le risorse umane. Io credo infatti che bisognerebbe imparare a
guardare l'Africa con occhi nuovi, soprattutto cercando di cogliere quella
che è la sua grande ricchezza: le persone. Ho l'impressione che nei nostri
media l'Africa venga captata solo per ciò che essa possiede di curioso,
orrendo, strano, e nella ricerca di questa "curiosità" si perde di vista e
non si guarda la persona umana: ad esempio, quando vediamo la fotografia
dell'africano fuori dalla capanna, vestito stranamente o seminudo,
circondato da oggetti a noi non familiari, la nostra vista viene distratta
da questo contorno di cose bizzarro, inusuale e non vede più la persona, che
finisce per essere vista come un oggetto in mezzo ad altri oggetti, come un
elemento del paesaggio o un elemento di curiosità. Ciò accade anche in
reportage o servizi fotografici ricchi dal punto di vista antropologico, ma
viziati in partenza dalla ricerca ad ogni costo della radicale diversità,
del particolare curioso o esotico.
Questo è forse il nostro peccato fondamentale nel rapportarci agli altri e
in genere alle culture diverse, ma in particolare nell'accostarci
all'Africa. Dobbiamo imparare a guardare in un modo nuovo, mettendo le
persone al centro della nostra visuale. Sono convinto che esse siano la vera
ricchezza dell'Africa: la ricettività, la freschezza, la creatività di
questa gente sono le cose più importanti del continente.

Domanda
A volte si ha l'impressione che nel guardare l'Africa tendiamo a cercare
solo una conferma ai nostri pregiudizi...

Risposta
A volte mi domando, ad esempio, come mai la lotta di resistenza dei Nuba in
Sudan riceva cosi' poca attenzione da parte dei media, e perché essa non
venga colta e capita per quello che rappresenta. Io credo che ciò avvenga
perché essa è una guerra per la difesa della dignità della persona umana e
dei diritti umani, e noi preferiamo chiudere i nostri occhi di fronte a
questo fatto. Al contrario li apriamo bene se c'è una guerra come quella fra
Hutu e Tutsi in cui possiamo parlare di tribalismo e mostrare fotografie
atroci, che soddisfino il desiderio di confermare la nostra superiorità
culturale e di provare ancora una volta quanto gli africani siano "selvaggi,
crudeli ecc.". Quindi persino nel caso delle guerre si opera questa
distinzione : quelle che confermano i nostri pregiudizi riescono a fare
notizia, quelle invece che non rientrano nei nostri schemi non ci
interessano.  Inoltre, anche all'interno dei conflitti gli episodi di
crudeltà più rivoltanti sono raccontati nei minimi dettagli, mentre gli
episodi di eroismo o di sacrificio per salvare gli altri non sono nemmeno
citati.  Abbiamo davvero una visione selettiva: raccontiamo, vediamo solo
ciò che già avevamo in mente o che vogliamo vedere.

Domanda
Quindi lo stereotipo del "selvaggio" è ancora fortemente presente nella
mentalità occidentale?

Risposta
È fortissimamente presente, anche in chi si accosta agli africani spinto dal
desiderio di rendersi utile, di aiutarli. Io noto ad esempio che molti
italiani che vengono in Africa con queste intenzioni, dopo poche ore
dall'arrivo si sentono pienamente autorizzati a fornire le loro ricette su
come risolvere i problemi del continente. È evidente che sono venuti con già
in testa tutto, e che quindi si aspettano solo di vedere ciò che conferma i
loro preconcetti, senza un tentativo vero e profondo di capire.

Domanda
Come reagiscono di solito gli africani davanti a questo tipo di
atteggiamento?

Risposta
Accettano, dicono di si', ma senza convinzione. Loro ormai hanno
sperimentato che un certo modo di accostarli è cosi' pieno di pregiudizi che
è inutile cercare di combatterlo. Molto spesso quindi c'è una profonda
incomunicabilità per cui può capitare che un europeo, dopo mesi o anni di
volontariato in Africa, esca con affermazioni del tipo: "Gli africani sono
tutti bugiardi". Certo, sono bugiardi perché se percepiscono che tu non sei
interessato a capirli in profondità, se non sei disposto a cambiare, e hai
già tutti i tuoi schemi mentali in base a cui giudicarli, ti dicono di si'
per tenerti buono, magari anche per amicizia, pero' se non sono convinti
continuano a fare ciò che pensano sia giusto fare. Dunque sembra che siano
doppi, che siano falsi. In realtà è perché si sono arresi di fronte
all'ineluttabilità di una non-comprensione, di una non-comunicazione.

Domanda
II titolo del tuo libro esprime pertanto il desiderio di uno sguardo più
profondo sull'Africa, libero da preconcetti e pregiudizi?

