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Notizie Est #280 (2) - NATO/Jugoslavia
- To: "Notizie Est" <est@ecn.org>
- Subject: Notizie Est #280 (2) - NATO/Jugoslavia
- From: "Est" <est@ecn.org>
- Date: Thu, 18 Nov 1999 19:20:33 +0100
- Posted-Date: Thu, 18 Nov 1999 19:32:48 +0100
- Priority: normal
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NOTIZIE EST #280 (2) - NATO/JUGOSLAVIA
18 novembre 1999
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LA NATO PENSAVA A UN'INVASIONE DI TERRA? / 2
[Seguono alcune considerazioni sull'articolo del
"New York Times" distribuito nell'ultimo numero
di "Notizie Est", e in generale su tutta la
questione dell'intervento di terra della NATO
che alcuni sostengono fosse in preparazione alla
fine del maggio scorso]
LA POLEMICA SULL'INTERVENTO DI TERRA
(OSSERVAZIONI IN MERITO ALL'ARTICOLO DEL "NEW
YORK TIMES")
di Andrea Ferrario
L'articolo scritto da Erlanger per il "New York
Times" e' mirato nel suo complesso a dare
l'impressione che alla vigilia dell'incontro
risolutivo del 3 giugno tra Cernomyrdin,
Ahtisaari e Milosevic, fosse stata nei fatti
presa, o quasi presa, la decisione di procedere
a un intervento di terra, e infatti al termine
dell'articolo si scrive che "la prospettiva di
attacchi aerei piu' intensi e, cosa forse piu'
importante, la comprensione che un'invasione di
terra era imminente, sono stati sufficienti per
Milosevic", o, poco piu' oltre, "per la
psicologia della decisione di Milosevic [di
accettare un accordo] e' stata di importanza
chiave la prospettiva, in ultimo reale, di una
guerra di terra". In realta', in tutto il pezzo
l'autore non scrive mai a chiare lettere che una
tale decisione fosse stata presa, ne' il suo
resoconto da' basi sufficienti per affermare che
fosse davvero prossima a concretizzarsi. Se si
legge "a ritroso" l'articolo di Erlanger, si ha
un quadro ben diverso. L'autore scrive che, in
un momento da egli non precisato, ma che si
presume immediatamente successivo agli ultimi
giorni di aprile, dopo l'imbarazzo cui Clinton
era stato esposto per le prime aperte
esortazioni di Blair a prendere in
considerazione un attacco di terra, a Clark era
stato dato "il tacito assenso a cominciare a
discutere di opzioni di terra", dove
l'espressione "tacito assenso" lascia intendere
che fosse stato Clark a premere perche' si
"cominciasse a discutere", non di piani
dettagliati, ma di "opzioni" di terra. Non si
sarebbe trattato quindi di un'iniziativa dei
massimi vertici politici e militari di
Washington e l'aggettivo "tacito" lascia
intendere che in via ufficiale non se ne voleva
nemmeno parlare. "A meta' maggio", scrive
Erlanger, "Clark ha presentato i suo piano ed e'
stato trattato scetticamente dal Pentagono, che
rimaneva ancora contrario all'autorizzazione
dell'uso degli elicotteri Apache sul Kosovo",
tuttavia, "viste le pressioni di Blair, [...]
Solana e' stato autorizzato a commissionare a
Clark un piano di invasione modificato e
dettagliato". Quindi e' solo dopo la meta' di
maggio, cioe' nel momento in cui erano appena
fallite le prospettive di una soluzione di pace
basata sul rilancio di Rugova (suo arrivo a Roma
il 5 maggio) e per la quale molti avevano
addirittura formulato una data intorno al 15-16
maggio, prospettive in buona parte cancellate
dal caos politico successivo al non ancora
chiarito bombardamento dell'Ambasciata cinese a
Belgrado (7 maggio), che viene commissionato un
primo piano dettagliato e "modificato" (quindi
quello di Clark non andava bene). Riguardo al
periodo tra l'inizio e la fine di maggio, vanno
precisate alcune cose. Erlanger cita
erroneamente Clinton, affermando che egli
avrebbe detto "tutte le opzioni sono sul
tavolo", mentre per essere precisi, il 18 maggio
il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato
"non ho tolto alcuna opzione dal tavolo" (UPI,
18 maggio 1999, "[I have] not taken any option
off the table"), formula che nel linguaggio
diplomatico ha un significato ben diverso.
