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Notizie Est #280 (2) - NATO/Jugoslavia



"I Balcani" - http://www.ecn.org/est/balcani

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NOTIZIE EST #280 (2) - NATO/JUGOSLAVIA
18 novembre 1999
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LA NATO PENSAVA A UN'INVASIONE DI TERRA? / 2

[Seguono alcune considerazioni sull'articolo del 
"New York Times" distribuito nell'ultimo numero 
di "Notizie Est", e in generale su tutta la 
questione dell'intervento di terra della NATO 
che alcuni sostengono fosse in preparazione alla 
fine del maggio scorso]

LA POLEMICA SULL'INTERVENTO DI TERRA 
(OSSERVAZIONI IN MERITO ALL'ARTICOLO DEL "NEW 
YORK TIMES")
di Andrea Ferrario

L'articolo scritto da Erlanger per il "New York 
Times" e' mirato nel suo complesso a dare 
l'impressione che alla vigilia dell'incontro 
risolutivo del 3 giugno tra Cernomyrdin, 
Ahtisaari e Milosevic, fosse stata nei fatti 
presa, o quasi presa, la decisione di procedere 
a un intervento di terra, e infatti al termine 
dell'articolo si scrive che "la prospettiva di 
attacchi aerei piu' intensi e, cosa forse piu' 
importante, la comprensione che un'invasione di 
terra era imminente, sono stati sufficienti per 
Milosevic", o, poco piu' oltre, "per la 
psicologia della decisione di Milosevic [di 
accettare un accordo] e' stata di importanza 
chiave la prospettiva, in ultimo reale, di una 
guerra di terra". In realta', in tutto il pezzo 
l'autore non scrive mai a chiare lettere che una 
tale decisione fosse stata presa, ne' il suo 
resoconto da' basi sufficienti per affermare che 
fosse davvero prossima a concretizzarsi. Se si 
legge "a ritroso" l'articolo di Erlanger, si ha 
un quadro ben diverso. L'autore scrive che, in 
un momento da egli non precisato, ma che si 
presume immediatamente successivo agli ultimi 
giorni di aprile, dopo l'imbarazzo cui Clinton 
era stato esposto per le prime aperte 
esortazioni di Blair a prendere in 
considerazione un attacco di terra, a Clark era 
stato dato "il tacito assenso a cominciare a 
discutere di opzioni di terra", dove 
l'espressione "tacito assenso" lascia intendere 
che fosse stato Clark a premere perche' si 
"cominciasse a discutere", non di piani 
dettagliati, ma di "opzioni" di terra. Non si 
sarebbe trattato quindi di un'iniziativa dei 
massimi vertici politici e militari di 
Washington e l'aggettivo "tacito" lascia 
intendere che in via ufficiale non se ne voleva 
nemmeno parlare. "A meta' maggio", scrive 
Erlanger, "Clark ha presentato i suo piano ed e' 
stato trattato scetticamente dal Pentagono, che 
rimaneva ancora contrario all'autorizzazione 
dell'uso degli elicotteri Apache sul Kosovo", 
tuttavia, "viste le pressioni di Blair, [...] 
Solana e' stato autorizzato a commissionare a 
Clark un piano di invasione modificato e 
dettagliato". Quindi e' solo dopo la meta' di 
maggio, cioe' nel momento in cui erano appena 
fallite le prospettive di una soluzione di pace 
basata sul rilancio di Rugova (suo arrivo a Roma 
il 5 maggio) e per la quale molti avevano 
addirittura formulato una data intorno al 15-16 
maggio, prospettive in buona parte cancellate 
dal caos politico successivo al non ancora 
chiarito bombardamento dell'Ambasciata cinese a 
Belgrado (7 maggio), che viene commissionato un 
primo piano dettagliato e "modificato" (quindi 
quello di Clark non andava bene).  Riguardo al 
periodo tra l'inizio e la fine di maggio, vanno 
precisate alcune cose. Erlanger cita 
erroneamente Clinton, affermando che egli 
avrebbe detto "tutte le opzioni sono sul 
tavolo", mentre per essere precisi, il 18 maggio 
il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato 
"non ho tolto alcuna opzione dal tavolo" (UPI, 
18 maggio 1999, "[I have] not taken any option 
off the table"), formula che nel linguaggio 
diplomatico ha un significato ben diverso. 
Inoltre, il 21 maggio Blair e Clinton avevano 
avuto un lungo colloquio telefonico, durante il 
quale il presidente USA aveva categoricamente 
ripetuto a Blair la sua richiesta di smetterla 
di spingere per un intervento di terra 
("Guardian", 21 maggio 1999). Ancora il 24 
maggio, l'allora segretario alla difesa 
britannico Robertson si recava a Washington per 
promuovere la campagna interventista del suo 
premier, ma al termine dei suoi colloqui tutto 
quello che dichiarava era che le "opzioni che 
implicano [il ricorso a] truppe di terra 
rimangono allo studio" (AFP, 24 maggio 1999, 
"options involving ground troops remain under 
review"). Inoltre, negli stessi giorni 
circolavano voci di un accordo "entro 15 
giorni", rivelatesi poi esatte, le cui fonti 
erano personaggi di primo piano e bene informati 
sui retroscena della guerra, come il premier 
macedone Georgievski, appena tornato da una 
visita lampo in Italia, e Vuk Draskovic, allora 
da poco espulso dal governo serbo, ma che ha 
sempre avuto buoni canali di comunicazione con 
la cerchia di Milosevic (tali previsioni erano 
state pubblicate da "Notizie Est" in tempi non 
sospetti, nel #235 del 29 maggio 1999). Dalla 
meta' di maggio, Erlanger salta quindi 
direttamente (sempre leggendo il suo articolo "a 
ritroso") ai giorni cruciali del 2 e del 3 
giugno. Il 2 giugno si tengono due incontri ai 
quali presenzia il consigliere per la sicurezza 
nazionale Sandy Berger: uno viene definito per 
l'appunto "incontro" e vede Berger parlare a una 
serie di esperti "esterni" favorevoli a un 
intervento di terra, il secondo e' una riunione 
ufficiale "dei piu' alti responsabili della 
sicurezza nazionale" USA. Riguardo a questa 
seconda riunione, ufficiale, Erlanger si 
dimentica di specificare un fatto fondamentale: 
tra i partecipanti non c'era Clark, 
contrariamente alle riunioni precedenti, un 
fatto che molte fonti di stampa avevano 
esplicitamente attribuito allora al desiderio di 
tenere fuori proprio colui che insisteva per 
l'approvazione di un intervento di terra nel 
piu' breve tempo possibile. Sempre secondo 
Erlanger, il 2 giugno "funzionari della Casa 
Bianca stavano ancora lavorando duramente alla 
ricerca di opzioni di terra" che escludessero 
"l'idea" di Clark di un'invasione con 175.000 
uomini, definita piu' avanti come "l'unico piano 
sul tavolo" fino a quel momento (e qui il testo 
e' ambiguo, perche' tra "idea" e "piano" c'e' 
un'enorme differenza, se per "piano" si intende 
un documento dettagliato e non, per l'appunto, 
un'idea). Sempre il 2 giugno, cioe' a 24 ore 
dall'accordo, lo stesso Sandy Berger affermava 
letteralmente, di fronte ai "falchi" favorevoli 
a un intervento di terra: "Non siamo ancora 
giunti alla conclusione che la campagna aerea 
non funziona. Ma ci stiamo preparando alla 
possibilita' che essa non dia risultati". Che il 
giorno prima degli accordi uno dei principali 
"falchi" dell'amministrazione statunitense 
parlasse semplicemente di preparativi per la 
possibilita' che i bombardamenti non dessero 
risultati e' qualcosa di ben diverso 
dall'imminente approvazione di piani operativi 
gia' pronti.