Risposta
Oltre a questo, vorrei anche evidenziare l'importanza del porsi in una forma
di contatto diverso. Per potersi guardare negli occhi occorre una vicinanza
fisica: ciò in tutta la cultura africana ha un'importanza molto grande, che
spesso noi non riusciamo a capire. Alcune volte con loro è importante
semplicemente stare insieme, in silenzio, senza il bisogno di dire tante
cose. Mi sembra invece che in tutto il nostro attuale modo di vivere ci sia
molta frenesia, molta paura del silenzio, un cercare di riempire sempre i
vuoti di silenzio con delle parole.  L'occidentale tende a parlare sempre,
ha sempre qualcosa da dire e, soprattutto, crede sempre di avere qualcosa da
insegnare agli altri . Invece ci si può avvicinare agli altri anche in modo
diverso, semplicemente sedendosi di fianco, guardandosi, stando tranquilli;
e non è necessario recarsi in Africa per sperimentare tutto ciò, si può
cominciare già da oggi con gli immigrati africani che vivono nelle città
italiane. Secondo me, inoltre, il senso della vicinanza fisica necessario
per uno sguardo attento all'altro è importantissimo anche per cambiare il
nostro modo di relazionarsi, perché comporta lo scendere da un approccio
troppo astratto, razionale, cerebrale, a qualcosa che è più immediato,
spontaneo, umano.

Domanda
Sia in questo libro come nel precedente (La tua terra sono gli altri, EMI,
1986)  rifletti spesso sul significato dell'essere oggi missionario in
Africa, sul senso della vostra presenza ,anche in relazione a certe eredità
storiche che possono aver pesato negativamente su di voi. Come è cambiato in
questi anni il tuo modo di vivere questa esperienza religiosa?
Risposta
Credo che in ogni fase della mia vita, a seconda delle esperienze che stavo
vivendo, ho dato una risposta diversa a questa domanda. Oggi la mia risposta
probabilmente sarebbe: "Io sono in Africa perché mi trovo bene, perché ho
degli amici e della gente che mi vuole bene, e insieme a loro riesco a
essere un po' più cristiano." All'inizio era l'opposto, cioè pensavo che il
mio essere missionario in Africa volesse dire annunciare il Vangelo anche
attraverso le opere, quindi, per usare delle espressioni antiquate, "fare
del bene, donarsi agli altri ecc.". Credo che ponessi molto di più l'accento
sulle iniziative e sull'attività da parte mia. Mi sembra che in me sia
cambiato questo atteggiamento, poiché oggi ritengo più importante mettersi
in ascolto, in silenzio, guardare e lasciare che siano gli altri a farti le
domande e a volerti e a farti del bene, a darti quello che loro possono
darti. E allora quando si è stabilito un rapporto cosi' è più facile anche
fare un annuncio più genuino, che viene recepito più chiaramente.
È vero che noi missionari siamo stati i primi a studiare le lingue e le
culture locali, pero' questo è stato fatto molto spesso con un'ottica
strumentale, non tanto riconoscendo in queste cose un valore in sé stesse,
ma cercando di conoscerle meglio in vista di un annuncio pre-confezionato,
già calato in modi e mentalità occidentali, che alla fine diventavano un
ostacolo per l'annuncio stesso. Io credo che qualsiasi buon educatore o
pedagogo direbbe che il modo migliore per insegnare non è mettersi a una
lavagna o dietro una scrivania, fare la classica lezione a dei soggetti
passivi, ma il metodo più valido è far si' che fra gli alunni nascano degli
interrogativi. Questo mi sembra essenziale anche per il nostro annuncio.
Secondo me dovremmo essere gente che suscita delle domande a cui cerchiamo
di dare delle risposte quando ne siamo capaci, accettando anche
l'eventualità di non esserne in grado.
Invece a tutt'oggi persiste un'attitudine del tutto diversa: ad esempio nel
Catechismo sono previste persino le domande che i catecumeni debbono
rivolgerci. Tutto quindi è già pre-confezionato, pre-disposto, non c'è
spazio per la creatività e la spontaneità: la ricerca di Dio è già
codificata e deve passare attraverso certe formule e passaggi prestabiliti.
Credo per contro che il nostro atteggiamento dovrebbe sempre avere come
modello di riferimento quello di Gesù. Quando leggiamo il Vangelo vediamo
infatti che la gente interroga Gesù, perché il suo modo di fare, il suo modo
di comportarsi suscita delle domande. Allora la gente lo interroga e lui
risponde, ma mai con delle definizioni o con delle risposte chiuse, bensì
con dei racconti o con delle frasi che rilanciano e costringono la persona a
riflettere, a guardare più lontano, più in alto.
Noi invece spesso non siamo più un "problema", ossia il nostro modo di
vivere non suscita più delle domande nella gente, e ciò ci condanna al
fallimento.  Penso che questo sia assolutamente centrale. Ossia, invece di
spiegare dettagliatamente ai catecumeni certi dogmi o concetti, invece di
far loro memorizzare le preghiere, il nostro compito dovrebbe essere quello
di vivere nella comunità in un modo tale che la gente ci domandi: "Ma perché
vivete cosi'?"  Oppure il nostro modo di trattare le altre persone dovrebbe
essere idealmente tale che faccia capire alla gente che noi crediamo
veramente che Dio si è incarnato e che ogni persona umana partecipa del
divino, suscitando cosi' degli interrogativi profondi.
Se l'evangelizzazione avvenisse cosi', chi viene evangelizzato non si
troverebbe poi intrappolato in definizioni dogmatiche ed in risposte chiuse,
ma verrebbe sfidato molto più radicalmente a ripensare nella sua cultura,
senza uscire dalla ricchezza delle sue tradizioni, gli aspetti centrali del
messaggio evangelico, come l'incarnazione, l'amore per il prossimo, il
servizio verso i più bisognosi ecc.
Non possiamo trasmettere davvero questi valori profondi attraverso
l'insegnamento, perché essi passano attraverso la vita, il rapporto
quotidiano con le persone: anche se mi occupo di mass-media, sono
profondamente convinto che non si comunica la fede grazie ad essi, ma
attraverso il rapporto personale, la testimonianza. Moltiplicare gli sforzi
nel campo dei mezzi di comunicazione potrebbe quindi essere - oltre che
estremamente costoso - del tutto inutile ai fini di una vera e profonda
conversione delle persone.