Inoltre, il 21 maggio Blair e Clinton avevano
avuto un lungo colloquio telefonico, durante il
quale il presidente USA aveva categoricamente
ripetuto a Blair la sua richiesta di smetterla
di spingere per un intervento di terra
("Guardian", 21 maggio 1999). Ancora il 24
maggio, l'allora segretario alla difesa
britannico Robertson si recava a Washington per
promuovere la campagna interventista del suo
premier, ma al termine dei suoi colloqui tutto
quello che dichiarava era che le "opzioni che
implicano [il ricorso a] truppe di terra
rimangono allo studio" (AFP, 24 maggio 1999,
"options involving ground troops remain under
review"). Inoltre, negli stessi giorni
circolavano voci di un accordo "entro 15
giorni", rivelatesi poi esatte, le cui fonti
erano personaggi di primo piano e bene informati
sui retroscena della guerra, come il premier
macedone Georgievski, appena tornato da una
visita lampo in Italia, e Vuk Draskovic, allora
da poco espulso dal governo serbo, ma che ha
sempre avuto buoni canali di comunicazione con
la cerchia di Milosevic (tali previsioni erano
state pubblicate da "Notizie Est" in tempi non
sospetti, nel #235 del 29 maggio 1999). Dalla
meta' di maggio, Erlanger salta quindi
direttamente (sempre leggendo il suo articolo "a
ritroso") ai giorni cruciali del 2 e del 3
giugno. Il 2 giugno si tengono due incontri ai
quali presenzia il consigliere per la sicurezza
nazionale Sandy Berger: uno viene definito per
l'appunto "incontro" e vede Berger parlare a una
serie di esperti "esterni" favorevoli a un
intervento di terra, il secondo e' una riunione
ufficiale "dei piu' alti responsabili della
sicurezza nazionale" USA. Riguardo a questa
seconda riunione, ufficiale, Erlanger si
dimentica di specificare un fatto fondamentale:
tra i partecipanti non c'era Clark,
contrariamente alle riunioni precedenti, un
fatto che molte fonti di stampa avevano
esplicitamente attribuito allora al desiderio di
tenere fuori proprio colui che insisteva per
l'approvazione di un intervento di terra nel
piu' breve tempo possibile. Sempre secondo
Erlanger, il 2 giugno "funzionari della Casa
Bianca stavano ancora lavorando duramente alla
ricerca di opzioni di terra" che escludessero
"l'idea" di Clark di un'invasione con 175.000
uomini, definita piu' avanti come "l'unico piano
sul tavolo" fino a quel momento (e qui il testo
e' ambiguo, perche' tra "idea" e "piano" c'e'
un'enorme differenza, se per "piano" si intende
un documento dettagliato e non, per l'appunto,
un'idea). Sempre il 2 giugno, cioe' a 24 ore
dall'accordo, lo stesso Sandy Berger affermava
letteralmente, di fronte ai "falchi" favorevoli
a un intervento di terra: "Non siamo ancora
giunti alla conclusione che la campagna aerea
non funziona. Ma ci stiamo preparando alla
possibilita' che essa non dia risultati". Che il
giorno prima degli accordi uno dei principali
"falchi" dell'amministrazione statunitense
parlasse semplicemente di preparativi per la
possibilita' che i bombardamenti non dessero
risultati e' qualcosa di ben diverso
dall'imminente approvazione di piani operativi
gia' pronti.