Tutto questo vuol dire che all'interno della 
NATO non si prendeva in considerazione un 
intervento di terra? Nient'affatto. Nella 
situazione senza vie di uscita in cui si 
trovavano in quel momento i "pianificatori" 
della NATO la messa a punto di piani concreti 
per un'invasione di terra era diventata una 
necessita' sgradita (tranne che a Clark), ma, 
nella loro prospettiva, inevitabile. Tali piani 
fino a quel momento non erano pronti, se si 
eccettua l'"idea/piano" di Clark, che nessuno 
voleva. Va notato anche che tra i tanti, enormi, 
problemi di un eventuale intervento di terra vi 
era la lunghezza dei tempi per una sua 
realizzazione: qui Erlanger conferma e 
addirittura accentua quello che nessuno ha mai 
negato, cioe' che un intervento sarebbe stato 
realizzabile solo in autunno. Secondo Erlanger, 
infatti, "i britannici ritenevano che avrebbero 
avuto bisogno di ben quattro mesi [...] per 
prepararsi a un'invasione", mentre "gli 
americani pensavano di avere bisogno di meno di 
90 giorni, ma le loro scadenze sono state 
brutalmente dilazionate quando all'improvviso si 
sono resi conto che, senza significativi lavori 
per la costruzione di nuove strade, i grossi 
carri armati americani M1 Abrams non sarebbero 
riusciti ad affrontare l'unica strada che 
collega l'Albania al Kosovo", senza contare che, 
se si voleva coinvolgere altri eserciti della 
NATO, i tempi avrebbero potuto essere ancora 
piu' lunghi. Un intervento di terra, quindi, 
avrebbe potuto cominciare nell'ipotesi piu' 
ottimistica verso meta' settembre e, in quella 
piu' realistica, verso meta' ottobre, sempre che 
in una sola decina di giorni i suoi propugnatori 
fossero riusciti a convincere non solo Clinton, 
il Pentagono e il Dipartimento della Difesa, ma 
anche gli alleati europei, oppure a preparare il 
quadro politico per una rottura esplicita con 
questi ultimi. Secondo quanto scrive Erlanger, 
infatti, il consigliere per la sicurezza 
nazionale Berger avrebbe lasciato intendere che 
gli Stati Uniti sarebbero stati pronti, pur di 
ottenere una vittoria a tutti i costi, a 
provocare una frattura aperta nella NATO e a 
mandare all'aria i rapporti con la Russia, 
intervenendo da soli, o con la sola Gran 
Bretagna. Che nell'amministrazione USA ci siano 
settori che abbiano pensato a una tale politica 
e' probabile (e Clark ne e' quasi sicuramente il 
principale esponente), ma ben piu' influenti 
sembrano essere quelli che si sono preoccupati 
invece di preservare l'unita' della NATO e di 
mantenere rapporti gestibili con la Russia. 
Dall'articolo di Erlanger, e da altri articoli 
pubblicati in questi mesi, risulta che questi 
ultimi settori, "moderati", sarebbero 
rappresentati niente meno che dalla Casa Bianca, 
dal Pentagono e dal Dipartimento della Difesa, 
come gia' accenato. A tale proposito, e' 
interessante notare che Erlanger scrive come il 
2 giugno funzionari della Casa Bianca "stavano 
ancora [discutendo] della creazione di un 
'corridoio' di uscita per fare defluire dal 
Kosovo gli albanesi sfollati interni e di 'aree 
protette' per loro all'interno del Kosovo 
stesso, dove avrebbero ricevuto cibo e riparo", 
cioe' stavano lavorando a una soluzione 
"bosniaca", che avrebbe portato a una 
spartizione di fatto del Kosovo e/o a un 
lunghissimo "tira e molla" tra NATO e Belgrado, 
che sarebbe potuto durare anche anni. Di fronte 
a questa eventualita', gli Stati Maggiori 
dell'esercito statunitense, pur continuando a 
opporsi a un'invasione di terra e a dare la 
preferenza ai bombardamenti a oltranza, 
avrebbero preferito, se necessario, la soluzione 
"totale" di Clark piuttosto che un "pantano" 
come quello sopra descritto.