Domanda
Forse tu sei fra le persone più indicate per esprimere un parere riguardo al
processo di inculturazione del Vangelo in Africa. Secondo te il Vangelo e la
Chiesa sono ancora visti - per usare un'espressione di Ernesto Balducci-
come "prodotti importati dall'Occidente", oppure si è avviato quel processo
di appropriazione autonoma del Vangelo da parte degli africani? e quali sono
secondo te gli ostacoli che si frappongono a questo processo, già auspicato
da Paolo VI?

Risposta
Questo processo è necessario e urgente, altrimenti non emergerà una vera
cultura Cristiano-Africana, e la presenza della chiesa diventerà
irrilevante. Ciò che ho detto a proposito di una evangelizzazione che dia
più spazio alla creatività e all'autonomia degli africani mi sembra sia
anche la premessa per poter dare loro la possibilità di "appropriarsi" del
Vangelo, di far si' che i valori evangelici diventino i valori condivisi
dalle persone di un certo gruppo umano, di un certo ambito culturale.
Purtroppo la mia percezione della situazione presente non è molto positiva;
a me sembra addirittura che ci sia stata un'involuzione in questo campo,
soprattutto dopo il "Sinodo Africano" del 1994, che in teoria avrebbe dovuto
aprire le porte dell'inculturazione.
Invece, il fatto che il Sinodo abbia ormai ufficialmente approvato questa
parola e questo processo, che solo venti anni fa non era per niente
scontato, ci possiamo illudere che la stiamo realizzando. In realtà, al di
là di sporadici esperimenti, non si è ancora cominciato: siamo ben lontani
dal poter parlare di una Chiesa africana che è inculturata.
Io auspico, che la Chiesa africana abbia la possibilità di esprimere il
Vangelo in forme anche diverse da quelle attuali, in forme che ora non si
possono precisare, perché ancora non le conosciamo, non le abbiamo ancora
pensate. Io non posso credere - ad esempio- che il modo di vivere la vita
religiosa possa essere solo quello che è cresciuto nella nostra cultura fino
ad oggi, molto legato ad una mentalità di tipo giuridico, e che è
radicato -e giustamente perché è il nostro!- nella nostra cultura e nella
nostra storia. Non posso pensare che gli africani non inventeranno altri
modi di seguire radicalmente  Cristo. E gli Asiatici faranno altrettanto,
nel momento in cui saranno liberi di fare ciò.
Il Papa stesso nell'Enciclica Ut Un um Sint ha chiesto alle altre Chiese di
aiutare a ripensare il modo in cui viene vissuto il primato di Pietro. Io
non penso solo alle altre Chiese, ma alle altre grandi culture e religioni.
Non hanno delle forse dei contributi da dare in questa ricerca? Il modo in
cui il Papato è strutturato oggi è frutto della storia e della cultura dell'
occidente: gli altri non avranno mai niente da dire in proposito?
Questi sono interrogativi che dovrebbero restare aperti, almeno
potenzialmente, ma mi pare che oggi nella chiesa si sia troppa gente che non
solo non vuole avventurarsi in strade nuove "fino ai confini del mondo", ma
vuole chiudere porte e finestre. D'accordo, la comunità ecclesiale vive con
delle regole, con delle convenzioni accettate, ma non si può precludere in
principio la possibilità di nuovi modi, di nuove vie.

Domanda
C'è anche una inculturazione un po' superficiale, per cui alcuni ritengono
che sia sufficiente introdurre una danza locale, lo scettro che usava il
capo,  o indossare una collana durante la liturgia...

Risposta
Certo, questo è il modo più semplice, esteriore, anche se è pur sempre un
passo avanti rispetto a quando queste cose non venivano neanche permesse.
Dovremmo approfondire altri aspetti come, per esempio, il modo di pregare.
Se leggiamo il Vangelo, vediamo che nel Padre Nostro si danno delle grandi
indicazioni, ma poi viene lasciata libertà, non viene rifiutato un altro
modo concreto di pregare. Noi dovremmo chiederci più approfonditamente come
pregano gli africani nella loro cultura, come si relazionano a Dio, come
vivono il loro rapporto con lui. È possibile che questo non cambi niente nel
modo di pregare della Chiesa? È possibile che le comunità contemplative tra
2000 anni in Africa pregheranno nello stesso modo con cui pregano oggi le
comunità contemplative che noi vi importiamo? Io spero proprio di no, senz'
altro ci sarà un contributo originale della cultura e della vita africana a
tutte queste cose. Invece quello che succede oggi, purtroppo, è che noi
siamo ancora in una fase in cui abbiamo paura di queste potenziali aperture
e le freniamo, non le incoraggiamo.