Tutto questo vuol dire che all'interno della
NATO non si prendeva in considerazione un
intervento di terra? Nient'affatto. Nella
situazione senza vie di uscita in cui si
trovavano in quel momento i "pianificatori"
della NATO la messa a punto di piani concreti
per un'invasione di terra era diventata una
necessita' sgradita (tranne che a Clark), ma,
nella loro prospettiva, inevitabile. Tali piani
fino a quel momento non erano pronti, se si
eccettua l'"idea/piano" di Clark, che nessuno
voleva. Va notato anche che tra i tanti, enormi,
problemi di un eventuale intervento di terra vi
era la lunghezza dei tempi per una sua
realizzazione: qui Erlanger conferma e
addirittura accentua quello che nessuno ha mai
negato, cioe' che un intervento sarebbe stato
realizzabile solo in autunno. Secondo Erlanger,
infatti, "i britannici ritenevano che avrebbero
avuto bisogno di ben quattro mesi [...] per
prepararsi a un'invasione", mentre "gli
americani pensavano di avere bisogno di meno di
90 giorni, ma le loro scadenze sono state
brutalmente dilazionate quando all'improvviso si
sono resi conto che, senza significativi lavori
per la costruzione di nuove strade, i grossi
carri armati americani M1 Abrams non sarebbero
riusciti ad affrontare l'unica strada che
collega l'Albania al Kosovo", senza contare che,
se si voleva coinvolgere altri eserciti della
NATO, i tempi avrebbero potuto essere ancora
piu' lunghi. Un intervento di terra, quindi,
avrebbe potuto cominciare nell'ipotesi piu'
ottimistica verso meta' settembre e, in quella
piu' realistica, verso meta' ottobre, sempre che
in una sola decina di giorni i suoi propugnatori
fossero riusciti a convincere non solo Clinton,
il Pentagono e il Dipartimento della Difesa, ma
anche gli alleati europei, oppure a preparare il
quadro politico per una rottura esplicita con
questi ultimi. Secondo quanto scrive Erlanger,
infatti, il consigliere per la sicurezza
nazionale Berger avrebbe lasciato intendere che
gli Stati Uniti sarebbero stati pronti, pur di
ottenere una vittoria a tutti i costi, a
provocare una frattura aperta nella NATO e a
mandare all'aria i rapporti con la Russia,
intervenendo da soli, o con la sola Gran
Bretagna. Che nell'amministrazione USA ci siano
settori che abbiano pensato a una tale politica
e' probabile (e Clark ne e' quasi sicuramente il
principale esponente), ma ben piu' influenti
sembrano essere quelli che si sono preoccupati
invece di preservare l'unita' della NATO e di
mantenere rapporti gestibili con la Russia.
Dall'articolo di Erlanger, e da altri articoli
pubblicati in questi mesi, risulta che questi
ultimi settori, "moderati", sarebbero
rappresentati niente meno che dalla Casa Bianca,
dal Pentagono e dal Dipartimento della Difesa,
come gia' accenato. A tale proposito, e'
interessante notare che Erlanger scrive come il
2 giugno funzionari della Casa Bianca "stavano
ancora [discutendo] della creazione di un
'corridoio' di uscita per fare defluire dal
Kosovo gli albanesi sfollati interni e di 'aree
protette' per loro all'interno del Kosovo
stesso, dove avrebbero ricevuto cibo e riparo",
cioe' stavano lavorando a una soluzione
"bosniaca", che avrebbe portato a una
spartizione di fatto del Kosovo e/o a un
lunghissimo "tira e molla" tra NATO e Belgrado,
che sarebbe potuto durare anche anni. Di fronte
a questa eventualita', gli Stati Maggiori
dell'esercito statunitense, pur continuando a
opporsi a un'invasione di terra e a dare la
preferenza ai bombardamenti a oltranza,
avrebbero preferito, se necessario, la soluzione
"totale" di Clark piuttosto che un "pantano"
come quello sopra descritto.
Ma al di la' delle fantasie di Clark, quale sarebbe stata la realta' di un tale
intervento di terra? Avevamo gia' accennato in passato ("Notizie Est" #235, 29
maggio 1999) ai vari fattori che rendevano da escludersi un intervento di
terra, se non come ultima mossa disperata di un'alleanza occidentale incapace
di gestire la guerra da essa stessa avviata. L'articolo di Erlanger parla di
un'invasione a partire dalla sola Albania (e segnala subito l'ostacolo enorme
dell'esistenza di un'unica via di accesso al Kosovo, impraticabile senza grossi
lavori), con un evenutale attacco di disturbo dall'Ungheria. Ma l'Albania non
e' certo in grado di svolgere il ruolo avuto dall'Arabia Saudita durante la
guerra del Golfo: come avrebbe potuto la NATO fare partire un attacco da un
paese privo di risorse e infrastrutture e, soprattutto, noto per essere il piu'
instabile di tutta l'Europa? Anche un parziale "ricorso" alla Macedonia, a tale
fine, avrebbe incontrato analoghe difficolta' o addirittura amplificato i
problemi. Sarebbe stato possibile condurre un intervento di tale portata, dalla
durata incerta, con delle retrovie cosi' fragili e insicure? Anche un attacco
di disturbo dall'Ungheria sembra un'ipotesi improbabile, o comunque a rischio
troppo alto: non solo il parlamento ungherese aveva gia' deliberato in maniera
irrevocabile il divieto della messa a disposizione del proprio territorio per
interventi da terra, ma un tale attacco, per quanto diversivo, avrebbe comunque
rischiato di trasformarsi in uno scontro di ampie dimensioni e, con facili
altre ritorsioni "diversive" dell'esercito jugoslavo contro la popolazione
ungherese della Vojvodina, di ampliare di molto il teatro del conflitto. Come
avrebbero fatto, inoltre, la NATO, o i soli Stati Uniti e Gran Bretagna, a
gestire per altri tre mesi (ipotesi piu' ottimistica) dei rapporti interni che
erano gia' piu' che logori a fine maggio? O a gestire addirittura, in attesa
dell'intervento di terra, una situazione di rottura con gli altri paesi NATO e
con la Russia? Come avrebbero potuto tenere insieme il sostegno degli altri
paesi balcanici, gia' alle corde sia per motivi interni sia per lo
sconvolgimento dei loro gia' precari rapporti economici con l'estero? Non si
puo' inoltre ignorare che, se messo davvero alle strette in tale maniera, il
regime di Belgrado avrebbe avuto modo di aprire altri fronti: sia internamente
in Vojvodina, nel nel Sangiaccato o in Montenegro, che esternamente in Bosnia,
in Macedonia o, addirittura, anche in paesi confinanti come Albania e Bulgaria.