Ma al di la' delle fantasie di Clark, quale sarebbe stata la realta' di un tale 
intervento di terra? Avevamo gia' accennato in passato ("Notizie Est" #235, 29 
maggio 1999) ai vari fattori che rendevano da escludersi un intervento di 
terra, se non come ultima mossa disperata di un'alleanza occidentale incapace 
di gestire la guerra da essa stessa avviata. L'articolo di Erlanger parla di 
un'invasione a partire dalla sola Albania (e segnala subito l'ostacolo enorme 
dell'esistenza di un'unica via di accesso al Kosovo, impraticabile senza grossi 
lavori), con un evenutale attacco di disturbo dall'Ungheria. Ma l'Albania non 
e' certo in grado di svolgere il ruolo avuto dall'Arabia Saudita durante la 
guerra del Golfo: come avrebbe potuto la NATO fare partire un attacco da un 
paese privo di risorse e infrastrutture e, soprattutto, noto per essere il piu' 
instabile di tutta l'Europa? Anche un parziale "ricorso" alla Macedonia, a tale 
fine, avrebbe incontrato analoghe difficolta' o addirittura amplificato i 
problemi. Sarebbe stato possibile condurre un intervento di tale portata, dalla 
durata incerta, con delle retrovie cosi' fragili e insicure? Anche un attacco 
di disturbo dall'Ungheria sembra un'ipotesi improbabile, o comunque a rischio 
troppo alto: non solo il parlamento ungherese aveva gia' deliberato in maniera 
irrevocabile il divieto della messa a disposizione del proprio territorio per 
interventi da terra, ma un tale attacco, per quanto diversivo, avrebbe comunque 
rischiato di trasformarsi in uno scontro di ampie dimensioni e, con facili 
altre ritorsioni "diversive" dell'esercito jugoslavo contro la popolazione 
ungherese della Vojvodina, di ampliare di molto il teatro del conflitto. Come 
avrebbero fatto, inoltre, la NATO, o i soli Stati Uniti e Gran Bretagna, a 
gestire per altri tre mesi (ipotesi piu' ottimistica) dei rapporti interni che 
erano gia' piu' che logori a fine maggio? O a gestire addirittura, in attesa 
dell'intervento di terra, una situazione di rottura con gli altri paesi NATO e 
con la Russia? Come avrebbero potuto tenere insieme il sostegno degli altri 
paesi balcanici, gia' alle corde sia per motivi interni sia per lo 
sconvolgimento dei loro gia' precari rapporti economici con l'estero? Non si 
puo' inoltre ignorare che, se messo davvero alle strette in tale maniera, il 
regime di Belgrado avrebbe avuto modo di aprire altri fronti: sia internamente 
in Vojvodina, nel  nel Sangiaccato o in Montenegro, che esternamente in Bosnia, 
in Macedonia o, addirittura, anche in paesi confinanti come Albania e Bulgaria. 
Senza dimenticare infine che, come dimostrano le esperienze passate, anche in 
contesti meno complessi difficilmente i paesi occidentali si impegnano in 
interventi in cui esista il rischio di scontri diretti e quindi di subire 
vittime.