Domanda
L'africano ha ancora il timore che convertirsi voglia dire rinunciare ad
alcune delle tradizioni più radicate nella sua cultura e mentalità come la
credenza negli spiriti o il culto degli antenati?

Risposta
Certo, questo timore è ancora molto diffuso, anche se io credo che la
liberazione che normalmente l'africano trova nel Vangelo sia talmente grande
da fargli superare di slancio queste difficoltà. II fascino di Cristo, di
questa persona umana che è anche Dio, quindi più potente del Male, ha spesso
un effetto liberatorio in molte tradizioni che vivono la paura degli spiriti
maligni in modo anche sofferto, drammatico: per cui spesso accettano il
Vangelo con entusiasmo, anche se poi ci sono altri problemi da risolvere con
la Chiesa.
Una questione molto seria è appunto quella del culto degli antenati. Nel
Sinodo africano del '94, i vescovi avevano elaborato 64 proposizioni
riguardanti alcuni punti forti sui quali essi suggerivano si dovesse basare
il documento finale; una delle proposizioni (in teoria avrebbero dovuto
restare segrete, in realtà sono state pubblicate dappertutto) riguardava
proprio il culto degli antenati. I vescovi concordavano praticamente
all'unanimità che esso in passato era stato frainteso e presentato come una
forma di idolatria o di superstizione, mentre invece si tratta di una forma
accettabile e buona di legame spirituale con i morti e di comunione con i
Santi, e che quindi occorreva solo trovare le modalità per valorizzarla.
Tutto ciò non ha pero' trovato alcun riscontro nel documento finale emesso
dal Papa.
Sarebbero state importanti delle indicazioni concrete e dei programmi su
come attivamente promuovere l'inculturazione, perché non è sufficiente
fermarsi a riconoscimenti di principio sul fatto che nella cultura africana
ci sono dei valori positivi e rispettabili.  D'accordo, ciò è molto meglio
di certe condanne del passato, pero' poi bisogna anche mettere in pratica
queste affermazioni: dove sono concretamente i valori africani nella Chiesa,
quelli che la Chiesa promuove?
Un altro nodo cruciale è quello del matrimonio: in tutte le Chiese il
sacramento del matrimonio apparentemente non funziona, non viene recepito.
Le statistiche ci dicono che gli africani si battezzano, si cresimano ma non
si sposano in chiesa, continuano in ciò a seguire le loro tradizioni.
Perché? Studi approfonditi fatti da specialisti hanno evidenziato che gli
africani affrontano il matrimonio con riti e impegni molto elaborati e con
altrettanta serietà degli altri popoli. Certo il loro modo di vedere il
matrimonio è molto diverso da quello degli europei: il matrimonio africano è
progressivo, non c'è un momento definito come nel matrimonio cristiano per
cui si può dire che pochi secondi prima i due partner non erano sposati, e
adesso lo sono. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che il matrimonio visto
come un contratto cosi' come è celebrato oggi nella Chiesa è un derivato
diretto del diritto romano, e nei primi secoli certamente non veniva
celebrato come lo celebriamo noi oggi nella Chiesa. La sfida è: possiamo
lasciare che si sviluppi nella Chiesa un modo diverso di celebrare il
matrimonio, che sia autenticamente radicato sia nella tradizione africana
che nel Vangelo?
Domanda
Altri problemi nascono dal celibato dei preti.
Risposta
Si', e ciò avviene perché nella tradizione africana è impensabile che una
persona adulta non sia sposata e non abbia figli. Un adulto senza figli,
uomo o donna che sia, è considerato una persona non pienamente inserita
nella società, non del tutto matura, completa. Conosco preti che per esempio
sono stati umiliati perché al momento dei funerali dei genitori sono stati
trattati come se fossero bambini. Questa mentalità è molto radicata: si
tratta di un valore o di un disvalore?
Queste problemi non sono state affrontati in profondità, forse si pensa che
basta aspettare e questa mentalità verrà superata dalla modernità. Pero'
adesso il risultato è che gli africani spesso non si sentono a casa loro
nella Chiesa. Anche con vescovi o con preti, talvolta ti trovi davanti a
persone che quasi sono a disagio,  poiché anche se conoscono "le regole
della casa", non le sentono proprie, sono sempre un po' incerti, indecisi.
Ma lo Spirito opera e supera anche queste difficoltà. La persona di Gesù, in
genere nel Terzo mondo ed in particolare in Africa, è una figura con un
fascino tale che è andata al di là delle Chiese, che spesso non riescono a
seguirlo: Gesù è arrivato nel cuore degli africani là dove la Chiesa non è
ancora arrivata.
Come si spiega ad esempio il proliferare delle chiese di fondazione africana
(African Insituted Churches), cioè le Chiese fondate da profeti africani? Si
tratta di persone che in qualche modo - attraverso la lettura del Vangelo o
attraverso la predicazione delle Chiese cristiane- sono rimaste colpite
dalla figura di Gesù. Pero' si sentono escluse dalla Chiesa perché magari
sono poligami, o perché hanno un certo rapporto con gli antenati a cui non
vogliono rinunciare, e quindi si "inventano" una Chiesa perché sentono che
il loro rapporto con Gesù è un rapporto vivo e vero, di cui non possono fare
a meno: siccome pero' non lo possono esprimere nelle Chiese tradizionali lo
esprimono in modo diverso. Davanti a questi fenomeni dovremmo porci delle
domande in profondità, magari cercando di seguire Gesù dove è arrivato prima
di noi: non di certo ricercando il compromesso, ma rimettendoci un po' in
questione e senza giudicare solo in modo negativo ciò che cresce al di fuori
dei recinti e delle mura della nostra Chiesa.