Senza dimenticare infine che, come dimostrano le esperienze passate, anche in
contesti meno complessi difficilmente i paesi occidentali si impegnano in
interventi in cui esista il rischio di scontri diretti e quindi di subire
vittime.
L'ipotesi, che traspare chiaramente dalle testimonianze citate da Erlanger, di
una decisione da parte di USA e/o Gran Bretagna di procedere da soli con una
tale operazione, avrebbe risolto si' gli impacci causati dalla mancanza di
coesione all'interno della NATO, riconoscendo in maniera aperta e brutale la
spaccatura esistente e magari incontrando un tacito assenso da parte dei paesi
con maggiori difficolta' di ordine interno (Italia, Germania, Grecia), che si
sarebbero visti cosi' sollevati da responsabilita' dirette, ma avrebbe lasciato
in mano ai suoi esecutori un dopoguerra politicamente e militarmente da incubo,
che avrebbero dovuto affrontare da soli, a partire dalla responsabilita' della
"ricostruzione", fino alla ricomposizione del quadro politico generale, al
controllo militare sul terreno, e questo su tutto il territorio dei Balcani,
senza potere ricorrere alla NATO e con una rottura dei rapporti con la Russia.
Viste le grandi difficolta' che si riscontrano ancora oggi, a cinque mesi dagli
accordi di giugno e in un contesto tutto sommato pacifico, con la Jugoslavia
che ha diligentemente osservato tutte le condizioni, e' difficile immaginarsi
come i soli Stati Uniti e/o la Gran Bretagna avrebbero potuto affrontare il
dopoguerra dopo gli sconvolgimenti di un intervento di terra (che nella
migliore delle ipotesi, inoltre, sarebbe finito in inverno, con i profughi
ancora non rientrati).
Tuttavia, dalle testimonianze degli ultimi mesi, e' innegabile che importanti
settori dell'amministrazione USA (e della Gran Bretagna), stessero pensando di
prendere concretamente in considerazione una tale ipotesi. Il fatto che oggi
molti esponenti di tali governi cerchino, attraverso le loro rivelazioni
rilasciate ai media, di presentare tali progetti ancora non messi a punto come
una decisione nei fatti gia' presa, che sarebbe stata uno dei fattori
principali che avrebbero spinto Milosevic ad accettare un accordo, ci sembra
piu' che altro il volere mettere a posteriori una dolorosa pezza sulle estreme
difficolta' della NATO e sulle profonde divisioni evidenziatesi all'intero
dell'alleanza e degli stessi vertici statunitensi. Non va tuttavia trascurato
che e' esistita almeno la disponibilita' a prendere in considerazione una mossa
che avrebbe precipitato gli interi Balcani ancora piu' nel baratro, cosi' come
non va ignorato che, secondo quanto riferisce Erlanger, il 2 giugno erano
ancora reali i progetti che prevedevano una spartizione "bosniaca" del Kosovo,
anch'essi con conseguenze tragiche e a lungo
termine per gli interi Balcani. In entrambi i
casi (ma anche in quello del proseguimento "a
oltranza" dei bombardamenti), la NATO, e i paesi
che la compongono avrebbero compiuto un fatto
dalle conseguenze gravissime, ma che avrebbe
comunque solo confermato la sostanza della
storia di ormai quasi un decennio di loro
interventi nei Balcani, una storia fatta di
imposizione della propria violenza, di sostegno
politico e materiale a regimi repressivi e
autoritari, di colonizzazione e di brutale
sfruttamento economico, ma anche di generazione
di instabilita' e di incapacita' di gestire la
situazione a livello sia politico che militare.
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