L'ipotesi, che traspare chiaramente dalle testimonianze citate da Erlanger, di 
una decisione da parte di USA e/o Gran Bretagna di procedere da soli con una 
tale operazione, avrebbe risolto si' gli impacci causati dalla mancanza di 
coesione all'interno della NATO, riconoscendo in maniera aperta e brutale la 
spaccatura esistente e magari incontrando un tacito assenso da parte dei paesi 
con maggiori difficolta' di ordine interno (Italia, Germania, Grecia), che si 
sarebbero visti cosi' sollevati da responsabilita' dirette, ma avrebbe lasciato 
in mano ai suoi esecutori un dopoguerra politicamente e militarmente da incubo, 
che avrebbero dovuto affrontare da soli, a partire dalla responsabilita' della 
"ricostruzione", fino alla ricomposizione del quadro politico generale, al 
controllo militare sul terreno, e questo su tutto il territorio dei Balcani, 
senza potere ricorrere alla NATO e con una rottura dei rapporti con la Russia. 
Viste le grandi difficolta' che si riscontrano ancora oggi, a cinque mesi dagli 
accordi di giugno e in un contesto tutto sommato pacifico, con la Jugoslavia 
che ha diligentemente osservato tutte le condizioni, e' difficile immaginarsi 
come i soli Stati Uniti e/o la Gran Bretagna avrebbero potuto affrontare il 
dopoguerra dopo gli sconvolgimenti di un intervento di terra (che nella 
migliore delle ipotesi, inoltre, sarebbe finito in inverno, con i profughi 
ancora non rientrati).

Tuttavia, dalle testimonianze degli ultimi mesi, e' innegabile che importanti 
settori dell'amministrazione USA (e della Gran Bretagna), stessero pensando di 
prendere concretamente in considerazione una tale ipotesi. Il fatto che oggi 
molti esponenti di tali governi cerchino, attraverso le loro rivelazioni 
rilasciate ai media, di presentare tali progetti ancora non messi a punto come 
una decisione nei fatti gia' presa, che sarebbe stata uno dei fattori 
principali che avrebbero spinto Milosevic ad accettare un accordo, ci sembra 
piu' che altro il volere mettere a posteriori una dolorosa pezza sulle estreme 
difficolta' della NATO e sulle profonde divisioni evidenziatesi all'intero 
dell'alleanza e degli stessi vertici statunitensi. Non va tuttavia trascurato 
che e' esistita almeno la disponibilita' a prendere in considerazione una mossa 
che avrebbe precipitato gli interi Balcani ancora piu' nel baratro, cosi' come 
non va ignorato che, secondo quanto riferisce Erlanger, il 2 giugno erano 
ancora reali i progetti che prevedevano una spartizione "bosniaca" del Kosovo, 
anch'essi con conseguenze tragiche e a lungo 
termine per gli interi Balcani. In entrambi i 
casi (ma anche in quello del proseguimento "a 
oltranza" dei bombardamenti), la NATO, e i paesi 
che la compongono avrebbero compiuto un fatto 
dalle conseguenze gravissime, ma che avrebbe 
comunque solo confermato la sostanza della 
storia di ormai quasi un decennio di loro 
interventi nei Balcani, una storia fatta di 
imposizione della propria violenza, di sostegno 
politico e materiale a regimi repressivi e 
autoritari, di colonizzazione e di brutale 
sfruttamento economico, ma anche di generazione 
di instabilita' e di incapacita' di gestire la 
situazione a livello sia politico che militare.


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