Domanda
Quindi anche se una consolidata tradizione teologica ha considerato
indissolubile il connubio del messaggio evangelico con la filosofia e la
cultura occidentale, ci sono molte persone che arrivano a Gesù direttamente,
senza bisogno dei consueti filtri culturali?

Risposta

Se riflettiamo un attimo, è chiaro che il connubio di cui si parla è stato
un processo storico positivo, importantissimo: ma il fatto che storicamente
sia avvenuto cosi' non vuol dire che si tratti di qualcosa di immutabile. La
cultura occidentale tra l'altro è una cultura che dal punto di vista
spirituale, dell'anima, è in crisi. Probabilmente lo è anche dal punto di
vista materiale, basti pensare al malsano rapporto con le risorse e la
natura, come viene evidenziato da tutti i problemi ecologici che abbiamo
creato. Perché dovremmo mantenere un vincolo fra questa cultura e la chiesa?
Dal punto di vista teologico oggi nessuno obietta sulla correttezza dell'
inculturazione.

Domanda

È possibile secondo te che avvenga un analogo incontro tra il Vangelo e la
cultura africana o quella asiatica, per esempio?

Risposta

È proprio questo che fa paura. È assai sintomatica a questo proposito la
vicenda di Tissa Balassurya, il teologo dello Sri Lanka scomunicato da Roma
all'inizio dell'anno scorso. Perché si è preso questo provvedimento? Perché
egli ha elaborato una teologia radicata nella cultura asiatica, e chi lo
giudica da Roma, ossia dall'interno delle categorie culturali occidentali,
non può che considerarlo come un eretico. In realtà dice delle cose a cui
nessuno aveva mai pensato, esprime in forme inedite un rapporto nuovo col
Vangelo e con Gesù Cristo che sta crescendo.

Domanda


Nel libro fai riferimento a dei "semi che da secoli la Chiesa aveva
dimenticato in fondo al suo sacco" e che in Africa potrebbero trovare un
terreno potenzialmente assai fecondo. Quali sono questi semi? Fuori di
metafora, qual è secondo te lo specifico dono che 1'Africa potrebbe portare
alla Chiesa universale?

Risposta


Io credo che in questi 2000 anni di cristianesimo 1'importanza
dell'esperienza comunitaria non sia stata adeguatamente valorizzata. Nella
Chiesa primitiva i cristiani vivevano spontaneamente in comunità. Anche se
la descrizione che troviamo negli Atti degli Apostoli è probabilmente un po'
idealizzata (in quanto viene presentata come un modello ), è chiaro che non
c'era un gruppo di cristiani delegato a vivere in comunità, separato dagli
altri che non ne facevano parte, come avviene oggi con le cosiddette
"comunità religiose". Era una comunità in senso globale. Col passare dei
secoli la Chiesa ha invece riservato la comunità alla vita religiosa o ad
alcune situazioni particolari, sulle quali si è abbondantemente legiferato e
codificato. Mi ricordo - ad esempio - che quando sono entrato in seminario
all'inizio degli anni '60, il pensare ad una comunità al di fuori della vita
religiosa sembrava impossibile e i primi laici che facevano esperienze di
vita in tal senso rappresentavano una novità straordinaria e molto
criticata.
L'aver enucleato la vita comunitaria dalla vita del cristiano comune per
farne una vocazione speciale è stato secondo me una cosa particolarmente
infelice e dannosissima per l'evangelizzazione dell'Africa. Storicamente è
infatti avvenuto che la Chiesa è arrivata in Africa nel momento forse
culmine di una spiritualità individualistica, pietistica. L'ideale era
"salvare l'anima" dei pagani, in un contesto individualistico, mai in senso
comunitario.
Quindi siamo andati a predicare un Vangelo di salvezza personale, quasi
individualistica, a della gente che viveva immersa in un'atmosfera
comunitaria, in un continente che ha un'esperienza ricchissima in questo
campo, con mille modi per vivere la vita comunitaria in modo pacifico e
tollerante. Questo è un tipico seme che nel Vangelo c'è, che l'Africa ha, ma
che noi non abbiamo fatto incontrare; anche se sono convinto che prima o poi
germoglierà, darà frutti nuovi e diversi, forme di vita comunitaria che noi
ora non possiamo nemmeno immaginare. Ricordo - a tale proposito - di aver
visitato nel 1988 a Kisumu (Kenya) padre Hans Burgmann, un missionario che
ha fatto un'esperienza straordinaria di vita comunitaria con la gente,
trasformando un'intera parrocchia, un intero quartiere in senso comunitario,
e la sua esperienza continua ormai da 21 anni. Una sera, chiacchierando con
un prete africano di un altra diocesi, gli chiesi cosa pensasse
dell'attività pastorale di Padre Burgmann, del tipo di vita comunitaria da
lui intrapresa. Mi rispose: "Io penso che sia bellissimo. Peccato sia
arrivato con un secolo di ritardo". "Cioè? 'Si', se qualcuno un secolo fa
avesse annunciato il Vangelo in questo modo, tutta l'Africa nera adesso
sarebbe cristiana, perché si sarebbe sposata davvero la ricchezza della
tradizione africana con l'annuncio del Vangelo".
Un altro seme cui si potrebbe pensare è quello della creatività liturgica,
non solo nei piccoli aspetti esteriori, ma prendendo come riferimento i
primi secoli del cristianesimo, l'esempio straordinario della Chiesa di
Milano che inventa con un grande santo come Ambrogio tutta una nuova
liturgia, un nuovo modo di cantare e di pregare. Senz'altro questo seme
potrebbe dare nuovi frutti se fosse trapiantato in Africa. Io credo che, pur
con i due grandi limiti della Tradizione e della comunione con le altre
chiese (su cui spetta ai vescovi vigilare) si debbano dare alle comunità
africane spazi più ampi di libertà per esprimere la loro fede in termini
locali.

Domanda
Le comunità di Koinonia che hai fondato in Zambia e in Kenya sono nate
quindi anche con l'intento di favorire l'incontro fra il Vangelo e la
tradizione africana?

Risposta
Certo, insieme ai miei amici africani sto cercando di fare lentamente
qualcosa in questo senso, anche se so benissimo che certi discorsi sono più
facili a dirsi che a realizzarsi. Bisogna infatti sottolineare che la
cultura africana non va idealizzata, poiché, come tutte le culture, ha dei
limiti, degli aspetti che sono negativi e da superare: basti pensare al
ruolo subordinato che molte tradizioni riservano alla donna o a pratiche
come l'infibulazione che violano l'integrità della persona. Ma gli africani
stessi che hanno recepito il messaggio evangelico e che sono intelligenti ed
aperti capiscono benissimo che c'è qualcosa da cambiare nella loro
tradizione.  Come d'altronde è vero per tutti noi: nessuno di noi riuscirà a
vivere alla perfezione il messaggio evangelico, né come individuo né come
cultura, dunque dobbiamo costantemente essere disponibili al cambiamento; e
ciò vale anche per la Chiesa: il desiderio di seguire Gesù implica uno
sforzo che non finirà mai.
Inoltre non dobbiamo mai dimenticare che l'inculturazione vera è fatta dalla
gente, non può nascere dalle elucubrazioni dei teologi, i quali possono
anche inventare un rito di iniziazione che è apparentemente perfetto,
concilia i valori tradizionali con quelli cristiani, ma magari alla gente
non piace e quindi non lo pratica, perché esso deve nascere da loro, deve
derivare da una conversione vera e profonda.
Perché non potrebbe ripetersi in Africa quanto è accaduto nei primi secoli,
quando i cristiani hanno recuperato la festa pagana del solstizio d'inverno,
facendone il Natale ? Di fatto, purtroppo, queste cose non sono avvenute in
Africa, e non si vedono nemmeno all'orizzonte, perché il controllo dei
vescovi e dei teologi è talmente rigido che questo spazio non c'è.

Domanda
Una delle attività principali di Koinonia è l'assistenza ai bambini di
strada, un fenomeno che sta assumendo anche in Africa proporzioni
preoccupanti. Quali ne sono secondo te le cause principali?

Risposta
I1 Kenya innanzitutto è un caso particolare in Africa: qui il fenomeno è più
grave che in altre parti del continente. Si possono elencare diversi
fattori, basandoci anche su studi che sono stati fatti sull'argomento.  Una
causa è la forte urbanizzazione, che è stata molto rapida soprattutto dopo
l'indipendenza, ma che continua ancora oggi e che ha creato questa città
mostruosa di circa 4 milioni di abitanti, secondo le stime delle Nazioni
Unite. Di queste, il 65-70% vive in baracche e una percentuale simile non ha
un lavoro fisso. In questo contesto e di fronte alle difficoltà economiche
poste dalla vita in città i valori della vita tradizionale si sgretolano.
Nella vita tradizionale non esisteva l'orfanotrofio, era una cosa
impensabile, perché se un bambino perdeva entrambi i genitori, i parenti più
stretti( noi diremmo gli "zii", ma significativamente questo termine non
esiste nelle lingue africane) facevano a gara, litigavano per prendere il
bambino. Esso non rappresenta tanto una ricchezza economica, ma la vita che
continua, il futuro del villaggio; c'è tutta una mistica per la vita in
Africa che ruota attorno alla figura del bambino. Quindi il bambino in una
situazione di cultura tradizionale, di villaggio, non sarebbe stato
abbandonato. Invece in città chi lavora viene pagato 3000 o 4000 scellini al
mese, (corrispondenti a circa 80.000 lire) e per esempio mandare un bambino
a scuola costa - per tasse, libri, uniforme - circa 12.000 scellini l'anno:
in una famiglia con 3000 scellini di reddito mandare a scuola due bambini
equivale a non aver più i soldi per mangiare. La soluzione è che i bambini
non vanno a scuola e quindi restano sulla strada: una bocca in più da
sfamare a Nairobi diventa un problema drammatico per la maggioranza delle
famiglie. Cosa succede? Non è che la mamma cacci via il bambino, ma molto
spesso è lui stesso che si rende conto che la sua presenza intorno al tavolo
fa
si' che tutti mangino un po' di meno, e quindi decide di restare in strada
con i suoi amici e di cercare di sopravvivere in qualche Modo: cosi' adagio
adagio si stacca dalla famiglia.  I1 numero dei bambini di strada varia a
seconda di cosa si intenda per bambino di strada, ossia se il bambino
mantiene o meno qualche forma di contatto con la famiglia: abbiamo quindi
cifre che oscillano tra le 60.000 e le 450.000 unità. I1 problema alla base
di tutto ciò è ovviamente la drammatica povertà del paese, che continua a
crescere perché mentre negli anni '80 e fino all'inizio degli anni '90 il
Kenya (in quanto rappresentava la "vetrina" del capitalismo in Africa) era
sostenuto dai paesi occidentali, con la fine della competizione con il
comunismo esso è stato abbandonato. La crisi economica si è aggravata anche
a causa del crollo del turismo e per di più il Kenya, come la maggioranza
degli Stati africani, è strozzato dal famigerato debito estero per cui il
governo, seguendo le ricette imposte dal FMI, taglia tutte le spese sociali,
i sussidi alle scuole, le spese per l'educazione e gli ospedali e alla fine
chi paga sono naturalmente i più poveri. Una concausa di tutto ciò, che
peggiora la situazione in modo vertiginoso, è il fenomeno dell'AIDS.
Tanta gente giovane muore e i loro figli restano sulla strada; nella povertà
generale non ci sono forme di assistenza sociale e questi bambini vengono
abbandonati: qualcuno ha addirittura calcolato che nel 2005 ci dovrebbe
essere in Kenya un milione di orfani di AIDS. La malattia sta esplodendo.

Domanda
Per di più l'attuale classe dirigente africana non sembra essere fra le più
adatte per far fronte a queste drammatiche situazioni,..

Risposta
Per spiegare le cause dell'inefficienza della classe dirigente africana
occorrerebbero analisi assai complesse. A mio parere bisogna comunque
partire dalla constatazione che l'africano vive oggi a cavallo fra due
culture: la cultura tradizionale e la cultura moderna, ossia la cosiddetta
modernità ad imitazione dell'Occidente. La cultura tradizionale è una
cultura in cui prevalgono valori come la famiglia estesa, la comunione,
l'unità e la solidarietà fra la gente, l'armonia: uno degli ideali massimi
della cultura africana è mantenere l'armonia nel villaggio e il rispetto
l'uno dell'altro. Nella cultura moderna in cui questa gente si trova a
vivere, i valori sono ben diversi: l'efficienza, il fare tante cose in
fretta, la puntualità, il produrre, la competizione ecc. Quindi l'africano
che si reca al lavoro in città dalla baracche periferiche - in cui tutto
sommato vive ancora in una mentalità tradizionale - entra ogni giorno in un
mondo in cui i valori sono totalmente diversi rispetto a quelli cui è stato
abituato da una lunga tradizione: dunque vive sempre in questa situazione
difficile, disgregata.  È significativo che nelle città africane stiano
aumentando vertiginosamente i casi di malattie mentali, anche per questa
dissociazione, per questo vivere contemporaneamente in mondi e culture
diverse. Per di più la modernità ha portato anche dei "mostri" giganteschi
che la cultura tradizionale non sa come gestire, perché sono completamente
al di fuori di ciò che essa prevedeva.  Uno di questi mostri è lo Stato, che
da noi si è evoluto per vari secoli prima di arrivare al modello attuale,
mentre li' è stato imposto da un potere esterno; nella vita tradizionale
africana il potere nei villaggi veniva invece gestito tutto fra gente che si
conosceva, che si poteva guardare in faccia, non in un gruppo formato da
milioni di persone. Quindi tutta la macchina complessa e le regole
necessarie per gestire uno Stato moderno sono assolutamente aliene alla
cultura tradizionale africana: lo Stato per molti di loro è ancora un'entità
impersonale, che non rispecchia nessuno dei loro valori più profondi. Lo
stesso discorso vale anche per la grande impresa, la multinazionale, ed in
un certo senso anche per quella macchine gigantesche che sono le diverse
Chiese cristiane, con strutture articolate, complesse, lontane, di fronte
alle quali l'africano medio si sente intimidito ed estraneo. In questa
situazione, chi è che riesce a prendere il potere e a dominare? Colui che è
capace di vivere contemporaneamente in queste due realtà, di tenere il piede
in due scarpe, chi è capace di essere l'africano che conosce la sua gente,
ma anche di capire i meccanismi di funzionamento dello Stato moderno o per
esempio, di una multinazionale, di come fare per accumulare sempre più
soldi: quindi in genere i furbi, gli arrivisti, la parte più deteriore della
gente.
Spesso costoro quando raggiungono il potere politico si riempiono la bocca
di parole come "democrazia o libere elezioni", ma le usano solo per motivi
strumentali, senza aver mai interiorizzato veramente il valore positivo
delle istituzioni democratiche e piegandole ai propri fini. Conoscendo bene
gli africani dei villaggi e della cultura tradizionale, a me sembra che essi
siano le persone più tolleranti e buone che esistano, eppure sono governati
da quelli che sono forse i peggiori politici del mondo. Questa è almeno la
mia opinione.

Domanda
In un tuo articolo di qualche anno fa ('(Laying the foundation for love and
understanding", Sunday Nation, 10 november 1996, Nairobi, in Father Kizito's
notebook 2, Koinonia, Nairobi) sottolinei di aver ricevuto molti
insegnamenti da coloro che - almeno ufficialmente - non avrebbero alcun
titolo per insegnare nulla: i bambini di strada. Questa tua affermazione mi
ha colpito, anche perché è piuttosto in contrasto con l'immagine più
consolidata del missionario che va ad insegnare, a trasmettere, piuttosto
che ad imparare. Quali sono gli insegnamenti più preziosi che hai ricevuto d
a questi "piccoli maestri"?

Risposta
La cosa più importante che ti insegnano subito i bambini di strada - come
del resto un po' tutti i bambini - è 1'attenzione alle persone. Loro sono
abituati a non dare nessuna importanza alle cose: non possiedono niente, non
sanno neanche se mangeranno la sera, quindi la cosa essenziale di cui hanno
bisogno è l'attenzione a loro come persone umane. Ma loro ti insegnano ciò
non tanto perché te lo richiedano esplicitamente, ma perché tu stesso vedi
che fra di loro, nel loro piccolo gruppo, mettono in pratica l'attenzione
agli altri e la solidarietà. Inoltre vivendo sulla strada hanno sviluppato
notevoli capacità intuitive e psicologiche, sanno analizzare subito le
persone, con uno sguardo capiscono che tipo di persona è quella che li
avvicina. Spesso sanno donare anche delle vere e proprie perle di sapienza.
Ricordo che un giorno dissi ad uno di loro che se avesse imparato bene
l'italiano avrebbe potuto, da grande, andare in Italia. Lui, dopo aver
riflettuto a lungo, mi rispose serissimo: "Non vale la pena quando sarò
grande, i grandi non capiscono niente, a cosa serve visitare un paese nuovo
quando sei grande e non capisci niente?  No, non credo proprio che ci andrò
". Questa è la loro esperienza degli adulti, il loro modo di giudicarli.
Domanda
A conclusione di questo nostro incontro ti chiedo di offrire anche ai
lettori di Testimonianze una storiella africana, di quelle che usi spesso
anche nel libro per dare ai lettori uno spunto di riflessione o
un'indicazione di tipo etico, morale.

Risposta
Va bene. ... camminano nel centro di Nairobi, ed il pigmeo dice: "Sento il
canto di un grillo'. Il Kikuyu, (famosi per essere molto legati alla
ricchezza e ai soldi) replica: "I1 canto di un grillo? Nel frastuono e con
le macchine che passano tu senti il canto di un grillo? È impossibile!" .
"Un momento, aspetta" - dice il pigmeo avvicinandosi ad un vecchio muro su
cui si appoggiavano dei rami d'edera. Li' egli sposta qualche foglia e poi,
rivolto all'amico: "Vedi, qui c'è un grillo". II Kikuyu è sbalordito: "Voi
avete un udito veramente straordinario: avevo sentito parlare di ciò, ma non
mi sarei mai aspettato che tu potessi sentire il canto di un grillo in
questo frastuono". "No - replica il pigmeo - noi abbiamo lo stesso identico
udito, il problema è che ciascuno sente solo le cose a cui è attenti e che
vuole sentire. "Ma no, non raccontarmi storie, voi pigmei avete un udito più
sviluppato!". Allora il pigmeo, sicuro di sè: "Ora te lo dimostro!". Quindi
prende una minuscola monetina da un soldo, la fa cadere e immediatamente 10
passanti si buttano su di essa. "Vedi: non hanno udito il canto del grillo,
ma hanno sentito il suono dei soldi, benché questo sia molto più leggero di
quello!"